NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI

EMANUELE SEVERINO.

 

 

 

Tesi di laurea in Sociologia dell’arte e della letteratura.

 

 

 

Relatore:                                                                                                                         Presentata da:

 

Prof. Stefano Benassi                                                                                            Francesco Cardone

 

 

 

 

Sessione I

 

Anno Accademico 2003-2004.

 

 

 

 

 

INDICE

Introduzione…………………………………………………………………………….....2

I. IL SENTIERO DELLA NOTTE…………………………………………………….8

 

1.1) Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il sentiero della notte…….10

 

1.2) Téchne, il culmine del nichilismo…….……………………………………………...21

1.3) Nichilismo, téchne e poíesis…………….………………………………………...….33

 

1.4) Il linguaggio, il mortale e l’agire della tecnica…………………….……………….64

 

II. IL SENTIERO DELLA NOTTE NELLA POESIA……………………………74

 

2.1) Eschilo e Leopardi: origine e compimento dell’Occidente……….……………......75

 

2.2) Tragedia ed epistéme (Eschilo)……………….……………………………………..80

 

2.3) Hýbris e Dike………….……………………………………………………………...95

2.4) Prometeo: la téchne come phármakon………….…………………………………112

2.5) Divenire, nulla, illusione e poesia in Leopardi………….………………………...118

2.6) La ginestra: nulla, tecnica e poesia………….……………………………………..134

III. IL SENTIERO DEL GIORNO NELL’ARTE………………………………...158

 

3.1) L’epistéme: l’identità dell’essere eterno……………………………………….….159

3.2) Il sentiero del giorno: l’apparire dell’eterno………….…………………………..188

3.3) L’epistéme dell’arte: l’identità dell’opera d’arte………………….……………...208

3.4) Il sentiero del giorno dell’arte: l’eterno apparire dell’opera d’arte…….………221

Bibliografia……………………………………………………………………………...249

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione.

 

Per Emanuele Severino tutta la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo, inteso come l’identificazione dell’essere col nulla. Il pensiero occidentale, prima che raggiunga la sua piena trasparenza nel pensiero di Leopardi, non affermerà mai direttamente l’identificazione dell’essere con il suo opposto, eppure questa identificazione scorre sotterraneamente lungo tutta la storia dell’Occidente. Concetti quali divenire, nichilismo, tecnica, poíesis, volontà di potenza, hýbris, arte, poesia, sono l’inconscia espressione di questa folle identità.

La storia dell’Occidente è la storia dell’inoltrarsi del pensiero lungo il sentiero della notte, indicato per la prima volta da Parmenide, e che egli stesso mostrava come impossibile ed impraticabile. Eppure, è proprio questo sentiero della notte l’unico sentiero che l’Occidente ha percorso.

Il culmine di questo sentiero è la nostra epoca, quella che vede nella tecnica la nuova matrice dell’esistenza dell’uomo. Se in tutta la storia dell’Occidente il divenire annientante delle cose è stato sempre contrapposto all’epistéme dell’essere eterno e trascendente, che come tale sta al di là del divenire, con il compimento della storia dell’Occidente, l’eterno deve inesorabilmente tramontare, in quanto rende impossibile l’evidenza del divenire nichilistico, quell’evidenza che è già presente quando l’Occidente fonda l’epistéme dell’eterno, ma, appunto, in lotta con quest’ultimo. La storia dell’Occidente è dunque la storia della dialettica tra l’eterno e il divenire, dialettica che, però, deve tramontare, perché il divenire sia l’unica verità. La tecnica compie questo tramonto, perché aderisce completamente alla tendenza annientante del divenire nichilistico, è esso stesso divenire. La sua struttura è ipotetica in quanto tale, ed è solo per questa sua capacità di non radicarsi su un fondamento stabile, che permette alla tecnica di dominare tutto l’essente. Sciolto da qualsiasi legame la tecnica diventa la struttura che più si può adattare ai continui mutamenti del divenire, di quel divenire che per tutta la storia dell’Occidente rimane l’evidenza assoluta della realtà. Ma perché la tecnica diventi l’espressione più coerente del divenire, gli immutabili della metafisica debbono tramontare, Dio stesso deve morire.

Questa continua ed inesorabile purificazione del divenire dall’eterno trascendente la troviamo compiutamente espressa nella storia del concetto della poíesis, quale fondamento stesso dell’arte. La poíesis indica il produrre in quanto tale, il portare fuori qualcosa nell’apparire. All’inizio della storia dell’Occidente la poíesis è possibile solo perché si fonda su un sapere mimetico, che ha il suo fondamento nella verità immutabile dell’essere, come le idee platoniche. Lungo la storia dell’Occidente la poíesis ha dunque un referente ultimo che è la verità immutabile, ma questa verità deve al termine di questo sentiero tramontare. Ma con questo tramonto la poíesis, perdendo il suo referente ultimo, deve aderire esclusivamente al divenire nichilistico, diventare essa stessa divenire nichilistico “senza perché” e senza una meta ultima. Ed è solo per questa sua completa aderenza al divenire nichilistico che si è reso possibile qualcosa come l’arte contemporanea, che appunto ha sgretolato i principi millenari dell’arte. L’hegeliana «morte dell’arte» può essere intesa come lo scioglimento del produrre artistico dal referente eterno ed immutabile su cui tale produrre si era sempre fondato.

La grandezza dell’arte sta nella sua capacità di cogliere la tendenza fondamentale delle epoche e di mostrarla nella sua opera. Al di là di qualsiasi riduzione dell’arte a qualcosa di meramente ludico e frivolo, essa è uno degli occhi privilegianti dove l’essenziale viene colto e mostrato. In particolare, Severino mostra come l’opera poetica di Eschilo e Leopardi non si riduce ad opera prettamente letteraria, ma in essa si esprime la profondità di tutto il pensiero occidentale, dal suo inizio fino al suo compimento. L’opera di Eschilo e Leopardi è opera eminentemente pensante, il suo essere poetante è un tutt’uno col suo essere pensante.

L’intento dell’interpretazione di Severino è quella di far emergere dall’opera poetica di questi due autori la profondità filosofica del loro pensiero. Ebbene, questa interpretazione mostra che il pensiero-poetante di Eschilo e Leopardi stanno rispettivamente all’inizio e al termine di tutta la storia del pensiero nichilista dell’Occidente. Ma non nel senso che ne sono i “cantori”. Nella loro opera pensante cioè non è semplicemente mostrato quello che è già “semplicemente presente”, e che viene ridetto nel linguaggio della poesia, bensì la loro opera anticipa ciò che sarà la storia dell’Occidente, guardano e mostrano sino in fondo il sentiero della notte che l’Occidente è destinato a percorrere fino al suo compimento. Anticipando il senso di questo sentiero che l’Occidente è destinato a percorrere, essi in un certo qual modo fondano il senso di questo percorso. In particolare: da una parte, Eschilo mostra il senso che l’epistéme ha per tutta la storia dell’Occidente; dall’altra, Leopardi mostra che la stessa epistéme è destinata a tramontare, anticipando il significato essenziale della tecnica della nostra epoca.

Eschilo per primo mostra il senso dell’epistéme, perché coglie il rapporto essenziale che lega originariamente il senso dell’eterno con il senso del divenire. Quindi, Eschilo mostra il significato essenziale che l’epistéme e il divenire avranno per tutto l’Occidente. A partire dal pensiero greco il divenire è inteso come annientamento, distruzione non reversibile dell’essente, ma anche la stessa provenienza dell’essente viene pensata come nulla, come novità assoluta. Partendo da questa evidenza, Eschilo per primo pensa l’ epistéme come “rimedio” contro la “malattia” annientante del divenire. Con Eschilo sorge la dialettica tra divenire ed eterno, intesa nella sua essenza come dialettica tra malattia e rimedio. Infatti, nell’opera di Eschilo l’evidenza dell’annientamento dell’essente nella sua unicità viene contrapposta al sapere epistemico del principio del Tutto (Zeus) che è «sempre salvo», e che solo può liberare il mortale dal dolore dell’annientamento. Questa liberazione, però, non significa il toglimento del senso nichilistico del divenire, che rimane l’evidenza suprema dell’Occidente, ma significa che solo sapendo che l’essenza di ogni cosa è «sempre salva» nel principio del Tutto, il mortale può liberarsi con verità dal dolore. Sapendo che la propria essenza è sempre salva nel principio del Tutto, il mortale può scacciare con verità il dolore del divenire, ma l’essenza sempre salva non è per Eschilo l’interezza dell’uomo, bensì solo quella parte che appunto appartiene al principio del Tutto: quell’essenza che l’Occidente chiamerà con la parola “anima”. Ma al di là di quest’essenza Eschilo sa che tutte le cose sono destinate ad essere annientate. Sa che il principio del Tutto non può salvare il mortale nella sua interezza dall’annientamento del divenire, ma solo quella parte che proviene e ritorna nel principio eterno del Tutto.

Ma se Eschilo inaugura la dialettica tra malattia e rimedio, Leopardi fa un passo ulteriore, mostrando il carattere illusorio dell’epistéme,  mostrando in sostanza che anche l’essenza di ogni cosa è destinata ad essere annientata. Con Leopardi il divenire annientante diventa l’unica verità eterna dell’essente nella sua totalità. Ogni cosa proviene e ritorna nel nulla. Nessun principio regola il divenire dell’essente. Con Leopardi l’Occidente raggiunge il suo compimento, che si mostra come il tramonto degli immutabili della metafisica e della corrispondente dialettica tra l’eterno e il divenire nichilistico, il quale permane come unica verità dell’essente nella sua totalità. La tecnica che nel pensiero di Eschilo è più debole della Necessità del Tutto, con il compimento della storia dell’Occidente, diventa la struttura più potente, in quanto l’unica che riesce ad essere veramente coerente con il divenire nichilistico. Leopardi, cogliendo l’essenza nichilistica di tutto l’essente, diventa, oltre al primo vero nichilista dell’Occidente, ancor prima del pensiero di Nietzsche, anche il primo pensatore della tecnica odierna. Con Leopardi l’unico rimedio che può contrapporsi al nulla non può essere più la verità eterna del Tutto, ma l’illusione della poesia: il profumo della ginestra. Le illusioni della poesia, dell’opera del genio, non appartengono alla struttura immutabile della verità epistemica, esse sono equiparabili al profumo certamente vivificante della ginestra, che si diffonde sul deserto del divenire annientante, ma allo stesso modo appartengono al deserto, alla mortalità di tutte le cose. Nella dimensione piena del nichilismo non vi è più salvezza, ogni cosa è destinata inesorabilmente ad essere annientata.

Ma quando il pensiero Occidentale con Leopardi raggiunge la sua più piena trasparenza, nel senso appunto che per la prima volta viene affermato ciò che l’Occidente custodisce nel proprio inconscio, ossia l’essere nulla da parte dell’essente, si mostra la follia di questo pensiero, quello appunto che sta nell’identificare gli assolutamente opposti: l’essere e il nulla.

Se però questa identità tra l’essere e il nulla, che lungo tutta la storia del pensiero occidentale rimane il fondamento mai mostrato pienamente prima di Leopardi, d’altra parte, l’Occidente e con esso lo stesso Leopardi non coglie la follia insita in questa identità e nel conseguente divenire nichilistico. Nel senso che la follia dell’Occidente non viene pensata come follia, ma come la verità evidente dell’essente diveniente.

Ma una volta colta pienamente la follia del pensiero occidentale che si è inoltrato già dalla sua origine lungo il sentiero della notte, è possibile ritornare al bivio indicato da Parmenide e inoltrarsi lungo il sentiero del giorno, il sentiero che dice che l’essere è e non è il non essere?

Per Severino questo sentiero è l’unico che in verità può essere percorso, in quanto, appunto, il sentiero della notte è il sentiero della follia, di ciò che non può essere in alcun modo, il sentiero in cui il nulla può essere predicato solo del nulla. Questo significa che il sentiero della notte è in verità l’errata interpretazione del sentiero del giorno: questa interpretazione è lo stesso Occidente.

Se, dunque, l’unico sentiero che da sempre l’uomo necessariamente percorre è quello del giorno, allora al di sotto dell’inconscio dell’Occidente, si scorge la verità eterna dell’essere: l’inconscio di questo inconscio.

Nel sentiero del giorno indicato da Parmenide l’essere è eternamente identico a se stesso, solo perché si oppone eternamente al nulla. Ma, il punto essenziale del pensiero di Severino che va oltre Parmenide, è che l’essere eternamente se stesso non è l’essere svuotato della molteplicità diveniente, ma è la totalità dell’essere: tutte le positività che come tali si oppongono al nulla. Dunque, l’essere eterno ed eternamente se stesso è la totalità dell’essente, dall’infimo granello di sabbia alla volta celeste, tutto è eterno, ed eternamente identico a se stesso: questo è per Severino l’autentico contenuto dell’epistéme.

Se questo è il punto di partenza del pensiero dell’essere di Severino, l’ultima sezione di questo lavoro propone in via del tutto “ipotetica” una possibile interpretazione dell’arte mediante il pensiero dell’essere eterno di Severino. È questo un tentativo, in quanto Severino non ha esposto nel suo pensiero quale significato l’opera d’arte debba avere nel sentiero del giorno, in cui la totalità dell’essere è eternamente se stessa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I. IL SENTIERO DELLA NOTTE
1.1 Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il sentiero della notte.

 

Ε̉́στι γὰρ ει̃ναι, μηδὲν δ’ου̉κ ε̉́στιν (Parmenide fr. 6, vv. 1-2): l’essere infatti è, mentre il nulla non è.

 

Per Severino[1] tutta la storia della filosofia occidentale può essere interpretata come l’alterazione e la conseguente dimenticanza del senso dell’essere, intravista inizialmente dal più antico pensiero greco[2]. Le parole che indicano originariamente l’annuncio della verità dell’essere sono i primi due versi del frammento 6 del poema di Parmenide  «ε̉́στι γὰρ ει̃ναι, μηδὲν δ’ου̉κ ε̉́στιν». Eppure sono proprio queste parole ad essere state dimenticate, portando alla struttura odierna dell’Occidente. Le parole di Parmenide non indicano una proprietà dell’essere, ma mostrano il senso dell’essere:  «l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi»[3]. Proprio nell’opposizione tra il positivo e il negativo sta il grande tema della metafisica. Eppure dopo Parmenide (ma dovremmo dire già con lui) l’opposizione tra l’essere e il nulla resta nell’ambiguità. Resta nell’ambiguità, perché con il progressivo sviluppo della tesi dell’essere grazie a Platone ed Aristotele: l’essere si oppone al nulla sin tanto che esso è[4]. Con queste ultime parole l’ambiguità è già divenuta fatale e con ciò il senso dell’essere è tramontato. In sostanza, con questa caratterizzazione temporale - sin tanto che esso è – si ha il tramonto della verità dell’essere, ossia della sua necessità (a-temporale): l’essere è certamente, ma solo quando è; il nulla non è, ma solo quando non è. Tutto questo lo troviamo esplicitato in modo rigoroso nel Liber de Interpretatione di Aristotele (19a 23-27). La differenza che si manifesta sta tra la necessità che l’essere sia, quando è, e la necessità simpliciter che l’essere sia. Il passaggio dalla seconda necessità alla prima comporta che: «”l’essere che non è” quando non è, non è altro che l’essere fatto identico al nulla, “l’essere che è nulla”, il positivo che è negativo. “L’essere non è” significa precisamente che “l’essere è il nulla”, che “il positivo è il negativo”»[5]. Con questo pensare il tempo in cui l’essere è il nulla significa negare simpliciter la verità dell’essere, che appunto nega che vi sia un tempo in cui l’essere sia il nulla, il positivo sia il negativo. Ma la verità dell’essere, ε̉́στι γὰρ ει̃ναι, l’essere è, dice che l’essere che è non è il nulla, in quel “è” è già incluso il suo non essere il suo opposto, il suo non essere il negativo. Il travisamento del senso dell’essere sta tutto in questo credere che vi sia un tempo in cui il positivo sia il negativo: questa la follia dell’Occidente. L’errore sta nell’acconsentimento che l’essere sia nel tempo: divenga[6]. Dei due sentieri indicati da Parmenide, quello in cui l’essere è ed è impossibile che l’essere sia il non essere (il sentiero del giorno) e quello in cui l’essere è il non essere (il sentiero della notte), ebbene di questi due sentieri l’occidente ha percorso quello della notte, ponendo l’essere nel tempo, in cui a volte è e a volte non è.

Se però andiamo più in profondità notiamo che Parmenide è sia il primo ad annunciare la verità intramontabile dell’essere sia il primo responsabile del tramonto dell’essere. Infatti per Parmenide l’essere non è le differenze che si presentano nell’apparire del mondo, le molteplici determinazioni che si manifestano sono soltanto dei nomi, e quindi non sono l’essere: il rosso, la casa, l’albero poiché non significano “essere”, in base alla opposizione tra il positivo e il negativo, queste determinazioni sono “nulla”. L’essere parmenideo per Severino è l’essere trascendente[7], che nega la molteplicità reale, la quale soggetta al divenire è nulla. Successivamente l’elaborazione platonica della differenza tra il non-essere come contrario (ε̉ναντίον) e il non-essere come altro (ε̉́τερον) dall’essere è stata per il pensiero occidentale tanto più fatale quanto essenziale. Perché essa porta le differenze nell’essere, ma continua a lasciarle nel tempo, da cui prende inizio la ricerca di quell’essere che è fuori del tempo: gli immutabili della metafisica. Con Platone le differenze vengono ricondotte nell’essere, perché se le singole determinazioni (rosso, casa, albero ecc.) non significano essere, dall’altra non significano neanche nulla; se quindi non significano nulla, allora di esse si deve predicare l’essere, il quale è un respinger via il nulla. In tal modo l’essere diventa predicato di ciò che gli è diverso (ε̉́τερον), non di ciò che gli è opposto (ε̉ναντίον). Perciò con Platone dire che il “non-essere è” non significa più che il negativo è il positivo. L’essere parmenideo diventa il predicato di tutte le determinazioni[8]. Ma riconducendo le differenze (determinazioni) nell’essere, l’essere viene interpretato come ciò che può, anzi deve, a volte non essere. L’irruzione delle differenze del molteplice nell’area dell’essere porta ad interpretare l’intero del positivo sulla traccia del positivo empirico, in conseguenza dell’idea che l’essere è quando è e non è quando non è, vede l’essere come un oscillare tra la positività e la negatività: il divenire. Sono quindi le determinazioni molteplici che indicano adesso il senso dell’essere. Da ciò segue che dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale diventerà una fisica[9].

Il nichilismo è il tratto essenziale della storia dell’Occidente[10]. È certamente un tratto nascosto, nel senso che il pensiero occidentale apertamente non ammette il suo essere nichilistico, ma solo a livello inconscio. Eppure se ci inoltriamo nelle trame del suo pensiero cogliamo tale carattere. Non a caso l’essenza della libertà, di quel concetto così caratterizzante l’Occidente appartiene all’essenza del nichilismo[11]. Ma quando si manifestano i tratti essenziali del nichilismo?

 Come abbiamo già accennato essi si manifestano nella metafisica greca, e in particolare quando il concetto di cosa si identifica con quello di ente. Il pensiero greco in particolare identifica il τό τι con τὸ ο̉́ν; con il primo termine il pensiero greco nomina il qualcosa (aliquid), con il secondo nomina l’ente. La cosa più interessante è che il qualcosa viene identificato con l’ente quando è sia inteso come soggetto della contrapposizione tra l’essere e il niente, diventando l’opposto del niente, sia come ciò che si mantiene legato sia all’essere che al niente. Insomma, da una parte l’ente è pensato come ciò che si oppone al niente, dall’altra come ciò che è insieme non-niente e niente. Mentre nel linguaggio premetafisico tale contrapposizione rimane celata, con la metafisica tale contrapposizione è perfettamente delineata, e diventa lo sfondo dell’Occidente. Nella dimensione mitica infatti tale contrapposizione non è presente, esiste certamente la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti, ma quest’ultimo non è inteso come dimensione del niente, del totale congedo, anzi le cose di tale mondo sono estremamente incombenti e richiedono un’estrema cura.

Con la metafisica di Platone si ha l’equiparazione della cosa all’ente, perché si ha la contrapposizione della cosa al niente, al μὴ ο̉́ν: dire che il qualcosa, τό τι, si contrappone al niente, μὴ ο̉́ν, per Platone è lo stesso dell’ente, τὸ ο̉́ν, che si contrappone al ni-ente, μὴ ο̉́ν. Se poi verifichiamo cosa è per Platone l’ente troviamo lo stretto rapporto tra ente e cosa: l’ente è “ciò” che non è un niente, il “ciò” è il τι, il qualcosa. Ora, nel pensiero di Platone la cosa è certamente legata all’essere, ossia la cosa “è”, ma tale legame non è eterno, non è quindi necessario. La cosa si trova fra l’essere e il niente, contesa da entrambi. La contesa in greco si dice ε̉́ρις, mentre έρίζειν è il contendere dei contendenti, il dibattersi del conteso tra i contendenti. Platone può allora dire che la cosa è ε̉παμφοτερίζειν, il dibattersi tra l’uno e l’altro, tra l’essere e il niente[12]. Ma la sfera di questo dibattersi per Platone non è oggetto dell’ε̉πιστήμη, la quale ha come oggetto l’ente eterno ed immutabile, l’ente che sempre “è” senza alcuna contesa; la dimensione della contesa tra essere e niente appartiene alla δόξα, all’opinione, la quale non si basa su una verità ferma e necessaria, ma sulla contingenza, sull’indecisione tra essere e niente, anzi proprio perché l’ente contingente è indeciso, è compagno di entrambi[13]. La sfera dell’opinione è il divenire, in cui l’ente nasce (entra nell’essere) e perisce (ritorna nel nulla). Da ciò si deduce che con l’ε̉παμφοτερίζειν non si apre la sfera dell’ente in quanto ente, ma dell’ente in quanto diveniente[14]. Ma, a sua volta, questo comporta che quando Platone parla dell’ente immutabile, egli non lo intende tale in quanto ente, ma in quanto un certo ente, l’idea; la quale in primo luogo non è un ente sensibile, ossia soggetto al processo del divenire. L’ente in quanto ente non è immutabile per definizione, perché altrimenti ogni ente sarebbe immutabile ed eterno. Il che ci fa dire che l’ente in quanto ente è indeciso tra l’essere e il niente, la sua dimensione è l’ε̉παμφοτερίζειν, conteso tra l’uno e l’altro. Se da una parte per Platone la cosa non è un niente, dall’altra può non essere, ossia essere un niente. Grazie a Platone la metafisica si fonda inconsciamente sul nichilismo, su quel pensiero che consciamente nega che la cosa sia niente, ma inconsciamente identifica la cosa col niente. Il carattere inconscio del nichilismo si evidenzia dal fatto che, per Platone, se da una parte una cosa che “è niente” è inconoscibile, si pone comunque che una cosa possa non essere, in sostanza non avverte la necessità che l’impossibilità di conoscere una cosa nientificata sia innanzitutto dovuta all’impossibilità che una cosa (un non-niente) non sia. È proprio nel non cogliere questa necessità che il pensiero occidentale si erige nella sua essenza. L’ente si trova in una dimensione indecisa, tra l’essere e il niente, in un’oscillazione che non ha fine. Non a caso per Platone l’ente è immutabile non in quanto ente, ma in quanto idea; ciò vuol dire che l’ente in quanto ente (non semplicemente l’ente diveniente) è indeciso (ε̉παμφοτερίζειν) tra l’essere e il niente. Se però ci chiediamo cosa intenda Platone come anche Aristotele per divenire, constatiamo che esso non è interpretato come passaggio dal puro essere al puro niente, al niente assoluto. Ad esempio, nella costruzione di una casa, l’ente particolare che sarà quella casa così fatta non è ancora, ma i materiali che la compongono erano prima che la casa venisse costruita. Ciò che esce e ritorna nel nulla non è tutto l’ente ma la sua unità, il suo essere un unicum. Questo è certamente in contrasto con il principio della sostanza di Aristotele, per cui è la sostanza, appunto l’unità di ogni ente ad essere immutabile, mentre sono i suoi attributi a mutare. Eppure l’unità della casa, di una casa, prima che venga costruita non è. Se andiamo più in profondità si constata che anche i materiali di un’unità sono a loro volta prodotti o per natura o grazie all’operato dell’uomo, il che ci porta a dire che anche la materia esce e ritorna nel nulla. In sostanza Aristotele, pur ammettendo che ogni cosa è un non-niente, asserisce anche che ogni cosa oscilla tra l’essere e il niente; se quindi ammette che la cosa “è”, è inseparabile dal suo essere, dall’altra uscendo e ritornando nel niente, ciò che in realtà subisce tale processo è il suo essere, il suo non essere un niente: il fondamento inconscio dell’Occidente è quello di identificare il non-niente col niente, il positivo col negativo. È questa la follia che l’Occidente non vede, ma ha sempre perseguito: dire che la cosa è un ente, ossia è legata all’essere e che la cosa come tale esce e torna nel niente, significa dire che l’essere è niente, appunto il positivo è il negativo, che è di per se stesso impossibile, perché identifica gli opposti, ciò che per essenza non possono mai identificarsi. Ecco l’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa, dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio[15]. La contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come contrapposizione ad una “certa parte” dell’ente, e non come nulla assoluto, il nulla si pone come un τι, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente. Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente, ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente: l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente.

Da questi risultati si ottiene che l’ente pensato nel suo essere frapposto tra l’essere e il niente (ε̉παμφοτερίζειν) è il presupposto della libertà. In greco libertà si dice ε̉λευθερία, composto dalla parola λύω, che significa sciolgo, libero. La parola libertà originariamente non è semplicemente la libertà del mortale o degli dei, ma la libertà dell’ente in quanto ente, il suo essere sciolto dai legami, il suo essere appunto libero[16]. Ora il concetto di libertà presuppone l’assenza di qualsiasi necessità, che come tale vincola l’ente; in sostanza la libertà presuppone la contingenza dell’ente. Ma proprio l’ ε̉παμφοτερίζειν dell’ente mostra nel modo più netto questo essere liberi da qualsiasi legame: in quanto conteso dall’essere e dal nulla, l’ente è libero da qualsiasi legame: l’ente può essere come anche non essere. Sarebbe interessante evidenziare come questo concetto di libertà quale ciò che si oppone alla necessità, si sia sviluppato in tutti gli ambiti della storia dell’Occidente, pensiamo solo alla sfida del mortale contro i lacci degli dei, alla trasgressione di Adamo al divieto divino. Certamente questa tendenza a liberarsi della dimensione soprasensibile per il mortale è destinata al fallimento. Eppure se pensiamo alla dimensione dell’ente lo scioglimento è possibile, perché, come si è visto, l’ente in quanto ente si fonda sul concetto di libertà (ε̉παμφοτερίζειν). «Ci si libera da qualcosa perché la cosa stessa, innanzitutto, è un liberarsi»[17]. Tale libertà è libertà infinita, perché percorre la distanza tra gli estremamente opposti (essere e nulla), liberandosi in modo estremo dall’uno e dall’altro. È con l’instaurarsi di questo frammezzo che inizia la storia dell’Occidente come storia della libertà. In questa dimensione la schiavitù è interpretata come il legame che trattiene l’ente nell’essere o nel niente, ma è un legame provvisorio. La schiavitù trova quindi fondamento nella libertà, poiché è l’indugiare dell’ente in uno dei due estremi della sua libera oscillazione.

La libertà così intesa (ε̉παμφοτερίζειν) è a fondamento del binomio occidentale di creazione-distruzione. La creazione infatti è la libertà dal niente, mentre la distruzione è la libertà dall’essere.

Possiamo con ciò dire che «il demiurgo platonico, la volontà dei mortali, il dio creatore del cristianesimo, la macchina, le rivoluzioni della borghesia e del proletariato, la civiltà della tecnica non aggiungono nulla alla pura essenza della libertà, ma costituiscono i vari modi in cui, nella storia occidentale, la metafisica si è proposta di guidare la libertà dell’ente»[18]. Con la metafisica la persuasione che l’ente in quanto ente sia niente sopraggiunge insieme alla persuasione che l’ente è eterno, in quanto è un certo ente, privilegiato, “divino”. Si può anzi dire che l’eterno è la condizione della libertà del perituro, ma anche il contrario, ossia che la persuasione della nientità dell’ente è il fondamento dell’affermazione dell’eterno. Questo reciproco rispecchiarsi è possibile solo con l’ε̉παμφοτερίζειν dell’ente. Questo significa anche che il pensiero metafisico, restando fermo sul fondamento della nientità dell’ente, scorge il naufragio di ogni affermazione dell’eterno, nel senso che l’affermazione dell’eternità è voluta dal mortale come legame di quel particolare ente all’essere, ma esso naufraga perché si contrappone alla libertà dell’ente in quanto ente dall’essere. Proprio per l’evidenza di tale libertà gli eterni, nella storia dell’Occidente, sono destinati al tramonto: qui l’essenza dell’età della tecnica. Il tramonto dell’eterno sta anche nel fatto che l’ente eterno essendo il senso del tutto, quindi anche degli enti divenienti, quelli cioè che sono niente (in quanto divengono niente), contraddice se stesso. Se cioè l’ente eterno è eternamente legato all’essere non può raccogliere l’ente che è libero di non essere. L’evidenza della libertà dell’ente richiede quindi il tramonto degli eterni.

È il senso della cosa che porta alla forma estrema della volontà di potenza. Essa si esprime come volontà di guidare l’oscillazione tra l’essere e il niente, ossia sulla volontà di separare l’ente dal suo “è”, rendendolo disponibile all’essere ed al niente. È questa disponibilità che la volontà vuole. Allo stesso modo il disponibile, l’ente come ε̉παμφοτερίζειν, è anche una minaccia per la volontà, perché, progettando di dominarlo, può anche fallire nel suo intento. La volontà vuole che l’ente sia contingente, ma volendo questo implica anche l’insicurezza del suo dominio.

La storia della metafisica può essere intesa come il progressivo liberarsi degli immutabili, il suo allontanarsi dalla verità ferma e stabile: l’ε̉πιστήμη. È l’evidenza della libertà dell’ente ad esigere la distruzione di ogni sapere incontrovertibile[19]. Questa progressiva emancipazione del divenire dagli immutabili comporta anche che l’evidenza della libertà dell’ente è per la metafisica una forma di sapere incontrovertibile, ossia epistemica. Quindi l’ε̉πιστήμη unisce in sé due tratti contrastanti: da una parte pensa l’ente come oscillazione tra l’essere e il nulla, dall’altra vuole determinare in modo incontrovertibile il senso dell’ente, in quanto ente. Ma la seconda forma di ε̉πιστήμη rende impossibile la prima forma di ε̉πιστήμη, come anche il contrario. Se infatti l’ente è ε̉παμφοτερίζειν, qualsiasi determinazione incontrovertibile dell’ente è negata. Se l’ente esce e ritorna nel niente non può essere oggetto di una verità epistemica, in cui ogni ente ha senso rispetto al tutto dell’ente, indissolubilmente legato ad esso[20]. L’ente che esce dal nulla è novità assoluta che, appunto, mette in questione ogni verità posseduta. L’ε̉πιστήμη, allora, può essere solo verità storica, espressione del senso secondo il quale l’ente si crea di volta in volta nel suo divenire. Diventando verità storica, l’ε̉πιστήμη diventa scienza epistemica e sperimentale, passando da scienza del tutto a scienza della parte. Il culmine di questo processo si ha nell’epoca della tecnica, nell’epoca dell’ipotesi e della specializzazione scientifica. Nella forma estrema del nichilismo – la coerenza del nichilismo – l’ente è ad un tempo diverso dal niente e uguale al niente. Tali contrapposizioni non stanno sullo stesso piano: la persuasione che l’ente sia niente è l’inconscio dell’Occidente che non può raggiungere, perché questo comporterebbe l’identità degli opposti, cosa che sia logicamente sia fenomenicamente[21] è impossibile; la persuasione che l’ente sia diverso dal niente è l’inconscio dell’inconscio dell’Occidente che esso può raggiungere, appunto perché afferma l’identità dell’ente con se stesso che in quanto tale nega il suo essere identico al suo opposto[22].

Il nichilismo nella sua coerenza diventa negazione incontrovertibile dell’incontrovertibile.

Nell’ε̉παμφοτερίζειν l’ente non è solo libero dall’essere e dal niente, ma anche il modo in cui diviene è libero, in sostanza  l’ε̉παμφοτερίζειν è la contingenza assoluta dell’ente[23]. La storia è libertà, perché avrebbe potuto realizzarsi in modo del tutto diverso da come in effetti si è realizzata. A tale libertà appartiene il libero arbitrio dell’uomo.

Nel pensiero greco la libertà dell’ente viene fondata in modo rigoroso dalla dottrina aristotelica dell’essere, intesa come passaggio dalla potenza all’atto. Tale passaggio per Aristotele non è necessario ma contingente, ed indica l’essenza del divenire: che un ente in potenza divenga atto, ossia “è”, non è necessario ma contingente. Nella prospettiva della contingenza un ente ha la possibilità di non essere come anche di essere solo fin tanto non è ancora, quando invece entra nell’apparire quest’ente non ha più la possibilità di essere, ma solo di uscire dall’apparire[24]. A rigor di termine un mondo che ancora non esiste ma che potrebbe esistere non è un contenuto dell’apparire, perché appunto non appare nell’attualità. Si coglie insomma che dalla prospettiva del nichilismo non vi è connessione alcuna tra ciò che appare e ciò che non appare. In tal senso in termini aristotelici la capacità di un ente di passare all’atto non appare prima che l’atto si compia, solo quando appare si coglie la sua capacità (potenza) di apparire.

Nel linguaggio nichilistico «l’azione è la volontà di potenza che fa passare la cosa dal non essere all’essere; l’essere, in quanto azione nominata dal verbo, è il contenuto della forma originaria della volontà di potenza, che, proprio perché vuole l’ε̉παμφοτερίζειν della cosa, vuole l’«essere» come lo stare in equilibrio sulla cosa avendo la possibilità di cadere da essa»[25]. Nel linguaggio del destino tale caduta (πτω̃σις) non riguarda l’essere ma l’apparire dell’ente.

La coerenza del nichilismo perfettamente compiuta nella nostra epoca esige l’affermazione del nesso necessario tra la parte e il tutto diveniente. Ma la necessità di questo nesso è la necessità che l’ente in quanto tale sia libertà (ε̉παμφοτερίζειν), ossia sia diveniente e quindi storico. Da questa prospettiva nulla è al di fuori del processo storico[26]. La storia diventa il tutto diveniente a cui, dopo la distruzione di tutti gli immutabili, tutto deve sottostare. La dialettica diventa l’unico metodo adeguato alla realtà diveniente, in cui l’ente si mostra in termini diacronici (l’uscire dal nulla, lo stare temporaneamente nell’essere e il ritornare nel nulla). Il divenire esige che il tutto sia diveniente[27]. Il carattere diacronico del divenire è compiutamente realizzato dall’età della tecnica, perché ne accentua il suo carattere ipotetico, ossia la nientificazione dell’ente. Con la tecnica il dominio nichilistico dell’ente si porta al suo compimento. Con esso si ha il tramonto di qualsiasi nesso sincronico: tra gli enti ciò che domina è solo il nesso diacronico.

Nell’ε̉πιστήμη, nel sapere assoluto e incontrovertibile, ogni nesso necessario è un nesso sincronico, «perché l’esistenza stessa del nesso necessario in quanto tale rende “sincronico” il tutto e rende ogni parte necessariamente connessa alla sincronia totale»[28]. Se la volontà di potenza si pone come ε̉πιστήμη lega necessariamente a sé il tutto e tra loro le parti del tutto. Se poi tale volontà di potenza si propone di controllare il divenire (nichilistico) è inevitabile che il tutto divenga una totalità organica, e quindi sincronica. Ma l’evidenza nientificante del divenire vanifica ogni tentativo di un’ε̉πιστήμη del tutto, vanifica il carattere sincronico del tutto, portando all’unico carattere che il divenire può assumere, quello diacronico, che rappresenta la disorganicità del tutto. Se quindi il sincronico indica l’organico, il diacronico mostra il disorganico del tutto, il suo essere ipotesi. L’ ε̉πιστήμη è destinata al tramonto, perché un’ε̉πιστήμη del divenire nichilistico si contraddice da sé. Il nichilismo impedisce l’ε̉πιστήμη perché rende disorganico l’organico. Se infatti un ente esce dal niente non può avere nessun rapporto necessario con l’ente preesistente, ogni ente diveniente è quindi isolato sia rispetto al tutto sia rispetto ad ogni altro ente, rendendo impossibile qualsiasi forma di sapere epistemico. A fondamento del nichilismo c’è l’isolamento dell’ente dal tutto, ossia la negazione del nesso necessario sincronico tra la parte e il tutto, portando nell’isolamento e nella conseguente contingenza il tutto diveniente[29].

Il dominio della τέχνη presuppone tale isolamento dell’ente. Anzi, possiamo dire che qualsiasi dominio presuppone l’isolamento dell’ente, il suo uscire e ritornare nel niente,  libero di essere come di non essere. Ecco allora che l’essenza della volontà di potenza è la volontà di libertà, la volontà che l’ente sia disponibile sia all’essere che al niente (ε̉παμφοτερίζειν).

È interessante, a questo punto, mostrare il rapporto linguistico che vi è tra “dominio” e “isolamento”. Il dominio è dominus che è τὸ δαιμόνιον, il «dèmone», il separante (δαίμων, «dèmone», δαίομαι, «separato»). Quindi il dominio che si impadronisce delle cose modificandole è possibile solo sul fondamento del dominio che si impadronisce delle cose isolandole dal tutto[30]. Il dominio così inteso non nega il divenire, ma lo guida, proprio perché esso si fonda sul presupposto dell’assenza di qualsiasi legame necessario. Così inteso tale dominio può dare uno scopo all’ente, scopo non assoluto ma ipotetico. Lo scopo che noi attribuiamo all’ente presuppone il suo essere isolato dal tutto, libero appunto per lo scopo. In più nell’ambito della specializzazione scientifica non vi può essere uno scopo che unifichi tutto il campo scientifico, perché, di nuovo, questo presupporrebbe dare un nesso necessario a ogni ente, considerandolo come un tutto organico. L’unità dello scopo si trasforma in una molteplicità di scopi, in una parzialità sempre maggiore del tutto. La scienza odierna guida il divenire solo se si dà una molteplicità di scopi; solo quindi se la scienza diventa sempre più specializzata domina l’ente nella sua totalità: ecco la coerenza del nichilismo. La molteplicità dello scopo indica la parzialità di ogni scopo, ossia il suo essere, una volta realizzato, l’inizio di un altro scopo. Questo processo non porta all’esaurimento degli scopi ma al suo infinito moltiplicarsi. È questo il modo in cui la tecnica si è sviluppata e sta affermando il suo completo dominio su tutto l’Occidente, e quindi su l’intero pianeta.

 

 

 

 

1.2 Téchne, il culmine del nichilismo.

 

La tecnica odierna ha decretato il suo dominio su tutto il pianeta[31]. Per uno stato moderno, come per un’azienda, essere potenti significa avere un apparato tecnico enormemente sviluppato. Non vi è campo umano dove la tecnica sia assente, dall’elettronica all’agricoltura la tecnica opera incontrastata il suo dominio, decretando ad un tempo la totale dipendenza dell’uomo nei suoi confronti. Se infatti oggi la tecnica interrompesse la sua produzione la nostra società cadrebbe a pezzi come un castello di sabbia.

Ora, per mostrare quali sono i tratti essenziali che Severino attribuisce alla tecnica dobbiamo sviluppare una serie di concetti che formano un tutt’uno con la tecnica. Tali concetti formano una costellazione che girano attorno alla struttura della tecnica, rispecchiandosi in essa, e trovando nel nichilismo il loro minimo comun denominatore. I concetti su menzionati sono: la violenza, l’angoscia, la previsione, la decisione, la volontà di potenza e il rischio. Possiamo in tal modo tracciare uno schema ipotetico che indica tale rapporto:

Nichilismo

Violenza, angoscia, previsione, decisione, volontà di potenza, rischio

Tecnica

 

Tali concetti saranno esposti rimanendo fedeli all’interpretazione nichilistica dell’Occidente, indicata nel paragrafo precedente.

Nell’esposizione del concetto di violenza bisogna innanzitutto dire che essa non è tale se compie qualcosa di possibile: se uccido una persona io non compio una violenza, perché la persona è mortale, quindi non farei altro che assecondare la sua natura di mortale. Se la violenza esiste, allora la violenza non può essere la volontà che vuole il possibile, ma deve essere la volontà che vuole l’impossibile[32]. La violenza vuole oltrepassare l’impossibile, ossia la necessità. Eppure, per Severino l’uomo non sa cosa sia la necessità, in quanto la interpreta come contingente. È questa volontà interpretante che trasforma il necessario e impossibile in contingente e possibile. Così la volontà che vuole l’impossibile interpretandolo come possibile, in realtà, ottiene niente.

La struttura del divenire implica sia l’identificazione di una cosa che diviene un’altra, sia la loro differenziazione. Se due enti A e B divenienti non si identificassero non potrebbe divenire, ossia passare da A a B, se però non si differenziassero non diverrebbero, perché sarebbero sempre identici: il divenire è diversificazione dell’identico (l’identico che diventa diverso da sé) e identificazione del diverso (il diverso dal proprio altro, che si identifica al proprio altro)[33]. Eppure il divenire inteso come identità e diversità è impossibile, contraddittorio, assurdo. Proprio perché è impossibile non appare: le variazioni di contenuto che appaiono non sono la diversificazione dell’identico e l’identificazione del diverso, ma il comparire e lo sparire degli identici[34].

Proviamo a chiarire questo concetto con un esempio che Severino usa frequentemente: quando la legna brucia e appare la cenere non appare la legna che diventa cenere o l’essere cenere da parte della legna, ma appare prima quell’identico che è la legna, poi quell’altro identico che è la legna che brucia e infine quell’altro identico che è la cenere. L’identità della legna e della cenere non appare, e non appare nemmeno l’identità come risultato di un processo, quindi non appare nemmeno questo processo, ossia il divenire.

Ora, se la violenza è la volontà che vuole l’impossibile, e se la volontà è un volere che qualcosa divenga altro da sé (impossibile), la volontà è, in quanto tale, il volere l’impossibile, cioè la volontà è violenza[35]. Ma anche la volontà salvifica è una forma nascosta di violenza. Ed è violenta perché la salvezza vuole trasformare il mondo, ossia vuole l’impossibile. La salvezza può salvare solo se è libera dalla volontà, ossia dall’isolamento, dal divenire nichilistico. Il che non significa che nella regione dell’essere non esista il divenire. Se cioè il divenire è inteso come l’apparire e lo scomparire degli eterni, allora il divenire è possibile, anzi è necessario, come ogni altro ente.

Il divenire nichilistico, ossia l’uscire e il ritornare nel nulla, implica una diversità infinita tra l’ente e il nulla, perché infinita è la distanza tra l’essere e il nulla, altrettanto infinita è la violenza che vuole realizzare tale identificazione. La volontà che vuole far diventare qualcosa altro da sé è volontà di potenza, tale volontà è quella che denota la civiltà occidentale, perfino quando pone l’importanza della salvezza, della tolleranza, dell’amore, anche qui si tratta di violenza infinita. Per quanto amore e odio, tolleranza e intolleranza siano diversi, hanno entrambi lo stesso fondamento: violenza infinita.

Se da una parte il diventare altro di un ente è impossibile, dall’altra il diventare altro, come la volontà di potenza o l’impossibile sono enti, e quindi anch’essi eterni. Con il divenire appaiono gli eterni spettacoli della violenza, ma tale volontà non appare come qualcosa di ottenuto da sé, è il destino che invia gli eterni che corrispondono e corrispondono alla violenza della volontà[36].

L’uomo occidentale ha da sempre ricercato la salvezza: dal mito, religione, scienza e oggi la tecnica. Ciò che vuole la salvezza è evitare la propria distruzione. Dalla fede nella distruzione scaturisce l’angoscia. Anzi la stessa forma che l’angoscia storicamente assume è determinata dalla forma della distruzione. Ciò che la civiltà occidentale intende per distruzione è l’annullamento[37]. L’angoscia ha quindi di fronte a sé il niente. Il pensiero occidentale greco ponendo l’infinita separazione tra essere e niente porta alla luce la forma tipica dell’angoscia: l’angoscia per il proprio annullamento[38].

L’Occidente ha evocato il niente, possiamo anzi dire che l’Occidente è l’evocazione del niente; mentre Dio e la Tecnica sono i due modi fondamentali in cui esso crede di salvarsi dal niente: l’Occidente ha, per così dire, prodotto sia la malattia sia il farmaco.

Se, infatti, la tecnica oggi rappresenta la forma più potente per salvarsi dall’annientamento, allo stesso tempo è l’apparato che può annientare l’intera razza umana[39].

Si teme la propria distruzione, perché si crede che il mondo cambi in continuazione: la distruzione sopraggiunge con i cambiamenti del mondo[40]. Ma questi infiniti cambiamenti del mondo sono una fede, ossia l’interpretazione per cui l’ente sopraggiunge dal niente e vi ritorna: l’ente è ni-ente. Tale identità degli opposti nasce con il pensiero greco, non a caso prima della cultura greca la distruzione non era intesa come annientamento, e le cose distrutte potevano ritornare, nascita e morte avevano un carattere ciclico. Ma quando la distruzione diviene annientamento le cose distrutte non possono più ritornare. Tale convinzione accade nella tragedia greca: angoscia e annientamento. Ma è nella stessa tragedia greca e poi nel pensiero filosofico e quindi occidentale, che si crede nell’esistenza di un “rimedio” per l’angoscia suscitata dal divenire nichilistico. Il rimedio è la “previsione” (Pro-meteo). Possiamo con ciò affermare che la contemplazione della verità greca è il modello di previsione scientifica[41].

La verità greca salva perché sta a fondamento di ogni cambiamento del mondo, e tale fondamento è inalterato ed eterno. La verità greca è epi-stéme, ossia ciò che “sta sopra” fermo, imponendosi su ogni cambiamento. La verità greca è la manifestazione del Tutto, e poiché il Tutto comprende anche il futuro, la verità lo anticipa, lo pre-vede.

Tutte le forme di stabilità che l’Occidente ha costruito nell’ambito religioso, economico, giuridico, morale, politico ed estetico sono pensate e costruite alla luce della stabilità epistemica.

La volontà di vivere è volontà di potenza, ossia volontà di dominare ciò che minaccia la vita: volontà di salvezza. La potenza si presenta come salvezza dall’annientamento, dal niente. Essa si articola oggi come dominio delle forze che strappano le cose dal niente. A sua volta, la volontà di potenza presuppone che le cose mutino, nascano, muoiano, incomincino e finiscano, si alterino, si diversifichino, si corrompano, scorrano, divengano. In breve a fondamento della volontà di potenza vi è la fede nel divenire. Ma il divenire come l’uscire e il ritornare nel nulla presuppone l’isolamento dell’ente rispetto al Tutto. Se, da una parte, la volontà di potenza vuole salvarsi dal nulla, dall’altra essa nasce e si fonda sulla fede nel nulla: ciò sta a fondamento dell’angoscia.

L’epoca attuale, conforme al concetto greco di divenire, abbandona l’apparato teologico-epistemico, il quale contraddice il divenire, ponendo come suo fondamento l’apparato tecnologico-scientifico, il quale produce verità ipotetiche e non epistemiche. Il carattere ipotetico si presenta come più funzionale di quello epistemico, esso riesce meglio a prevedere il futuro perché è in grado di adeguarsi meglio ai cambiamenti. La previsione ipotetica adotta il carattere della quantità, mentre quello epistemico quello della qualità. Il suo carattere quantitativo porta ad una riduzione progressiva dell’annientamento, questo è il rimedio contro l’angoscia nell’età della tecnica. La tecnica salva l’uomo dall’annientamento perché, a differenza dell’apparato teologico-epistemico, non ha verità. Salva perché è ipotesi che funziona. In essa la potenza cresce indefinitamente e funziona senza verità. Ciò significa che la felicità raggiunta, la salvezza dall’angoscia, in quanto basata sull’ipotesi può essere sempre perduta: se la verità non esiste ogni stato del mondo è un caso. Ma proprio questo non fa altro che portare al culmine il senso dell’angoscia. La tecnica è il culmine «perché più si è felici più si vuole conservare ciò che si è, cioè salvarlo dal niente; ma se la verità non esiste, che la felicità sia salva dal niente non può essere una verità, e quindi la volontà di conservare la felicità si trasforma nel timore di perderla – tanto maggiore quanto più la felicità è grande. La tecnica può liberare l’uomo dalla morte, ma l’immortalità raggiunta è minacciata dalla possibilità dal suo annientamento. Il paradiso della Tecnica è il luogo dove l’angoscia diventa estrema»[42].

I due grandi rimedi contro l’annientamento preparati dalla volontà di potenza falliscono. In primo luogo fallisce il concetto stesso di “rimedio” e di «strumento preparato (ad-paratum) per la guarigione», e fallisce perché si alimenta della stessa malattia: tali rimedi costruiscono «nidi sospesi sull’abisso»[43].

A fondamento della tecnica vi è anche la decisione. Vi è infatti un’intima connessione tra il decidere e la specializzazione scientifica. La specializzazione è il rivolgersi alla species, che significa aspetto, apparenza, figura. Il verbo latino specere significa appunto vedere. Al verbo spec-ere corrisponde il verbo greco sképt-ein; a sua volta la spec-ies  corrisponde al greco skop-όs, che significa “meta”, “scopo”, ciò verso cui si osserva e si fonda. La visibilità della species è ciò che permette di essere osservata, controllata, misurata, desiderata e temuta[44]. In più la species è tanto più visibile quanto più essa può essere isolata, distinta, separata. Questo è uno dei fattori essenziale che ha permesso di abbandonare il mondo mitico, simbolico, in cui una cosa poteva significare tante cose. L’uomo non si fa più guidare dal mito quando comincia a sentirsi un centro di azione, capace quindi di decidere.

La parola decido significa prima di tutto “taglio”. Decido equivale a de-caedo, che significa “colpito, in modo da separare il colpito da ciò a cui era unito” appunto per questo, caedo significa anche “uccido”, che deriva dal latino oc-cido, che daccapo significa ob-caedo (ob- indica ciò contro cui il caedere si effettua)[45].

In che senso il decidere è uccidere?

Quando io decido fra due possibilità è come se impedisca la vita e le vite che avremmo potuto vivere o far vivere agli altri: il decidere uc-cide la vita che si sarebbe potuto vivere. Se visto ancora più in profondità, grazie alla sapienza del linguaggio, si arriva a constatare che il decidere non uccide soltanto la vita che si sarebbe potuto vivere, ma anche la vita che effettivamente si vive. L’affinità delle due parole rimanda ancora al Tutto che si manifesta nel mito e che è un Tutto vivente, sincronico, dove ogni parte è indispensabile alle altre, e dove quindi, la separazione e l’isolamento della parte è la sua uccisione. Nel mito l’agire non mira alla separazione della parte dal tutto, perché l’agire è l’agire del Tutto. Solo quando l’uomo non si sente più il Tutto nel proprio agire[46], ma incomincia a percepirsi come centro autonomo di azione e di volontà[47]. Sono i sofisti che attuano questo scadimento dell’agire dell’uomo dal tutto, e in  Protagora viene espressa in modo compiuto: l’uomo è misura di tutte le cose. Tale scadimento accade già all’interno del mito con la separazione del “tempo sacro” dal “tempo profano”.

L’apparato scientifico-tecnologico non fa che accentuare massimamente questa separazione dell’agire del tutto, ponendosi al di sopra dello stesso “individualismo” moderno: diventa cioè il principio supremo dell’agire e del decidere. Il decidere ha come fondamento la fede che le cose siano separate tra loro, se, infatti, tutte le cose fossero necessariamente ed eternamente legate tra loro, io non potrei decidere. Ecco allora la stretta connessione tra il decidere e la specializzazione scientifica, quest’ultima infatti isola la species dal contesto e pone la conoscenza della species come indipendente dalla conoscenza del contesto, convinta così di poter sciogliere tutti i legami che di fatto uniscono la parte al contesto, considerando la conoscenza del contesto irrilevante per la conoscenza di ciò che essa intende trasformare. Tale specializzazione è la forma più radicale del decidere[48]. Il presupposto a partire dal quale si ha la convinzione che l’ente sia isolato, che quindi non vi sia connessione necessaria tra tutti gli enti, è il nulla, ossia la nientificazione dell’ente. Solo a partire da questa convinzione è possibile l’isolamento dell’ente – l’angoscia –, da cui la volontà di potenza, il decidere e la specializzazione scientifica. La fede nella trasformazione del mondo priva di connessione necessaria significa che l’ente se prima era poi non sarà più, ma questo significa che l’ente diventando nulla, è nulla: l’ente è contingente. La contingenza delle cose infatti è la condizione della possibilità del loro oscillare tra l’essere e il nulla, cioè del loro divenire, del loro poter essere prodotte e distrutte[49].

Il concetto di distruzione rimanda al verbo de-struere (-struere è “mettere a strati”, come lo scernere, il cui supino è stratum), che è un separare l’uno da (de) l’altro gli strati che, nella loro stru-ttura, costituiscono una cosa. Quindi la distruzione di una cosa è possibile solo se la struttura delle connessioni dei vari strati è contingente, ossia non necessaria. Per la tecnica moderna il concetto di distruzione non comporta la violazione di un’armonia, perché tale armonia non c’è, essendo contingente. In sostanza la struttura di un ente è già di per se stesso distruggibile e quindi anche costruibile. Diventa adesso più evidente l’intima connessione tra il decidere e l’uccidere.

L’esistenza del divenire è l’evidenza suprema della civiltà occidentale. Ciò che lungo la storia dell’Occidente varia non è il senso del divenire, il senso evocato per la prima volta dal pensiero greco, ma è la dimensione, la sede in cui viene di volta in volta evocato quel senso[50].

La filosofia è riuscita a essere il rimedio contro il malessere del divenire, perché ha mostrato la verità immutabile del Tutto[51]. L’uomo si difende dal divenire del mondo legandosi all’immutabile: ossia l’ε̉πιστήμη. Nel pensiero contemporaneo l’unico nesso necessario che c’è fra gli essenti è quell’assoluta mancanza di nessi necessari in cui consiste il loro divenire, il loro uscire ed entrare nel nulla[52].

In precedenza abbiamo indicato alcuni caratteri della volontà di potenza in rapporto alla tecnica, cerchiamo adesso di ampliare tale rapporto.

Ogni forma di potenza è pubblica[53].

Un esempio autorevole di questa affermazione la troviamo in Hegel, che intravede nel riconoscimento della potenza la condizione che fa alcuni signori ed altri servi.

Se la potenza deve essere necessariamente riconosciuta, allora i mezzi di comunicazione, che sono anch’essi potenza, rendono possibile la potenza, ossia la rendono pubblica. Tutte le grandi ideologie potenziano l’apparato tecnico per potenziare la loro potenza pubblica, tale potenziamento però da mezzo diventa scopo delle ideologie, il fine cioè diventa solo quello di rendere sempre più potente l’apparato tecnico.

La potenza è definita dalla sua capacità di trasformare il mondo in modo tale che i conviventi si accorgano della trasformazione e cioè la riconoscano[54]. In sostanza qui si coglie l’indiscutibile fatto che tutte le forze oggi in campo se vogliono sopravvivere devono rinunciare al loro scopo originario (compresa la religione) per potenziare quello che si credeva o si crede tuttora sia il mezzo di riconoscimento della potenza, di nuovo l’apparato tecnico da mezzo diventa fine, scopo delle forze attuali. Ma, come si è detto in precedenza, l’apparato tecnico basandosi sul nichilismo dell’ente può operare solo mediante verità ipotetiche, al cui fondamento vi è la contingenza dell’ente. Questo comporta che i risultati sempre parziali della tecnica possono essere perduti. L’apparato tecnico, per essenza, è un’operazione a rischio, mai certa del suo risultato, il quale non è mai definitivo, ma semmai è il punto di partenza di un nuovo processo: qui la debolezza e allo stesso tempo la potenza della tecnica.

Un esempio attuale di come l’apparato tecnico opera è l’azienda, la quale dovendo reinvestire i suoi capitali e basandosi su ipotesi e non su verità certe, è continuamente a rischio di perdere tutti i suoi capitali. Detto per inciso con il pieno dominio della tecnica il capitalismo comunemente inteso tramonta, perché appunto per potenziare il suo apparato tecnico deve continuamente reinvestire i suoi capitali ponendoli a rischio. Ora, un fenomeno abbastanza diffuso in questo periodo storico è quello di trasformare lo Stato in azienda, in quanto si è constatato che se pur l’azienda è un’operazione a rischio, ottiene dall’altra il massimo profitto, anzi, possiamo dire che più rischia più possono aumentare i profitti. Ma questo significa che se si trasforma lo Stato in un’azienda lo si trasforma in uno Stato a rischio[55]. Se poi l’azienda capitalistica, ossia finalizzata al profitto, mette a rischio il proprio capitale, anche lo Stato-azienda metterà a rischio il proprio capitale, che in questo caso è la ricchezza della popolazione: risorse umane. Eppure anche qui troviamo uno slittamento dello scopo dell’azienda, se in precedenza il suo scopo primario era il profitto, adesso per sopravvivere deve subordinare tale scopo a quello del continuo potenziamento dell’apparato-tecnico. Lo slittamento è netto, perché se in precedenza il profitto era lo scopo e il mezzo era l’apparato-tecnico, ora è quest’ultimo lo scopo, mentre il primo il mezzo; il profitto in sostanza è il mezzo da reinvestire per aumentare la potenza dell’apparato.

Se questo vale per l’azienda vale anche per lo Stato, che diviene il monopolio legittimo della forza sviluppata dall’apparato scientifico-tecnologico[56].

Con il pensiero greco la relazione tra dominatori e dominati non si regge più in base ad abitudini conoscitive o impulsi egoistici, ma in base ad un sapere capace di stare fermo, imponendosi su ogni modo di pensare; tale stare su è il senso autentico dell’epi-stéme: stare (-stéme) sopra (epi-). Se l’epistéme è il luogo dove si manifesta la verità, la πόλις è il luogo dove l’esercizio del dominio è guidato dalla verità dell’ε̉πιστήμη [57]. Questo è l’ambito essenziale della politica nel pensiero Occidentale. Eppure a partire dalla metà del 1800 la verità dell’ε̉πιστήμη diventa impossibile, e il suo sovra-stare è violenza. La libertà odierna si basa sulla liberazione dell’imposizione dell’ε̉πιστήμη: da qui la crisi della politica, quale conseguenza della crisi dell’ε̉πιστήμη. In contrapposizione con la tesi kantiana per cui la libertà è il fine e l’uguaglianza il mezzo, l’epoca contemporanea interpreta la libertà come mezzo per fondare l’uguaglianza, che a sua volta diventa mezzo per potenziare l’apparato tecnico.

L’essenza della tecnica non è data dalla sua base fisico-matematica, ma dalla volontà di aumentare all’infinito la propria potenza, per tale scopo si richiede il totale dissolvimento degli immutabili: l’essere parmenideo, le idee platoniche, il dio cristiano, le ideologie dell’Occidente.

Sul carattere nichilistico della tecnica si veda il verso 360 dell’Antigone: l’uomo è Pantopóros áporos: “colui che è capace di percorrere tutte le vie” e allo stesso tempo “privo di una via”. Se la prima rappresenta la tecnica, la seconda indica la sua mortalità. Se poi l’incremento della potenza impone l’incremento del nichilismo, la stessa potenza è soggetta all’annullamento. Questo comporta che più cresce la felicità legata all’incremento di potenza più cresce l’angoscia per la sua possibile perdita.

Il compimento della tecnica odierna è il compimento di tutto l’Occidente. Se la tecnica è il destino dell’Occidente, anche la meditazione su di essa non è un compito ma un destino. La volontà di dominio in cui consiste la tecnica è desiderio di immortalità, volontà di imporsi sul Tutto. In questo caso l’immortalità non è più una grazia di Dio, ma è una conquista dell’uomo. Questo significa uccidere Dio[58]. Eppure il vero errore dell’uomo non sta nel desiderio dell’immortalità, ma nella volontà che la morte (annientamento) esista. Il peccato è la fede nella morte dell’uomo. Ed è peccato anche la fede sull’immortalità, appunto in quanto fede, non fondata su una verità necessaria.

Per Severino dal peccato ci si libera solo con il destino in cui appare la verità dell’eternità di ogni essente. È su tale “peccato” che si fonda la tecnica, essa, infatti, crea la convinzione che il creato possa essere anche distrutto. Eppure tale convinzione è una fede, nulla ci dice della necessità dell’annullamento. Nessuno percepisce il nulla nientificante (altrimenti non sarebbe “nulla”). La fede nel nulla è volontà interpretante. Non è cioè la morte annientante a imporsi all’uomo, ma è la volontà di potenza a credere nell’esistenza dell’”uomo” e nella sua “morte”: il mortale. Le varie ideologie sono o stanno tramontando, perché sta tramontando il concetto stesso di fondamento: l’ε̉πιστήμη. E l’ε̉πιστήμη sta tramontando, perché rende impossibile il divenire. Il pensiero contemporaneo mette in rilievo che il sapere epistemico, in origine incondizionato, è condizionato e relativo. Un esempio di tale condizionamento è la conoscenza come volontà di potenza nel pensiero di Nietzsche. L’ε̉πιστήμη oggi non è assoluta, ma relativa alle diverse forme di condizionamento: che sono diverse forme del divenire. La crisi dell’ideologia ha questo senso, ossia crisi dell’ε̉πιστήμη. Infatti la parola ideo-logia è un λόγος (pensiero) che ha come contenuto l’idea. Da platone ad Hegel l’idea è il senso dell’assoluto, incondizionato ed eterno: il Tutto. Il λόγος, che ha come contenuto l’idea, non è un sapere condizionato ma assoluto: tale sapere è l’ε̉πιστήμη. Se il λόγος è l’α̉λήθεια, disvelamento del contenuto dell’ε̉πιστήμη, l’idea è il contenuto epistemico. La crisi dell’ideologia è perciò la crisi dell’ε̉πιστήμη [59].

La tecnica è il compimento di tale crisi perché è il compimento del divenire, ossia il processo di produzione e distruzione dell’ente. La tecnica odierna, quindi, non è una cesura rispetto alla tradizione occidentale, ma il suo pieno compimento. È per questo che, nel pieno compimento dell’Occidente, si scorge la vicinanza della tecnica con il pensiero dell’essere di Parmenide[60]. Per quest’ultimo l’essere è sicuramente imperituro, increato, ma esso sta al di là del mondo degli essenti, che invece sono nullificanti: se l’essere è la verità semplice, la molteplicità dell’essente è illusione. Eppure l’illusione “è”, altrimenti vi sarebbe solo la via dell’essere. Ma se l’illusione “è”, l’essere non è più il Semplice, la luce pura, ma è anche la luce illusoria in cui appare la differenza e la molteplicità dei colori[61]. Per salvare l’essere come Semplice, Parmenide deve nientificare l’essente, ossia la molteplicità. Il nichilismo viene alla luce proprio per salvare l’essere dal nulla, per salvare il principio che l’essere non è il nulla. Platone compie il “parricidio”  per salvare dal nulla la molteplicità dell’essente, ma con il parricidio la persuasione che l’essente sia nulla sopravvive, anzi si rafforza e dà inizio alla storia dell’Occidente, culminando nella civiltà della tecnica. Questo accade perché nel pensiero di Parmenide è presente quello stesso atteggiamento isolante e separante che è presente nella tecnica attuale. Gli enti sono nulla, non significano “Essere”, perché sono separati dal loro essere, significanti in modo autonomo dal loro essere. Ma isolati dal loro essere sono nulla[62]. Platone con il parricidio introduce un nuovo significato del nulla, non il nulla assoluto, ma l’altro de(a)ll’essere: un ente specifico è altro dall’essere, ma non è nemmeno nulla, non in senso di nulla assoluto. In questo modo Platone salva il Mondo. Ma tale salvezza è già presente nel pensiero di Parmenide, ossia nel mostrare che esiste, è anche l’illusione.

Il parricidio di Platone è la nascita del nostro mondo. L’isolamento dell’ente annunciato da Parmenide e svolto da Platone si compie nell’età della tecnica. L’isolamento è ciò che permette qualsiasi dominio. Se infatti ogni ente fosse eternamente connesso col tutto, il dominio non avrebbe senso. L’uomo si isola da Dio già con il peccato originario, come conseguenza dell’originario isolamento delle cose dal loro essere. Dio si separa dall’uomo già nella creatio ex nihilo. Isolate dal loro essere, il rapporto delle cose con l’essere diviene accidentale, perché le cose giungono all’essere uscendo dal nulla, rimanendo solo provvisoriamente nell’essere: il divenire.

Il divenire è l’isolamento degli enti dall’essere. Gli enti isolati dall’essere sono anche massimamente isolati tra loro, perché non vi può essere legame necessario tra ciò che esiste e ciò che esce e ritorna nel nulla[63]. Se poi l’isolamento è direttamente proporzionale alla potenza esercitabile sugli enti, allora nell’età della tecnica con il massimo di isolamento si ha il massimo della potenza: quanto più l’ente è isolato tanto più è dominabile: l’isolamento è il fondamento della volontà di potenza e quindi della tecnica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.3 Nichilismo, téchne e poíesis.

 

Nel paragrafo precedente abbiamo descritto su grandi linee i caratteri essenziali della τέχνη in rapporto alla dimensione nichilistica dell’Occidente. Cercheremo adesso di ampliare il rapporto intrinseco che vi è tra la tecnica e l’uomo, introducendo un ulteriore elemento, presente lungo tutta la storia dell’Occidente: la ποίησις.

Severino evidenzia più volte che il rapporto tra tecnica e uomo non s’instaura solo con l’avvento dell’età della tecnica, ma, anzi, l’uomo nella sua essenza è tecnica, la cui identità si esprime come volontà di potenza. La tecnica domina tutti gli ambiti dove l’uomo produce, dall’arte alla religione, dalla guerra alle manifestazioni pacifiste[64]. Tutti questi ambiti hanno la comune tendenza di voler dominare il mondo, guidare il divenire del mondo: produzione-distruzione.

L’errore, per Severino, di certe forme di intellettualismo odierne sta nel credere che la tecnica sia una cesura con il passato[65]; in realtà essa ne rappresenta la più autentica essenza, se pur nascosta. Solo che adesso questa essenza sta iniziando a mostrarsi pienamente.

Ma in che modo?

Se in precedenza le varie ideologie occidentali (religione, comunismo, capitalismo, ecc.) utilizzavano la tecnica come mezzo per raggiungere i loro fini, adesso è la tecnica ad essere il fine delle varie ideologie, che, per questo, sono destinate  a tramontare. Un indice di ciò sta nel fatto che all’organizzazione ideologica della tecnica viene man mano sostituita l’organizzazione tecnologica della tecnica: «Questa è la fondamentale «tendenza» in atto oggi sulla terra»[66]. Nella contrapposizione tra la razionalità scientifica e la logica delle ideologie oggi si ha il netto prevalere della prima sulla seconda. Questa tendenza indica, allora, il prevalere di uno dei due termini della contraddizione tra ideologia e apparato tecnico-scientifico. Contraddizione data dalla contrapposizione tra la forma epistemica tradizionale delle ideologie, fondate sull’idea di una verità assoluta ed universale, e la forma della tecnica che adeguandosi al divenire nichilistico nega qualsiasi verità assoluta, basandosi sulla pura funzionalità del suo operato.

Ma perché la tecnica è destinata a soppiantare tutte le ideologie occidentali?

Noi abbiamo in precedenza indicato il rapporto indissolubile che sussiste tra tecnica e volontà di potenza. Quest’ultimo vuole la propria potenza, ossia vuole dominare. Voler dominare significa volere il dominato[67]. Volere, in sostanza, che il dominato esista, ed esista come dominato. Il nichilismo indica che il solo modo per la volontà di dominare l’ente, è quello di volere, ossia credere, che l’ente esca e ritorni nel nulla. Si osservi l’intimo rapporto che sussiste tra volere e credere; infatti, dire che l’ente esce e ritorna nel nulla non può essere frutto di un fatto percepito, poiché il nulla è impercettibile, perciò la nientificazione dell’ente è possibile solo nella credenza, nella volontà che l’ente “si” annulli.

Ebbene, la volontà, volendo (credendo) l’annullamento dell’ente, può dominarlo, ossia guidare i suoi estremi: produzione-distruzione. Noi sappiamo che questo volere vuole che l’ente sia sciolto, libero da legami necessari. Solo, infatti, se l’ente è libero “è” ad un tempo dominabile.

Ora, l’apparato che più di altri oggi domina l’ente è quello che scioglie qualsiasi legame necessario tra l’ente e il tutto, lo isola guidando la sua nascita e la sua morte. Ma questo processo è la tecnica che può attuarlo. La tecnica porta a compimento l’Occidente, perché porta a compimento l’isolamento dell’ente dal tutto, portando nel contempo la volontà di potenza al suo massimo grado. In sostanza, più l’ente è isolabile più è dominabile. Dall’altra, sappiamo anche che l’annullamento del legame necessario porta con sé il pericolo estremo. Pericolo che si mostra, appunto, dal fatto che un ente che è libero di essere come anche di non essere è incomprensibile; ancora meglio, un ente che esce dal nulla e vi ritorna è assolutamente imprevedibile. È per questo che la tecnica insieme al massimo di potenza (pericolo) crea le forme estreme della difesa dal pericolo. Con la tecnica, l’Occidente porta agli estremi la sua malattia (pericolo) e il suo rimedio (difesa)[68].

Pericolo e difesa: ecco come si instaura la previsione tecnica odierna. Una previsione che schiaccia il futuro sul presente, perché col massimo di isolamento l’ente non può avere futuro, in quanto destinato alla nientificazione.

La volontà opera una duplice identità contraddittoria, da una parte nientifica l’ente, isolandolo dal tutto, dall’altra entifica il niente (l’epistéme nichilistica), cancellando la differenza tra essere e nulla, su cui il divenire si fonda, come anche la stessa ε̉πιστήμη. In questo modo l’ε̉πιστήμη contraddice se stessa[69]. Questo è stato possibile solo con la distruzione degli immutabili, che mostravano la contraddizione tra l’evidenza del divenire e la verità epistemica, immutabile. Tolta la contraddizione (il credere che sia tolta) il divenire diventa la verità indiscussa del mondo. Con essa la previsione diventa ipotesi, e il suo successo assolutamente casuale.

Severino insiste continuamente sul carattere casuale del divenire: «Ciò che esce dal niente incomincia in modo assoluto, non ha tendenze, vocazioni, inclinazioni, propensioni, non ha scopi, non è sottoposto a regole, leggi, principi. Dietro di sé non ha nulla; il suo affacciarsi all’esistenza non è affidato a nulla, non è in vista di nulla, non ha scopi, non ha ragioni. Il niente è niente e non può esserci una ragione che spinge il niente in una direzione piuttosto che in un’altra. Proprio perché è stato niente, tutto ciò che nel divenire incomincia ad essere è il puro caso. Nella storia dell’Occidente il senso del caso è indissolubilmente legato al senso del niente. Nel suo significato essenziale il caso è l’uscire dal niente, e il cadere sull’esistenza essendo stato gettato da niente. Il divenire in quanto tale è caso. Le cosiddette regolarità secondo cui si dispongono le cose che incominciano ad essere sono soltanto un fatto, cioè sono esse stesse casuali»[70].

Si badi che questo concetto di caso (τύχη, ma anche αυ̉τόματον) è stato fondato per la prima volta dalla metafisica greca, come anche il concetto di niente inteso come non-essere, nihil absolutum. Quindi, il tramonto degli immutabili dell’Occidente, che, come si è ripetutamente detto, contraddice il divenire, è la conseguenza di quello che già i greci avevano mostrato quale evidenza assoluta: il divenire.

Nichilisticamente inteso il divenire è l’uscire e il ritornare nel nulla da parte dell’ente. L’uscire e il ritornare nel nulla isola in modo assoluto il singolo ente dal tutto. Questo significa che la previsione che ha l’uomo dell’ente è un credere che le cose andranno in un certo modo. Se l’ente è isolato non può esserci relazione alcuna tra esso e gli altri enti. Ma, allo stesso tempo, dominare l’ente, volere che il dominato esista, significa volere che il dominato sia isolato. Il dominio in questo modo contraddice se stesso, crede di dominare l’ente, ma il presupposto del suo dominio è la libertà dell’ente. Certo, fin tanto che l’ente “è” può essere dominato, ma, appunto, fin tanto che è. Quando l’ente non è più, la volontà di potenza è impotente. L’impotenza è, allora, credere che l’ente sia diventato niente, sfuggendo per sempre ai tentacoli della volontà. In tal senso, la volontà di potenza può solo adeguarsi a tale evidenza; ecco perché con la tecnica il futuro viene schiacciato sul presente. È l’”ora” di volta in volta che esce e ritorna nel nulla, che la tecnica persegue e crede di dominare. Non è casuale che nella nostra epoca le cose siano fatte per non durare: per essere usate e subito dopo smesse, annientate. La successione di produzione e distruzione diventa sempre più frenetica. Si progettano cose che sono destinate alla distruzione; non solo cose, ma anche rapporti, pensieri, sentimenti sono immersi in questo processo, che, a sua volta, è sempre più veloce.

Oggi progettare una cosa significa progettare anche la sua distruzione, progettare gli estremi della sua esistenza. La tecnica genera e distrugge l’”ora”, il quale deve essere sempre più piccolo: l’attimo del divenire.

Possiamo allora dire che la ποίησις della tecnica è tale perché ha in se stesso il germe della distruzione, è la ποίησις del divenire[71].

La parola ποίησις significa originariamente pro-duzione, ossia portare fuori dal niente, condurre la cosa dal non-essere all’essere. Ma è solo nell’epoca attuale che la ποίησις è veramente un condurre qualcosa dal non-essere all’essere, perché grazie all’apparato della scienza attuale tale ποίησις è frutto del caso, del suo essere assolutamente isolata dal tutto.

A questo punto della ricerca è necessario cogliere la progressiva purificazione che la ποίησις ha subito dall’epoca greca fino all’epoca attuale, purificazione che riguarda, in primo luogo, la purificazione della ποίησις dagli immutabili della metafisica; ed è importante notare che tale processo è parallelo alla storia del nichilismo, che si compie nella nostra epoca.

Nell’esposizione di questa progressiva liberazione della ποίησις dagli immutabili si darà molta importanza alle tematiche dell’arte; questo sia perché l’arte nella sua storia è uno dei luoghi più esemplari per cogliere la storia del nichilismo sia perché farà da introduzione ai temi che verranno trattati nei prossimi capitoli.

La parola ποίησις per i greci indica, come si è già accennato, l’atto del pro-dursi, del portarsi fuori. Ma fuori dove? Fuori nell’apparire, mostrando le cose pro-dotte nella propria luce[72]. Questo mostrarsi è il fenomeno. Non a caso il senso che i greci attribuiscono alla natura è quello della  φύσις, che indica lo schiudersi nell’aperto, come lo schiudersi di un fiore. Ed è questo apparire ciò che i greci intendono con la parola bellezza, καλός, il quale non è qualcosa di estetico come lo intendiamo noi, ma ha a che fare con l’essenza dell’ente, ossia il suo essere presente, il suo mostrarsi come l’inatteso. Ed è, ancora, questo mostrarsi inatteso che produce la meraviglia, il θαυμάζειν, che per Platone sta a fondamento della filosofia. Questo mostrarsi è in primo luogo un mostrarsi del visibile. È interessante in tal senso cogliere il rapporto della parola coniata da Platone idea con il verbo horao che significa propriamente vedere. In sostanza, l’essenza di una cosa si mostra nel vedere, e il suo carattere è quello del καλός, della bellezza. Non c’è ambito della vita – sacro o profano, sensibile o intelligibile – che non sia condizionato dal vedere. Di ciò testimoniano tanto la mitologia – si pensi al significato di Zeus, che vuol dire “cielo” e dunque luce – quanto la successiva riflessione filosofica. Per i greci dunque la ποίησις è in primo luogo il prodursi del visibile. Tutta la letteratura greca antica parla della luce, della luce che gli dei emanano. Ad esempio, Omero chiama Afrodite: Afrodite d’oro[73]. Chiamata così appunto perché essendo la dea della bellezza, essa luccica come l’oro, che fin dall’antichità è il metallo degli dei.

A questo punto si può cogliere l’intimo rapporto che vi è tra le parole physis e phaos, in sostanza schiudersi nell’apparire è venire alla luce, che è di per se stesso il senso arcaico della bellezza. Non a caso la genealogia di Afrodite descritta nella Teogonia di Esiodo è centrale rispetto all’ordine degli dèi greci. Afrodite nasce dall’unione di Urano, dio del cielo, con Gaia, dea della terra[74]. È quindi l’unione della luce in quanto tale con ciò che per essenza crea, pro-duce.

Ecco però un primo elemento che ci riporta alla dimensione nichilistica della ποίησις: la bellezza di Afrodite non è qualcosa di statico; essa è il risultato della lotta e cooperazione di un insieme di momenti. Al fianco di Afrodite si trovano Eros e Imeros, simboli del desiderio amoroso, ma anche le Cariti, le Grazie[75]. È da questo insieme di forze che scaturisce il regno di Afrodite. Proprio perché il regno di Afrodite è dinamico la figlia della dea si chiama Armonia. Sul rapporto tra Armonia e Ares, il dio della guerra, parlano dei versi significativi di Esiodo: «ad Ares che rompe gli scudi Citerea partorì Fobo e Deimo terribili, che agitano le folte schiere degli uomini nella guerra paurosa con Ares distruttore di città, e Armonia che Cadmo superbo fece sua sposa»[76]. Questi versi mostrano la tensione fra Ares ed Armonia, ed indicano il momento “distruttivo” della dialettica amorosa – ripresa nel mito del Simposio di Platone, dove si narra la genesi e quindi la natura di Eros – essa indica la dimensione del “tragico”, presente fin dall’inizio nel mito greco. Insomma, all’interno del regno di Afrodite sono presenti due momenti antagonistici: quello dell’armonia e quello della guerra. Essi sono i simboli mitici che successivamente la filosofia trasfigurerà mediante le parole “essere” e “non-essere”, il primo inteso come luce armoniosa, dove tutte le cose assumono la loro forma, il secondo inteso come la distruzione dell’ente, ecco dunque una delle forme più arcaiche della contesa dell’ente tra l’essere e il nulla: l’ ε̉παμφοτερίζειν dell’ente.

L’armonia dell’essere è quindi il frutto di questa contesa, mai eternamente statica, ma sempre in movimento e quindi anche in pericolo. Risuona qui l’armonia eraclitea e il senso dell’essere ad esso legato. L’ente è questo dibattersi di se stesso col tutto e la sua possibile distruzione. Un dibattersi che non può avere un esito finale, ma gioca eternamente le sue carte. Questo giocare i greci lo individuano nel gareggiare (agathos), di cui parla Pindaro: un gareggiare in cui chi vince è caratterizzato dalla χάρις, dalla grazia, anch’essa sinonimo di luce, chi invece perde scivola nell’oscurità[77]. Nella dialettica del mythos greco chi è favorito dagli dei è circonfuso dalla χάρις donata dagli dèi, chi invece non ha i favori degli dèi è destinato all’oscurità, alla distruzione.

La potenza della χάρις non si esaurisce solo nella capacità di far vincere un contendente in un conflitto, cingendolo di luce; in base, infatti, alla concezione della φύσις greca, la χάρις è ciò che permette ad un’opera di essere bella. La bellezza per il pensiero greco, e non solo, si esprime mediante la metafora della luce, anzi più che di metafora si potrebbe parlare di identità ontologica tra luce e bellezza. Ecco, allora, l’inscindibile rapporto tra καλός e χάρις. L’essenza del mondo greco è il suo stesso apparire, che è sia apparire della sua luminosità sia risultato di una contesa.

In base a tale evidenza, l’uomo greco coglie il suo essere partecipe di tale dinamica, il suo essere parte del tutto, cogliendo, ad un tempo, il suo ruolo più nobile nella comprensione del tutto: la filosofia. Ma comprendere il tutto significa esserne uno specchio e, ad un tempo, autorispecchiarsi nel tutto. Questo è il significato più genuino dell’idea di mimesi, in cui i greci colgono l’essenza dell’arte. In sostanza, la mimesi non è la banale imitazione, disprezzata dalla cultura romantica, ma il modo stesso con cui l’uomo partecipa all’apparire del tutto. Autorispecchiandosi nella dinamica del tutto, l’uomo non fa altro che riattualizzare estaticamente l’essenza delle cose. Estaticamente, appunto, perché porta nell’apparire ciò che pro-duce. Il sapere e il fare trovano la loro unione nel produrre mimetico, che caratterizza l’essenza dell’uomo. Egli più produrre estaticamente perché è la “cura[78] del tutto, custodisce nell’autorispecchiamento il tutto.

L’uomo, custodendo la manifestazione luminosa della φύσις, la può reduplicare. È in questa reduplicazione che si compie la ποίησις greca: produrre dettato da un sapere, il quale è possibile per l’autorispecchiamento dell’uomo nel tutto dell’ente. Questo sapere è la τέχνη, il sapere in vista del fare, in questo senso di un fare poietico, mirato, quindi, allo schiudimento (φύσις) dell’ente nell’apparire.

Si badi, però, che tale schiudimento, finalizzato alla riattualizzazione della χάρις, è sempre inteso come una vittoria sull’elemento distruttivo, trasfigurato nell’amante di Afrodite: Ares. La ποίησις è veramente un pro-durre, perché porta fuori l’ente, lo salva cioè dagli abissi della distruzione, che la successiva riflessione greca chiamerà il nulla, μὴ ο̉́ν.

Come nella dimensione agonale la vittoria si compie nella sua celebrazione, anche la ποίησις delle belle opere si compie nella festa, che celebra l’apparire della bellezza nell’opera. Nella cultura greca è fondamentale che la polis condivida la bellezza dell’ente, che la χάρις illumini tutta la polis. Si può cogliere con ciò l’essenziale fusione dell’arte, che pro-duce il bello, con la polis: la quale mostra l’assoluta dimensione pubblica dell’arte nell’antichità. Di questo parla Pindaro: «se qualcosa di bello è stato realizzato / non lo si deve disprezzare tacendo»[79]. E ancora nel frammento 42 si legge «Quel che di buono e di piacevole accada a qualcuno [m