IL PENSIERO NONVIOLENTO DI ANTONIO VIGILANTE
Di Antonietta Pistone
Risale a qualche anno fa la pubblicazione del pensiero nonviolento del Prof. Antonio Vigilante, per le Edizioni del Rosone di Foggia e la collana l’aratro, da lui medesimo diretta e curata. L’autore prende spunto dal lavoro del filosofo tedesco Martin Heidegger che nel 1935, nel suo corso di Metafisica, pone agli allievi la domanda ontologica radicale: “Perché l’Essere e non piuttosto il nulla?”. Lo smarrimento dell’uomo del Novecento, che vede distrutta ogni sua precedente edificazione dalla crudele violenza del primo conflitto mondiale, chiede di venire risolto attraverso la ricerca del fondamento dei valori ormai desueti. E si può accompagnare, nelle intenzioni del nostro filosofo, padre dell’Esistenzialismo tedesco, alla questione metafisica sul fondamento dell’Essere. Ciò che stupisce l’uomo di cultura di ogni tempo è il prendere atto che anche le religioni spesso nascondono, in modo più o meno evidente, una sufficiente dose di violenza. E nella storia, in nome di Dio, si sono compiuti e si compiono tuttora misfatti e nefandezze, crimini contro l’umanità, che nulla hanno da invidiare agli atti terroristici veri e propri. Effettivamente, ogni religione ha una quota di inevitabile violenza. Perché ogni religione è un’interpretazione dell’uomo. E l’uomo è un essere violento e pacifico al tempo stesso. La violenza è ontologicamente connaturata alla vita e alla sopravvivenza, se anche l’atto del respirare è atto violento che sopprime milioni di microrganismi presenti nell’aria. Essendo però la religione un prodotto della cultura, e non della natura umana, è possibile estirpare la violenza dalla e della religione, abbattendo ogni forma di dogmatismo o di presunzione, che fa della verità un possesso privilegiato e dogmatico, destinato ad alcune “caste”. Ma per estirpare la violenza delle religioni bisogna educare il cuore dell’uomo. Ed è a questo punto che la nonviolenza diventa atto formativo e impegno pedagogico, che è metànoia spirituale, facendosi così operazione intellettuale di raffinata sensibilità culturale che innesta valori e rispetto per l’uomo, operando dal di dentro, a partire dalla sua anima. L’uomo nonviolento è perciò forte e saldo nella sua fede, che trae la religiosità più antica e profonda dal cuore stesso. Ed è dunque la forma più autentica di religione quella che nega se stessa come prodotto della storia per ritrovare nella natura umana la sua più vera modalità di essere e di porsi. È il richiamo all’uomo di Socrate, al “redi in te ipsum” di Agostino. Alla scoperta dell’uomo “possibile”. Di un futuro che non è ancora, ma che si può definire a partire dall’uomo, dalla sua alterità e dall’incontro con l’altro. L’apertura, l’uscire da sé per comunicarsi è l’atto implicito del dialogo e della vera condivisione, che abbatte le frontiere dell’incomunicabilità e della distanza tra le culture. E consente il proliferare di un’umanità più ricca di valori disponibili, e la comunione di intenti e di spiriti, anche nella diversità. Il rispetto della vita dell’altro è perciò accettazione della sua parola, del suo modo di vivere e di sentire, e approssimazione alla sua gioia, ma soprattutto compassione per la sofferenza. Sembra, infatti, che il dolore accomuni l’uomo di ogni tempo e di ogni razza e latitudine. La condivisione del dolore, fisico e psichico, unisce ogni uomo al proprio simile indissolubilmente, confermando la comune e identica natura dei viventi che esistono, e non sono, in senso strettamente ontologico. L’attenzione per l’altro si fa etica della responsabilità che permette un’intelligenza dell’uomo che è trascendimento, nel superare i limiti delle angustie quotidiane. È con il riconoscersi nel volto dell’altro e nelle condivise ragioni del cuore che si realizza attualmente la più matura razionalità della persona, che arricchisce il suo intelletto di quei valori affettivi ed emozionali che solo le religioni possono considerare proprie dell’uomo, nel superamento dell’antica concezione che antepone la fredda riflessione del logos al forte, intrinseco bisogno di espandersi entro e oltre i confini dell’anima. Il pacifismo appare di conseguenza un atteggiamento ai limiti dell’utilitarismo politico e culturale, fermandosi passivamente alla condanna della guerra, laddove la nonviolenza si propone di risolvere il conflitto, trascendendolo per l’arricchimento reciproco delle parti. La nonviolenza è, in tal senso, ricerca della verità più propria all’uomo, che si ritrova come soggetto di Amore, capace di costruire relazioni e di gettare ponti tra le culture. Nonviolenza è educazione della mente e del cuore attraverso la mano. Il lavoro manuale, più di quello intellettivo, rappresenta un primo passo verso una società edificata su valori di pace. Una civiltà del dialogo che attraverso il tu trascende nella compresenza ogni forma di individualismo e di totalitarismo. Nel dialogo inteso come incontro per tutta la comunità si fondano i presupposti di una radicale trasformazione della società mafiosa, votata al silenzio omertoso ed atterrito di tutti coloro i quali si rendono in qualche modo conniventi del fenomeno malavitoso. Sarebbe perciò auspicabile una società maieutica in senso socratico che, attraverso l’interlocuzione dialogante, si ponga domande radicali e fornisca a se stessa risposte soddisfacenti e critiche per un futuro nuovo, pensabile e progettabile attraverso le categorie della possibilità responsabile e matura di tutta la collettività umana dei cittadini e dei politici. In tal senso l’educazione alla nonviolenza diventa un primo passo indispensabile ed imprescindibile verso la valorizzazione pedagogica e politica della società del futuro. La violenza, come il silenzio efferato dell’omertoso colludente, riduce gli uomini a cose, pietrificando gli esseri, ritiene Simone Weil. Mentre la forza è la virtù di lasciar crescere accanto. Nella efferata violenza del secolo delle due guerre mondiali, dall’altra parte del mondo, in India, Gandhi tenta una risposta alla domanda radicale e ontologica di Heidegger, attraverso la filosofia della nonviolenza. Il profeta della nonviolenza, infatti, ci ha dato prova di come sia possibile una metafisica che interpreti l’Essere del reale come forza suprema dell’Amore, il cui equilibrio viene purtroppo sistematicamente infranto dalla cosificazione annichilente dell’atto che rompe l’armonia dell’uomo con la natura, e l’accordo primigenio dell’anima con Dio. L’Essere che Heidegger cercava, per opporlo al nulla annichilente della morte, risiede perciò, nell’interpretazione di Gandhi, nella forza della nonviolenza, praticata con testarda convinzione, nell’intento di vivere l’esperienza esistenziale in accordo supremo con il mondo e con la natura, con gli altri esseri che abitano la terra, nel mutuo, reciproco sostegno che rende l’uomo fratello dell’altro uomo, mentre si specchia nel volto del proprio simile, mentre incontra l’altro nel dialogo e nella comunione reciproca. Se dunque l’Essere è la forza dell’Amore, e della nonviolenza, mentre il Nulla è l’Odio violento e distruttore, l’Essere esiste in quanto generatore della vita, ed il Nulla esiste come suo opposto, in quanto morte e degenerazione. Ma poiché è l’Amore a dare la vita, l’Essere vince il Nulla, cioè la totale assenza, il buio, il vuoto cosmico, l’assordante silenzio del day after, finché ci sarà ancora un uomo a costituire la speranza per un Suo nuovo inizio.
Antonietta Pistone
Docente di storia e filosofia
versione integrale di un mio articolo comparso sul periodico "Il Provinciale" di Gennaio-Febbraio 2008, a pag.10, con il titolo Per vivere in accordo supremo con il mondo e la natura.