La vita
Come accade nel caso di molti pensatori medievali, i cenni biografici a proposito di Nicola di Autrecourt sono davvero pochi. Ciò che sappiano della sua vita intellettuale deve essere ricostruito utilizzando le date incluse nei pochi documenti in cui egli è menzionato. Uno di questi è un rapporto di un periodo compreso tra il1333 e il 1336, che indica che ricoprì la carica di priore nel Collège de la Sorbonne. Un altro documento importante è la lettere pontificia del 1338, nella quale Benedetto XII lo insignisce della funzione di canonico presso la cattedrale di Metz, riferendosi a lui come un maestro di arti ed un laureato in teologia e diritto civile. Evidentemente, comunque, Autrecourt non rivendicò la sua prebenda fino a dopo il suo processo nel 1347. Sulla base di tali riferimenti, la data di nascita di Autrecourt può essere collocata intorno al 1295-98. Egli era originario di Autrecourt, nella diocesi di Verdun, e fu probabilmente studente presso la facoltà di discipline umanistiche di Parigi. La sua laurea si colloca all’incirca intorno al 1318-20. Mentre era studente, deve aver incontrato insegnanti famosi come John da Jandun, Marsilio da Padova, Thomas Wilton, Walter Burley, Bartolomeo da Bruges o Siger da Courtrai. Dal momento che la sua laurea di secondo grado in discipline umanistiche era in diritto civile invece che canonico, deve ad un certo punto aver lasciato Parigi per circa cinque anni, probabilmente per studiare a Orléans, Avignone o Montpellier. Il fatto che facesse parte del Collège de la Sorbonne come studente di teologia ci fa capire che Autrecourt doveva essere tornato a Parigi negli anni ’30. Il 21 novembre 1340 papa Benedetto XII lo convocò da Parigi ad Avignone per rispondere di accuse di insegnamento non ortodosso. Nella sua lettera il Papa si riferisce a lui come ad un laureato di teologia, intendendo con questo che Autrecourt era in possesso dei requisiti formali per la laurea in teologia, cioè per e la lettura della Bibbia e delle Sentenze di Pietro Lombardo. Ma ciò significa anche che Autrecourt fosse un esperto maestro di teologia? La questione è controversa. Nel giudizio del suo processo, si stabiliva che egli potesse ottenere "l’onore e la laurea di maestro" soltanto in seguito ad un permesso speciale accordato dalla Santa Sede, fatto che sembra implicare che egli non potesse accedere alla iniziazione in teologia (la cerimonia durante la quale sarebbero stati conferiti gli onori magisteriali) fino a che il Papa non decidesse altrimenti. Inoltre non ci sono documenti che presentino riferimenti ad Autrecourt come maestro in teologia. Questo suggerisce che egli rimase un laureato in teologia quando si trasferì a Metz per ricoprire la carica di canonico ( e più tardi di decano) del capitolo della cattedrale. Morì nel 1369, il 16 o il 17 di luglio.
Il processo e la condanna di Autrecourt
Il processo di Autrecourt ebbe inizio nel 1340, quando fu per la prima volta chiamato a comparire di fronte alla corte papale ad Avignone, e durò fino alla sua condanna nel 1346. Un esteso, seppur incompleto, dossier del processo giudiziario presso la corte avignonese è stato conservato sotto la forma di un instrumentum publicum, che serviva come modello per la preparazione del verbale ufficiale del processo. Il fascicolo papale contiene copie di una quantità di documenti che giocarono un ruolo durante le prime sedute del processo, e dà una descrizione (narratio) dei procedimenti giudiziari a partire dal momento in cui il Cardinale Curti, il giudice, assunse l’incarico dell’indagine. Il documento specifica le accuse e riassume i falsi insegnamenti imputati ad Autrecourt sotto forma di quattro liste, in totale contenenti 66 proposizioni o articoli errati. Gli articoli erano tratti dagli scritti e dagli insegnamenti orali. Sulla base del documento, apparirebbe che le commissioni pontificie di papa Clemente VI ed il cardinal Curti utilizzarono prove di precedenti azioni giudiziarie presso l’Università di Parigi e la risposte fornite da Autrecourt per formulare i proprio verdetti. Se questo contesto è corretto, emergono due domande ovvie: perché il processo ad Autrecourt fu trasferito da Parigi ad Avignone, e, ancor prima, come ebbe inizio? Sfortunatamente le prove storiche rimaste non sono sufficienti per rispondere a nessuna delle due domande. La commissione di prelati e teologi, che presieduta dal Cardinal Curti aveva discusso tutti gli articoli imputati ad Autrecourt, giunse alla conclusione che esse contenevano numerose frasi false, pericolose, presuntuose, sospette, errate ed eretiche. Per questa ragione, venne ordinato che gli scritti di Autrecourt fossero bruciati al Pré-aux-Clercs o al Pré-de-Saint-Germain a Parigi in una non specificata data futura. Inoltre Autrecourt fu condannato a ritrattare pubblicamente molti degli articoli specificati nel resoconto legale. Queste ritrattazioni e dichiarazioni, che Autrecourt fu dapprima costretto a rendere nel palazzo del cardinale ad Avignone, dovettero essere ripetute presso l’Università di Parigi. La ritrattazione di Autrecourt presso la corte pontificia avvenne prima del 9 maggio 1346. La data precisa è sconosciuta perché fu lasciata in bianco nella minuta stilata dal notaio Bernard. Oltre alla ritrattazione, Autrecourt fu dichiarato indegno ad ascendere al rango magisteriale della facoltà di teologia. A chiunque ne avesse l’autorità , fu proibito presentare o promuovere Autrecourt nel magisterio della facoltà di teologia. La parte parigina della sentenza fu completata l’anno seguente. Il 20 novembre 1247 i decenti dell’università si incontrarono presso la chiesa di Saint-Mathurin, dove vennero lette le lettere papali ed il processo "riguardanti certi articoli". Questo materiale era stato portato da Avignone da Autrecourt stesso. Il 25 novembre, egli ritrattò i quattro volte confessati articoli nella chiesa dei Domenicani, e dichiarò pubblicamente che le proposizioni contenute nelle altre due liste erano errate. Inoltre egli bruciò questi articoli ed un saggio, molto probabilmente l’Exigit ordo. La lettura pubblica dell’instrumentum e la ritrattazione avevano uno scopo molto importante: non solo rendevano effettiva la sentenza, ma informavano anche la comunità degli studiosi degli errori di Autrecourt e delle punizioni stabilite nell’instrumentum, nelle quali gli insegnanti sarebbero incorsi se avessero insegnato gli errori censurati. Anni dopo, studiosi come John Buridan, Marsilio da Inghen e André da Neufchâteau citarono le proposizioni erronee condannate come "articoli cardinalis".
Le opere
L’opera di Autrecourt non è particolarmente vasta: c’è una corrispondenza col teologo francescano Bernardo di Arezzo e con un certo maestro Giles ed un saggio che è stato tramandato come l’Exigit ordo. Inoltre possediamo una questione teologica riguardante l’intensità e la riduzione dei minimi e dei massimi (utrum visio alicuius rei naturalis possit naturali intendi, cioè "può la visione di una qualunque cosa naturale essere naturalmente intensificata?"). Autrecourt scrisse nove lettere a Bernardo di Arezzo, di cui soltanto due sono sopravvissute. Inoltre c’è una lettera dal maestro Giles indirizzata ad Autrecourt, con una breve risposta di quest’ultimo, che, tuttavia, è spezzettata in mezze frasi. Insieme le lettere formano un piccolo fascicolo, il punto principale del quale è la lettera del Maestro Giles. Apparentemente, la sola ragione per cui le due lettere indirizzate a Bernardo furono copiate era perché esse vengono menzionate nella lettera del Maestro Giles. La corrispondenza tra Autrecourt e Bernardo è di molto anteriore: risale infatti al tempo in cui entrambi erano studenti di teologia, impegnati come avversari l’uno nei Principia dell’altro, cioè nella lezione inaugurale sulle Sentenze all’università. Non vi è alcuna prova che Autrecourt abbia mai davvero scritto un commentario sulle Sentenze, che, in ogni caso, non era uno dei requisiti formali necessari per ottenere la laurea. Il tema del dibattito sui Principia e delle lettere indirizzate a Bernardo di Artezzo è la validità del principio aristotelico di non contraddizione, quale risulta dal IV libro della Metafisica. L’Exigit ordo è il frutto dell’insegnamento di Autrecourt all’interno della facoltà umanistica. Invece di esporre i suoi punti di vista in commentari sui testi arsistotelici, Autrecourt scelse di scrivere un trattato autonomo che discuteva questioni riguardanti la filosofia naturale, la metafisica, l’epistemologia, la psicologia filosofica e l’etica e che si impegnava in un dibattito con contemporanei di cui non veniva riportato il nome. L’opera fu portata a termine negli anni 1333-35, periodo in cui Autrecourt stava mettendo a punto il su commentario delle Sentenze. Per ragioni economiche, Autrecourt insegnò all’interno della facoltà di scienze umane mentre era ancora iscritto come studente di teologia. L’Exigit ordo è anche conosciuto come il Tractatus universalis (Trattato universale). L’ultimo titolo in realtà è frutto di una errata lettura delle prime due parole del trattato: "tractatus utilis" (trattato utile). È stato conservato in un’unica copia manoscritta, che, come la lettera di Giles, si spezzetta in frasi interrotte. È diviso in due prologhi, due trattati e numerosi capitoli, che, sfortunatamente, l’amanuense ha disposto nell’ordine sbagliato. Tanto l’edizione latina quanto la traduzione inglese hanno mantenuto l’ordine del manoscritto medievale senza correzioni. La questione teologica è una relazione (reportatio) di una disputa teologica nella quale Autrecourt ricopriva il ruolo di colui che deve rispondere alle obiezioni. Sebbene il maestro che presiedeva la disputa dovesse essere solitamente considerato come il suo vero autore, la questione potrebbe in questo caso essere differente. Dal momento che si tratta di una relazione - cioè un testo che, diversamente da un’ordinatio, non doveva essere edita in un secondo momento dal maestro stesso - probabilmente i punti di vista di Autrecourt sono esposti nella forma originaria, inalterata. La questione venne dibattuta tra il 1336 e il 1339 ed è stata poco studiata dagli studiosi.
Gnoseologia
Un ruolo centrale nell’insegnamento di Autrecourt ha l’idea che tutta la conoscenza evidente (eccezion fatta per la certezza delle fede) deve essere riducibile al primo principio (primum principium), ovvero al principio di non contraddizione. Un’inferenza produce una conoscenza evidente solo quando l’affermazione della sua antecedente e la negazione della sua conseguente sono contraddittorie. Ciò significa che l’antecedente e la conseguente, o più precisamente, ciò che è espresso dall’antecedente e dalla conseguente, deve essere identico, "perché se così non fosse, non sarebbe immediatamente evidente che l’antecedente e l’opposto della conseguente non possono coesistere senza contraddizione". E’ nel contesto di questa teoria che Autrecourt sferra un attacco sulla nostra pretesa di possedere una conoscenza certa dell’esistenza di sostanze e relazioni causali. Se A e B sono due entità distinte - egli sostiene - uno può con certezza inferire l’esistenza di A da quella di B e viceversa, perché l’affermazione che l’uno è la negazione dell’altro non produce contraddizione. Sulla base di questo principio, non si potrebbe inferire l’esistenza di effetti a partire dalla conoscenza delle loro cause, e nemmeno l’esistenza di sostanze dalla conoscenza dei loro accidenti. Questa visione contraddice la posizione aristotelica, secondo la quale le relazioni causali esistono realmente e si possono conoscere attraverso l’induzione, cosicché l’esistenza delle sostanze si può inferire dagli accidenti sensibili che le ineriscono. La conseguenza della posizione di Autrecourt è che noi
non abbiamo esperienza di relazioni causali o di sostanze, e nemmeno la logica è in grado di fornirne una conoscenza certa. Non ci sono motivazioni logiche per supporre che c’è un’evidente relazione tra una causa ed un effetto, o tra una sostanza ed un accidente. La posizione sopra delineata viene sviluppata nella corrispondenza di Autrecourt. Essa ha indotto gli storici della filosofia a caratterizzarlo come il più importante, se non il solo, "autentico" rappresentante dello scetticismo medievale, come "lo Hume medievale", per usare l’epiteto di Hastings Rashdall. Ad un’analisi più serrata, comunque, emerge che lo scetticismo di Autrecourt è limitato alle pretese razionalistiche circa la verità del nostro attaccamento alla causalità e alla sostanza, concetti di cui non disponiamo di una prova empirica. Autrecourt non è affatto scettico quando si trova nella condizione di dover difendere l’attendibilità della percezione sensibile. Nella sua Lettera a Bernardo, egli attacca quel Bernardo d’Arezzo che aveva sostenuto che l’intelletto non è sicuro né dell’esistenza di quelle cose di cui ha una chiara conoscenza intuitiva, né delle sue stesse azioni. Autrecourt rivela tutte le implicazioni di questa posizione facendo rilevare a Bernardo che "tu non sei certo di quelle cose che si trovano al di fuori di te. E così tu non sai se sei in cielo o in terra, nel fuoco o nell’acqua…Allo stesso modo, non sai che cosa esista nei tuoi immediati paraggi, ad esempio dove se hai una testa, una barba, dei capelli e così via". Egli conclude affermando che l’affermazione ei Bernardo è anche peggiore di quella degli "Accademici", ovvero degli antichi scettici. Per Nicola di Autrecourt, la conoscenza intuitiva è alla base del sapere, non già perché concerne cose esistenti, bensì soltanto per la sua maggiore chiarezza rispetto alla conoscenza astrattiva. Però non si può essere certi che ciò che si manifesta nella conoscenza intuitiva debba anche esistere e che ciò che si manifesta come vero sia realmente tale. La conoscenza degli oggetti sensibili e dei nostri atti interni è evidente, ma non v’è garanzia assoluta che ciò che è evidente sia anche necessariamente vero. L’unica cosa che si può sostenere è la sua probabilità. L’intelletto può solamente riconoscere che il contrario di ciò di cui si può essere certi, cioè dell’evidente, non può essere vero. Il criterio razionale dell’evidenza è dunque dato dal principio di non contraddizione, che tuttavia non consente di dimostrare il principio di causalità. Esso, infatti, ci dice soltanto che una stessa cosa non può essere insieme se stessa e il suo contrario, ma non dice che, se c’è una determinata cosa (A), necessariamente ne esiste un’altra (B), che chiamiamo effetto della prima. Anche l’esperienza può solo accertare che ad A segue B e, sulla base delle conoscenze passate, prevedere che sarà così anche in futuro. Ma da ciò non scaturisce che, dato A, ne consegua necessariamente sempre B: questa è una proposizione soltanto probabile, non certa. Similmente – come già mostrava Guglialmo da Ockham (e come mostrerà John Locke), con l’esperienza conosciamo solamente qualità, dalle quali non si può inferire l’esistenza di una sostanza. Ma, stando così le cose, nessuna delle proposizioni della fisica e della metafisica aristotelica può essere considerata come dimostrata.
Metafisica
Alla sfida scettica di Bernardo, Autrecourt replica che l’esperienza sensibile è attendibile, solida. Questo tema comunque non viene ulteriormente sviluppato nelle lettere indirizzate a Bernardo. Per la discussione di tale questione dobbiamo rifarci all’Exigit ordo. In una sezione di questo trattato, che risente della Metafisica di Aristotele (IV, 5), Autrecourt si dedica ad uno dei problemi centrali della metafisica, vale a dire la
relazione tra l’apparenza e la realtà. Si rifà alla posizione di Pitagora secondo la quale tutto ciò che è apparente è vero: An omne illud quod apparet sit? ("Tutto ciò che appare esiste?"). Autrecourt difende la tesi che ciò che appare sia e che ciò che appare vero sia vero. Egli trova questa posizione più plausibile che quella opposta, ovvero che l’intelletto non possa raggiungere la certezza. Il suo concetto di apparenza gioca un ruolo chiave nella sua dottrina della conoscenza certa. Esso è utilizzato in senso fenomenico, per descrivere esperienze sensibili. Secondo Autrecourt, l’intelletto è certo di tutto ciò che risulta evidente nell’analisi finale. Questo è il caso di tutto ciò che appare in senso proprio (apparet proprie), cioè di ciò che appare con chiarezza in un atto dei sensi esterni (in actu sensuum exteriorum). Autrecourt identifica le apparenze con gli oggetti dell’esperienza sensibile immediata, che dono considerati evidenti. In questo modo, egli asserisce che la percezione sensibile sia un’attendibile fonte di verità, ovvero che le proprietà apparenti di un oggetto siano le sue effettive proprietà. Ma una percezione sensibile è attendibile? Gli errori percettivi ed i sogni sembrano indicare che le cose non stanno sempre come sembra. Autrecourt considera vari dubbi scettici (dubia), versioni di ciò che in seguito verrà chiamato l’"argomento dell’illusione" e l’"argomento del sogno". Questi argomenti procedono dall’assunzione del senso comune che le cose spesso appaiono diverse da quelle che sono: ad esempio un cibo dolce può sembrare amaro, un oggetto bianco può sembrare rosso, nel sonno a qualcuno può sembrare di volare o combattere i Saraceni. Come risponde Autrecourt a questi dubbi scettici? Distinguendo tra apparenza e giudizio. Le apparenze sono sempre veritiere: l’esperienza non può essere diversa da quella che è. Comunque, i giudizi tratti dall’esperienza possono essere fallaci, in particolar modo se sono basati su immagini piuttosto che su quanto viene percepito "in piena luce". In altre parole, Autrecourt nega ogni conflitto delle apparenze. Quelle "non in piena luce" non sono in se stesse percezioni errate perché le esperienze stesse non sono illusorie. Semplicemente esse non riescono a darci le proprietà reali degli oggetti percepiti. Un potenziale conflitto si insinua a livello del giudizio, dove vengono avanzate pretese ontologiche sulla base delle apparenze. Soltanto quelle apparenze che sono "in piena luce" rivelano le autentiche proprietà degli oggetti percepiti e solo esse possono fornire le basi per giudizi che siano veri. Le apparenze degli oggetti che non giungono a colui che percepisce "in piena luce" sono incomplete o contaminate, come se l’osservatore stesse guardando uno specchio. In altre parole, Autrecourt distingue con attenzione tra "x appare F" da "x è F", perché anche se x non è realmente F, può ancora apparire F e induce qualcuno a credere che X sia F. In tal modo le illusioni e i sogni si trasformano in credenze errate. Soltanto le apparenze chiare (apparentiae clarae) possono essere alla base di giudizi veritieri. Un ultimo argomento sollevato da Autrecourt in questo contesto è il problema del criterio: come si può discernere tra le apparenze che costituiscono e quelle che non costituiscono il fondamento di giudizi veritieri? Come Aristotele, Autrecourt sostiene che le apparenze di ciò che noi percepiamo in condizioni "normali" sono le cause di ragionamenti veri. Sempre in sintonia con Aristotele, asserisce che non esiste una prova ulteriore che il criterio su cui si fonda la distinzione tra giudizi veridici e falsi sia corretta. Entrambi liquidano le preoccupazioni circa la giustificazione del criterio considerandole assurde. Così dice Autrecourt: "si deve accettare come vero ciò anche appare in piena luce. Ora, come si può essere certi riguardo la premessa minore dell’argomentazione? […] Un modo di rispondere a questa domanda sarebbe dire che non vi è alcun modo di provare la conclusione, ma che il concetto di certezza che è presente arriva come una valida conseguenza naturale, e non come una conclusione. Un esempio, tra gli altri, è che bianco e nero sono diversi. Questo concetto della loro differenza non è ottenuto tramite la conclusione".Filosofia della natura
Il punto di partenza della fisica di Autrecourt è una tesi che lo persuade più di ciò che trova nella Fisica aristotelica, cioè che
tutte le cose sono eterne. Una delle implicazioni di questa tesi è che non vi è alcun processo di generazione o corruzione nell’universo, cosa che sembra entrare in conflitto con il modo in cui le proprietà iniziano e cessano di esistere nei loro soggetti, ad esempio quando qualcosa di bianco diventa nero, così che la bianchezza cessa di esistere. Secondo Autrecourt, nessuna autentica corruzione ha avuto luogo. Semplicemente la forma naturale non è più visibile, dal momento che essa è stata divisa e dispersa nelle sue più piccole unità. In altre parole, egli attribuisce l’apparente generazione e corruzione delle cose al movimento di atomi. Coerentemente con la sua visione atomistica, egli sostiene anche che lo spazio e il tempo consistano in unità indivisibili, ovvero, rispettivamente in punti ed istanti. Questa spiegazione atomistica della generazione e della corruzione rimane vera – egli afferma - se il movimento non è distinto dall’oggetto mobile. Perché se il movimento fosse un’altra cosa distinta, provocherebbe la generazione di qualcosa di nuovo, mentre la quiete costituirebbe la sua corruzione. Visto da questa prospettiva, il movimento locale confuterebbe l’eternità dell’universo. Per questa ragione, Autrecourt reputa necessario esaminare più da vicino lo statuto ontologico del movimento. Egli argomenta che il movimento non è una cosa distinta dall’oggetto che si muove. Sulla scia di Ockham, rifiuta l’idea che il moto sia un qualche cosa di positivo proprio dell’oggetto in movimento. Pertanto, la perdita di movimento non dovrebbe essere descritta come la distruzione o la corruzione di un’entità e l’eternità viene salvata.
Semantica
Nicola di Autrecourt non ha lasciato nessuno scritto di logica, né ha discusso di logica e semantica nell’Exigit ordo o nella sua corrispondenza. Comunque da alcuni dei suoi articoli censurati è chiaro che egli dovesse essere aggiornato sui dibattiti di logica del suo tempo. Stando ad uno dei suoi articoli, Autrecourt affermava che "L’Uomo è un’animale" non è una proposizione necessaria secondo la fede, perché in quel senso non ci si attiene alla connessione necessaria tra i due termini. Questo articolo dovrebbe essere letto sullo sfondo del sofismo "L’uomo è un animale", che ricevette una considerevole attenzione nel corso dei secoli XIII e XIV. Serviva a rendere chiara la distinzione tra significato (significatio) e riferimento (suppositio) indagando la verifica di proposizioni riguardanti classi vuote. Sarebbe ancora vera la proposizione "L’uomo è un animale" se non esistesse alcun uomo? Cinque altri articoli che vengono portato alla luce nella condanna di Autrecourt riguardano il complesso significabile, o ciò che è significato da un’intera proposizione. Secondo gli aderenti alla dottrina come Adam Wodeham e Gregorio da Rimini, l’oggetto della conoscenza non è la proposizione, o le cose (res) a cui fa riferimento nel mondo esterno, ma "ciò che è significato" dalla proposizione. Uno dei problemi sollevati da questa teoria riguardava lo status ontologico del complesso significabile: è qualcosa (aliquid) oppure nulla (nihil)?