ORTEGA Y GASSET

"La condizione dell'uomo è, in verità, stupefacente. Non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all'astro e all'albero la forma del loro essere. L'uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero. " ("Il tema del nostro tempo")

INDICE
BREVE SINTESI DEL PENSIERO
ESPOSIZIONE DEL PENSIERO




BREVE SINTESI DEL PENSIERO

E' difficile dare una precisa collocazione alla filosofia di Josè Ortega y Gasset (1883-1955), poiché essa pare per sua natura sfuggire ad ogni definizione, ad ogni ingabbiamento. Nel percorso filosofico del pensatore spagnolo occupano un posto privilegiato le riflessioni di Husserl, di Dilthey, di Heidegger e, solo in un primo momento, dei neokantiani. Rispetto alla filosofia dell'altro grande protagonista del panorama filosofico spagnolo del '900, Unamuno, il pensiero di Ortega y Gasset si colloca in posizione pressoché antitetica: se Unamuno insisteva costantemente sul piano mistico del riscatto dal mondo e dell'immortalità, Ortega y Gasset, invece, pone laicamente l'accento sulla destinazione assolutamente terrestre dell'uomo, sul primato indiscusso del bisogno di felicità e di sicurezza da soddisfare nella dimensione storica e mondana. Unamuno, legato alla Spagna mistica dei Calderòn e dei Giovanni della Croce, si propone di ispanizzare l'Europa; Ortega, intriso di quella cultura centro-europea che trova i suoi massimi esponenti in Goethe e Kant, auspica che la Spagna possa ad essa integrarsi. Dopo una iniziale adesione alle tesi dei neokantiani di Marburgo, il pensatore spagnolo se ne distacca, rinfacciando ad esse un eccesso di idealismo e di intellettualismo: il neokantismo cede in lui il passo all'attenzione per la fenomenologia di marca husserliana, di cui Ortega non esita ad accogliere il metodo e, soprattutto, il presupposto costituito dal "mondo-della-vita" (pur criticandone l'impostazione a suo avviso ancora troppo idealistica che trapelava dalla nozione di "epoché"). In particolare, Ortega y Gasset fa sua la centralità della vita valorizzata da Husserl, il suo ritorno alle cose stesse: resta soprattutto colpito da una pagina delle "Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica", in cui si parla del "mondo nel quale mi trovo e che è insieme il mio 'mondo circostante'". Proprio dalla nozione di "circostante" nasce l'elaborazione della filosofia orteghiana, la quale sostituisce però alla "coscienza" di cui parla Husserl l'uomo concreto, calato nel mondo materiale: infatti, ciò che veramente " esiste non è la coscienza - e in essa le idee delle cose - bensì un uomo che esiste in un contesto di cose, in una circostanza anch'essa esistente" ("La idea de principio en Leibniz y la evoluciòn de la teoria deductiva"). La vita è, secondo Ortega, una relazione tra un io e una circostanza, poiché " ciò che veramente c'è ed è dato è la mia coesistenza con le cose, insomma questo fatto assoluto: un io nella sua circostanza". Nelle "Meditazioni sul Don Chischotte" (1914) aveva scritto: "io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non mi salvo nemmeno io". La vita circostanziale a cui allude Ortega è l'accadimento originario per via del quale l'uomo, catapultato fuori di sé, lontano dalla sua intimità, si trova ad esistere fuori di sé, in quell'oggettività delimitata spazialmente e temporalmente che è, per l'appunto, la circostanza. E' un rapporto problematico: l'uomo vive le cose circostanziali come a lui straniere, quasi ostili, e deve piegarle ai bisogni del suo vivere. In questa prospettiva, "salvare la circostanza" per salvare noi stessi significa darle un senso, e ciò è il compito della cultura e di quello che ad essa sta a fondamento: la ragione, ma non quella fredda ed astratta del razionalismo, che pretende di dar leggi alla vita; bensì quella che è al servizio della vita, quella cioè che crea teorie che la chiariscano a se stessa e le diano sicurezza. Questa tipologia di ragione viene da Ortega definita - per distinguerla da quella del razionalismo di matrice cartesiana - "ragione vitale", con un evidente riferimento alla sua internità rispetto alla vita stessa, di cui è strumento. La verità a cui conduce questa ragione non è quella della scienza, ma è quella della vita: a questa tematica, il filosofo spagnolo dedica due saggi, "Sensazione, costruzione e intuizione" (1913) e "Verità e prospettiva" (1916). Con lo sguardo rivolto a Leibniz, Ortega si schiera contro ogni teoria che propugni "l'erronea credenza che il punto di vista dell'individuo sia falso", giacchè, viceversa, esso è "l'unico da cui il mondo possa essere guardato nella sua verità". Ne consegue che, se la realtà "si offre in prospettive individuali", allora si può dire che ciascuno di noi è assolutamente necessario, insostituibile; non solo ogni singolo, ma addirittura ogni gruppo, ogni specie, poiché ciascuno "è un organo di percezione distinto da tutti gli altri e come un tentacolo che raggiunge frammenti di percezione dell'universo inattingibili da tutti gli altri". Ecco perché, nel saggio "Le Atlantidi" (1924) Ortega y Gasset arriva alla conclusione che nessuna cultura, neppure quella europea, ha il diritto di pretendere di avere un'egemonia sulle altre; ogni cultura è uno specchio della verità. Soprattutto durante gli anni Venti e Trenta, il filosofo spagnolo elabora - sulla base della circostanzialità della vita - un'antropologia volta ad evitare riduzionismi (sia naturalistici, sia spiritualistici): l'uomo è un animale fantastico, del tutto diverso da ogni altro, poiché è il solo a non potersi mai definitivamente adattare al mondo circostante; in virtù del suo potere immaginativo, l'uomo duplica la realtà, creando un mondo interno e suo. Certo, l'uomo è anche un animale "tecnologico", che si serve delle innovazioni tecnologiche per piegare la circostanza, aggredendo il mondo, ma si tratta di vittorie fragili e di breve durata, che in definitiva vedono l'uomo sempre come perdente. E' durante gli anni '30 che Ortega intensifica il suo rapporto con la filosofia di Heidegger, protagonista indiscusso di quegli anni: ne scaturisce la ferma convinzione che la filosofia debba affrontare il problema dell'essere, scavalcando l'alternativa tra idealismo e realismo (l'essere non è né le cose esistenti in sé, né le cose pensate). L'essere dev'essere secondo Ortega cercato nella datità della vita, cioè nella "pura coesistenza di un io con le cose, delle cose dinanzi all'io" ("Algunas lecciones de metafisica"). All'ontologia spetta quindi il compito di individuare le categorie costitutive della vita: vivere è - heideggerianamente - "trovarsi nel mondo" a patire e insieme ad agire le cose in una mutua relazione, nella condizione di poter progettare se stessi in un margine di libertà; allora, se la vita è "un fa farsi", l'essere non è un qualcosa di già costituito, e che né le cose né l'uomo hanno per sé l'essere, il quale è, pertanto, "ciò che manca alla nostra vita, l'enorme buco o vuoto della nostra vita" ("Algunas lecciones de metafisica"). Ma - distaccandosi in questo da Heidegger - la domanda metafisica intorno all'essere non è originaria e costitutiva dell'esistenza: anzi, la filosofia come ricerca dell'essere inerisce sempre a una determinata situazione storico-culturale, e dunque non è detto che sia perenne. Con queste considerazioni sullo sfondo, Ortega, nella maturità del suo pensiero, approda allo storicismo: la ragione vitale diventa ragione storica. Gli scritti che documentano questa nuova stagione della riflessione orteghiana sono soprattutto "Intorno a Galileo" (1933), "Storia come sistema" (1935) e "La ragione storica" (1940): in esplicito contrasto con la tesi hegeliana della razionalità salvifica della storia, Ortega afferma con Dilthey che è la ragione stessa ad essere storica (e non la storia ad essere razionale), in quanto intrinseca alla vita dell'uomo (che, come abbiam detto, è un "da farsi"). Ma con questo Ortega non vuol ridurre la storia ad una mera sequenzialità caotica di eventi: in sintonia con Heidegger, sostiene la storicità dell'uomo e, come conseguenza, la necessità di porre un nucleo a priori, una sorta di ontologia della realtà storica ("istoriologia" la chiama Ortega), il cui ufficio è di dare la teoria della struttura essenziale della vita storica. In quest'ottica, il sapere storico si edificherà attraverso ipotesi che permettano di connettere quel nucleo a priori con i fatti empirici: per la conoscenza storica, in definitiva, è bene adottare lo stesso procedimento ipotetico-deduttivo adottato da Galileo per costruire la scienza della natura. In opposizione a Dilthey, Ortega respinge la distinzione tra spiegare e comprendere, sostenendo che la comprensione della vita umana debba sempre far in qualche modo riferimento a spiegazioni causali. Ne "La ribellione delle masse" (1930), che fu salutato dai contemporanei come un testo destinato ad avere il successo de "Il capitale" di Marx o de "Il contratto sociale" di Rousseau, Ortega prende in esame la crisi culturale e spirituale che travaglia l'Europa a lui contemporanea, ravvisandone l'origine nell' "avvento delle masse al pieno potere sociale". Ciò è il segno del venir meno della funzione della cultura, minacciata dalla massificazione dei valori e dei comportamenti: "la massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia 'come tutto il mondo', chi non pensi come 'tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato". L'uomo-massa, non identificabile con una particolare classe sociale, è l'uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è, non intenzionato a migliorare perché si considera già perfetto. La sua 'cultura' è fatta di "luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza". Insomma, essa non è che barbarie: l'unico desiderio che ha l'uomo-massa è di soppiantare gli uomini a lui superiori; ed è così che, appunto, nasce la ribellione delle masse, l'azione diretta e la violenza come prima ratio, quando in una civiltà fondata sulla volontà di convivenza, sulla democrazia liberale, non potrebbero che essere l' ultima ratio. E' questa - dice Ortega - la "Magna Charta" della barbarie, di cui è fulgido esempio il fascismo. A questa degenerazione della civiltà, Ortega contrappone la formazione di una minoranza aristocratica, composta da uomini eletti, nobili, che facciano dello sforzo, dell'urgenza di trascendersi la norma trascendente della propria vita. Il filosofo spagnolo continuerà a lungo ad interrogarsi sul ruolo delle minoranze intellettuali nel bel mezzo della crisi di civiltà che affligge l'Europa negli anni '30 e nei decenni successivi: maturerà la convinzione che il compito dell'intellettuale non è immediatamente politico, ma semmai è quello di educare l'opinione pubblica, di promuovere l'eticità e la formazione di credenze idonee a rilanciare la vita degli uomini.

ESPOSIZIONE DEL PENSIERO

Ortega y Gasset, ritenuto da Albert Camus il più grande scrittore europeo, dopo Nietzsche, si affermò come il più brillante saggista della sua generazione con la pubblicazione, nel 1914 poco più che trentenne, delle “Meditaciones del Quijote”; nello stesso anno è accolto nella Real Académia de Cencias Morales y Políticas. L’anno successivo fonda con Azorín e E. D’Ors la rivista “España” (Semenario de Vida Nacional). Le “Meditaciones”, il primo libro di Ortega, dopo la pubblicazione di alcuni “Articulos” (1902-13), ritenuto fondamentale nella sua vasta produzione socio-politico-filosofica, è ‘emblematico”: si tratta, infatti, quasi come tutte le successive opere orteghiane, di una raccolta di “ vari saggi pubblicati da un professore di Filosofia in “partibus infidelium ”; alcuni come questa serie di “Meditazioni del Chisciotte” trattano temi elevati; altri, temi più modesti; altri ancora, temi inutili; tutti, direttamente o indirettamente finiscono per riferirsi alle circostanze spagnole. Per l’autore, questi saggi sono - come la cattedra, il giornalismo o la politica - modi diversi di esercitare una stessa attività, di esprimere uno stesso sentimento... “ Il sentimento che mi muove è il più vivo che trovo nel mio cuore; ... si tratta, o lettore, di saggi di amore intellettuale “ (Meditazioni del Chisciotte). Il libro comprende un prologo al Lettore, una “Meditazione preliminare”, e una Meditazione prima: il “Leit motiv” è il Don Chisciotte di Cervantes, che è l’opera d’arte e di cultura più alta che la Spagna abbia prodotto. Ma lungo la traiettoria che parte da Cervantes, Ortega giunge a Stendhal, Dostojewskij, Proust, Yoyce, attraverso anche Shakespeare, Goethe, Schelling, Heine, Dickens, Flaubert, ma anche attraverso l’Iliade e l’Odissea di Omero; e attraverso, Platone, Galileo, Descartes, Leibniz, Kant, Nietzsche, e così via. Libro quindi strategico e fondamentale nella biografia intellettuale orteghiana, in cui, peraltro, affronta il Don Chisciotte. Così Ortega continua: “ insieme ad argomenti rilevanti, in queste Meditazioni si parla frequentemente di minuzie; si prendono in considerazione dettagli del paesaggio spagnolo, del modo di conversare dei contadini, delle danze e dei canti popolari, dei colori e degli stili nel vestire e negli arredi, delle peculiarità della lingua, e, in generale, delle piccole manifestazioni in cui si rivela l’interiorità di una razza ”. Ma ecco il punto: come è suo stile abituale, in tante digressioni, divagazioni accessorie, dettagli, citazioni, antinomie, spesso “paraboliche”, Ortega inserisce dei pensieri - chiave, delle riflessioni più o meno apodittiche che attraversano tempi e luoghi (oltre il XX secolo, la Spagna e l’intera Europa): la “ piena coscienza delle circostanze ”, in queste Meditazioni. Ortega, infatti, avverte: “ Facendo molta attenzione a non confondere ciò che è grande e ciò che è piccolo, affermando sempre la necessità della gerarchia.. considero urgente concentrare anche la nostra attenzione riflessiva, la nostra meditazione, su ciò che si trova nei pressi della nostra persona. L’uomo dà il massimo delle sue capacità quando acquisisce la pien coscienza delle sue ‘circostanze’; attraverso di esse comunica con l’universo. La Circostanza! Circum - stantia! Le cose mute che ci circondano! Vicine, vicinissime a noi, mostrano le loro tacite fisionomie con un gesto di umiltà e di desiderio, come bisognose di farci accettare la loro, offerta ... Tutti, in varia misura, siamo eroi e tutti suscitiamo umili amori. Sono stato un lottatore: un uomo sono stato, “prorompe Goethe”. La caducità, limmediato, il momentaneo nella vita ci rende, insieme, eroi della circostanza e umili: La vita, moltitudine di necessità private che nascondono pudiche il viso nei recessi dell’animo perché non si vuole concedere loro cittadinanza; intendo dire, senso culturale. ... Vita individuale, immediatezza, circostanza, sono nomi diversi per una stessa cosa: quelle parti della vita dalle quali non si è ancora estratto lo spirito che racchiudono, il loro logos. E poiché spirito, logos non sono altro che ‘senso’, connessione, unità, tutto l’individuale, l’immediato, il circostante, sembra casuale e privo di significato ”. Ed ecco che, a poco a poco, si delinea la vita individuale come “res dramatica”, “insecurites”, “pathos”, “skepsi”, e infine come “naufragio” e “ricerca di approdo”: l’immediato, il circostante, l’occasionalità soggiogano la vita dell’uomo. La vita come circostanza e come ricerca; a tale riguardo Ortega prorompe: “ dobbiamo cercare per la nostra circostanza, il luogo appropriato nell’immensa prospettiva del mondo, scavando esattamente in ciò che essa ha di limitato, di peculiare. Non bisogna restare perpetuamente in estasi di fronte ai valori ieratici, ma conquistare per la nostra vita il posto che le spetta in mezzo ad essi. Insomma: il riassorbimento della circostanza è il concreto destino dell’uomo ”. Ed ancora: “ io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo non salvo neanche me stesso ”. Pertanto la speculazione filosofico - culturale di Ortega, che parte dal Don Chisciotte di Cervantes (“ un Cristo gotico, macerato da angosce moderne, un cristo ridicolo del nostro quartiere, creato da un’immaginazione dolente ”), si sostanzia di un’angoscia tutta moderna, lacerante, - a volte però anche “ludica”, “sportiva” (com’è la vita) -: l’uomo è “dis-orientato” in un mondo che non conosce, è “naufrago”, smarrito, incerto, dubbioso; è alla ricerca, coma il Don Chisciotte, di nuovi lidi. Il Chisciotte è l’uomo moderno. Ora, proprio Ortega ci autorizza, con le sue meditazioni sulla vita individuale, a cogliere con particolare evidenza alcune “circum-stantiae” della propria vita, le cui “circostanze” hanno chiaramente influito in varia maniera, sulla vita intellettuale, esistenziale di Ortega: una vita intensa, lacerante, spesso angosciante che ha portato Ortega esule, profugo, inquieto, ramingo per il mondo; un “novello Ulisse” alla ricerca di sempre nuovi approdi; ma, a volte, anche un tragico Don Chisciotte; non diversamente dall’“uomo folle” della pagina nietzschiana, “è venuto troppo presto”: “troppo presto per le generazioni che ci hanno preceduto”. La complessa e multiforme produzione orteghiana non è monolitica, rigida, bensì aperta, flessibile, poliedrica, variamente sfaccettata: all’interno di essa vi sono opere prettamente filosofiche (o sociologiche, o politiche o estetiche, o storico-filosofiche), ma più spesso il pensiero orteghiano è pur sempre intessuto di riflessioni sparse che vanno dall’arte alla politica, dalla filologia alla storia, e alla filosofia, ecc... Ciò nondimeno la filosofia orteghiana, pur nella sua “a-sistematicità” (che per altro ha fatto uscire dai gangheri filosofi come M.F. Sciacca, che lo liquida accusandolo di essere “un filosofo senza filosofia”, ed altri filosofi nostrani), può essere raggruppata e scandita, sia pure con grosse aperture e in modo molto flessibile - con notevoli e ripetute eccezioni -, in quattro fasi fondamentali, proprio per evitare ulteriori fraintendimenti e grossi scivoloni di critici poco disponibili alle “fratture” del pensiero di un grande filosofo. Ciò ovviamene non contrasta con l’ispirazione sostanzialmente unitaria della sua meditazione incentrata sull’uomo, pur nel “mare dei dubbi” che Ortega ha continuamente attraversato: dubbio, interrogazione, ricerca incessante; da qui anche antinomie, aporie, contraddizioni, incertezze, prospettive, che caratterizzano la filosofia vitale-esistenziale orteghiana. In particolare si possono evidenziare, in modo duttile e senza alcuna rigidità, tenuto anche conto che spesso il pensatore madrileno riprende temi accennati o trattati in precedenza, in rapporto alla “propria circostanza” e alla “circostanza spagnola” e agli influssi di volta in volta subiti o superati, quattro fasi:

1) una prima fase giovanile di “neo-kantismo critico” (dal 1902 al 1914), in cui Ortega, influenzato dai maestri marburghesi rispetto ai quali è alla ricerca di una propria via, si apre al tema della vita come problema di individualizzazione rispetto al mondo della natura e della cultura;

2) una seconda fase “antropologica” (dal 1914 al 1928), durante la quale, dopo la pubblicazione delle Meditazioni, privilegia la “dimensione biologio-vitale”, per poi concentrarsi sulla conoscenza dell’uomo e della circostanza;

3) una terza fase (dal 1920 al 1934), in cui Ortega, sotto l’influsso di Heidegger e Dilthey, approda “all’ontologia della vita come biografia e storia”, coniugando lo storicismo esistenziale con la sociologia, in modo molto personale ed originale;

4) una quarta fase, verso gli Anni Quaranta, nella quale Ortega avvia una “radicalizzazione” dell’idea di filosofia in rapporto con quel pessimismo ed ansia sistematica, non disgiunti dalle preoccupazioni per la situazione sociale e politica spagnola ed europea.

Con le “Meditaciones del Quijote” del ’14 Ortega aveva abbandonato il continente idealista, considerando l’uomo non un essere ontologicamente indipendente, bensì un essere legato alla sua circostanza e alla sua “Umwelt”; in tal senso Ortega fu uno degli anticipatori dell’esistenzialismo europeo (e di M. Heidegger di “Essere e Tempo”, in particolar modo). Il suo pensiero, oltre ad anticipare alcune tematiche heiggeriane (per esempio il concetto di verità come “aletheia”: “dispiegarsi luminoso delle possibilità proprie dell’uomo”), riprende, in modo del tutto originale, il concetto di Nietzsche di “prospettivismo”: “la realtà è sempre in un rapporto dinamico con l’io” (“io sono io e la mia circostanza”), sicché la vita è da intendersi come un “molteplice di possibilità umane mai esaurite”. Al razionalismo metafisico e scientifico, Ortega oppone la “ ragione vitale ” che si manifesta essenzialmente nel dar forma al “fare”, muovendo non da astratte categorie gnoseologiche, ma dalla concretezza storica delle sistuazioni e degli “usi” sociali. Di qui la funzione della cultura, che il pensatore spagnolo vede gravemente minacciata dalla moderna massificazione. Il suo pensiero è eminentemente aporetico, problematico, intessuto di notevoli contraddizioni, che fanno di lui un controcorrente, un accentuatore di tutti i motivi critici e delle più acute istanze polemiche, non - conformiste (avanzate sempre con il suo “charme” di grande scrittore paradossale); sostenitore accanito del laicismo e dell’antidogmatismo in ogni campo, dalla politica alla pedagogia, denuncia ogni forma di misticismo come “fenomeno patologico della mente umana”. Ortega più europeista e continentale di Unamuno, in conformità alla sua educazione germanica (studiò per dodici anni in Germania), che finì per fare di lui più un “ figlio di Kant e di Goethe che di Calderon e della Croce ”, ha incarnato il momento dell’Europa in Spagna, offrendoci, nella sua filosofia come stile di vita, una perfetta reincarnazione iberica dell’uomo faustiano, dell’occidente problematico, scisso, ansioso, preoccupato, continuamente in preda alla febbre della conoscenza e del dubbio. Il filosofo per Ortega, a differenza di ogni altro scienziato, si immerge nell’ignoto; il più o meno noto è “ particella, porzione, scheggia dell’universo ”. Il filosofo si situa dinanzi al suo oggetto in un atteggiamento diverso da quello di ogni altri ricercatore. Egli ignora quale sia il suo oggetto; alle altre scienze è dato un oggetto, ma l’oggetto della filosofia come tale è totale e poiché non è dato, si potrebbe definirlo, molto essenzialmente, “ l’oggetto di indagine, ciò che è perennemente ricercato ”. La filosofia “ è una scienza senza supposizioni ”: Ortega intende un sistema di verità che si è costruito senza ammettere come “suo fondamento nessuna verità”; non è sufficiente il non errare: è molto meglio l’accertarsi (il controllo critico). Bisogna eliminare dalla conoscenza la democrazia del sapere, secondo la quale esisterebbe solo ciò che tutti possono conoscere”. Il “Leit-motiv” di “Cos’è filosofia” è: la filosofia è conoscenza di tutto quanto esiste; queste parole suonano, per Ortega, con tutta la loro carica di “ elettricità intellettuale ”, con “tutta la loro ampiezza e tutta la loro drammaticità”. La prima delle esigenze che si impone al tipo di verità filosofica è quella di non accettare come vero nulla che noi stessi non abbiamo già provato e verificato. E pertanto sospendiamo le nostre credenze più abituali e plausibili, quelle che costituiscono il supporto o il retroterra nativo su cui noi viviamo. In questo senso “ la filosofia è antinaturale e paradossale, nella sua stessa radice ”. La doxa è l’opinione spontanea e abituale; ma in quanto tale essa è l’opinione “naturale”. La filosofia si vede obbligata a superarla, ad andare al di là di essa o, sempre nei suoi limiti, a cercare sotto di essa un’altra opinione, un’altra doxa, più ferma di quella spontanea: insomma “ la filosofia è para-doxa ”. “ Filosofare è non vivere ”: una dimostrazione grandiosa della causa per cui la filosofia è costitutivamente “un paradosso”; “ filosofare non è vivere; è disfarsi coscientemente delle credenze vitali ”. In questo “mare di dubbi” (antinomie, aporie, incertezze, prospettive), in tutto l’irrompere di momenti così contrastanti “ l’uomo non deve fermarsi in una sola cosa perché allora diviene matto: bisogna avere mille cose, una confusione nella testa ”, ci avverte Ortega (Nietzsche diceva “ci vuole un caos dentro di sé per generare una stella danzante”), ci sembra di poter affermare che una certa continuità si disegna a rivelare una sotterranea coerenza nel pensiero orteghiano, pur così aporetico, scisso, a-sistematico: il dogmatismo e il bigottismo che Ortega combatte per tutta la vita sono quelli di una ragione che procede noncurante della realtà circostanziale, nella superba costruzione di “ventosi edifici” di concetti e di scienza: Ortega ha sempre negato l’esistenza di una verità assoluta e afferma che la realtà si compone di “ infinite prospettive tutte ugualmente vere e autentiche, e che la sola prospettiva falsa è quella che pretende di essere l’unica vera ”. Perché mai, si chiede Ortega qualche anno dopo, “ dei miei studi in Germania, così rigorosamente scientifici, compiuti soprattutto in quell’universo dove la filosofia era allora più difficile, più tecnica, più esoterica, ho tratto la conclusione che avrei dovuto dedicarmi per non pochi anni a scrivere articoli di giornale? ”. Questa è la questione centrale per la comprensione di tutta la speculazione filosofica di Ortega che forse non è mai stata affrontata con sufficiente chiarezza. Ortega ci spiega che aveva studiato per un semestre a Lipsia, combattendo il suo primo disperato corpo a corpo con la “Critica della ragion pura” che presenta “difficoltà davvero immense per una mente latina”. Nel semestre successivo andò a Berlino; verso il 1908 passò un anno intero a Marburgo e nel 1911 vi tornò; Marburgo era la città del neo-kantiano: “ si viveva nella filosofia neokantiana coma in una cittadella assediata, in costante, ‘chi va là!’. Tutto ciò che stava intorno era sentito come un nemico mortale: i positivisti e gli psicologisti, Fichte, Schelling, Hegel. erano considerati così ostili che non venivano nemmeno letti. A Marburgo si leggeva soltanto Kant e, previamente tradotti in kantismo, Platone, Cartesio e Leibniz... Ma devo aggiungere tre cose: la prima è che a Marburgo, per l’esattezza, non si insegnava filosofia; era necessario conoscerla già, averla imparato già dal seno materno. La seconda cosa è che i neokantiani non lanciavano le giovani menti verso problemi aperti sui quali fosse possibile e interessante lavorare. Non si conoscevano altre questioni se non quelle già risolte neokantiane si caratterizzavano per lo scarso repertorio dei problemi, inquietudini e curiosità. Ma quest’aspetto si ricollega alla terza cosa ... che non mi azzardo a dirla adesso... ”. La considerazione dell’uomo è in verità stupefacente, precisa Ortega: non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero: similmente parlerà Sartre. Questa libertà di scelta consiste nel fatto che l’uomo si sente intimamente sollecitato a scegliere il meglio, e quale sia “ il meglio è una cosa che non dipende dall’arbitrio dell’uomo ”. Fra le molte cose che in ogni momento possiamo fare, possiamo essere, ce n’è sempre una che si presenta come quella che dobbiamo fare, che dobbiamo essere; ha insomma il carattere di necessità. Questa è il meglio. “ La nostra libertà di essere questo o quest’altro non è libera dalle necessità ”. Al contrario ci coinvolge maggiormente in essa: “la necessità umana è il terribile imperativo di autenticità. Chi ‘liberissimamente’ non lo esegue, falsifica la sua vita, la ‘dis-vive’, si suicida. Ci si lascia la libertà di accettare la necessità. Ed ancora più paradossalmente drammatico, incalza Ortega: “ per noi quello che si chiama pensare scientifico psicologicamente non è altro che una verità della fantasia, è la fantasia dell’esattezza. La vita umana è innanzitutto lavoro poetico, invenzione del personaggio che ognuno di noi e che ogni epoca deve essere. L’uomo è romanziere di se stesso... Ebbene, la vita è innanzitutto ... un genere letterario! ”. A lui avviso Ortega ha scelto, conformemente alla sua circostanza “il suo genere letterario”: essere, cioè, discorsivo, dialogico, colloquiale, aperto, proprio del metodo socratico: la sua è “arte maieutica” (Socrate, non ci ha lasciato, infatti, nessuno scritto); e l’articolo di giornale, il saggio breve - frutto soprattutto di lezioni universitarie, conferenze accademiche in luoghi pubblici, discorsi politici, dibattiti che Ortega ha privilegiato per tutta la sua esistenza (poi raccolti in volumi) - costituiscono il modo più autentico di dialogare e di interloquire con il vasto pubblico (lettori, uditori, politici, studenti, “aficionados” fra i giovani intellettuali di tutto il mondo europeo e americano): da ciò il carattere vivo, palpitante, immediato, circostanziale, sempre attuale, serrato, polemico, ma anche “asistematico”, “aporetico”, “socrativo” dei saggi orteghiani. Ortega non ha mai voluto imprigionare il suo pensiero in una gabbia chiusa, la “ prigione del pensiero kantiano ” dalla quale Ortega è fuggito via, per tutta la sua esistenza: l’uomo non deve fermarsi in una sola cosa perché allora diviene matto; bisogna avere mille cose, una confusione nella testa. Da qui la grande attualità di Ortega: sulla base degli undici volumi delle sue Obras Completas, risulta chiaro che la filosofia orteghiana è una delle più complesse, suggestive e stimolanti del XX secolo, ricca di geniali intuizioni e di profetiche anticipazioni e centrata sui temi fondamentali della cultura contemporanea.. Per Ortega l’uomo eredita la tradizione creata dagli altri uomini e questo lo distingue dall’animale, e “ aver coscienza di essere eredi significa aver coscienza storica ”: in ogni caso, non solo l’essere sommersi nell’enigma originario, fa scatenare l’attività dell’intelletto. Difatti - fa presente Ortega - “ nell’area fondamentale delle nostre credenze si aprono, qua e là, come botole, enormi abissi di dubbi. Il dubbio agisce nella nostra vita allo stesso modo della credenza e appartiene alla sua stessa stratificazione. Il dubbio non è un “non-credere rispetto al credere” e non è neppure “un credere che nega rispetto a un credere che afferma”; dubbio significa “stare nell’instabilità in quanto tale”: “è la vita nell’istante del terremoto permanente e definitivo ”. E ci troviamo “ nel mare dei dubbi ” allorché “ presi fra due credenze antagonistiche che cozzano fra loro e ci fanno rimbalzare dall’una all’altra, ci troviamo senza la terra sotto i piedi ”. Ebbene, sentendosi sprofondare “nel mare dei dubbi”, l’uomo reagisce e cerca di uscirne. Per questo, comincia a pensare. L’intelletto è il congegno più a portata di mano su cui l’uomo fa assegnamento. “ Quando crede non è solito servirsene, perché è uno sforzo faticoso, ma quando cade nel dubbio vi si afferra come a un salvagente ”. Le falle delle nostre credenze sono quindi il luogo vitale nel quale le idee compiono il loro intervento. Ed è così, allora, che capiamo subito “ il carattere ortopedico delle idee: esse agiscono là dove una credenza si è infranta o si è indebolita ”. “ Quel poco che l’uomo ha ottenuto è costato millenni e millenni e lo ha ottenuto a forza di errori, imbarcandosi cioé in fantasie assurde che sono rimaste strade senza uscita da cui è dovuto tornare indietro malconcio. Ma questi errori, vissuti come tali, sono gli unici ponts de repere che possiede, sono ciò che ha veramente ottenuto e consolidato... A forza di sbagliare, sta delimitando l’area del possibile esito: da ciò l’importanza di non dimenticare gli errori e questo è la storia ” (Idee e credenze, in Aurora della ragione storica). Ed ancora: “ apprendiamo dagli errori, non abbiamo certezze, i fatti scientifici sono nostre costruzioni. E le idee restano idee... Chi crede, chi non dubita, non mette in moto l’angosciosa attività della conoscenza. Questa nasce dal dubbio e mantiene sempre viva la forza che l’ha generata. L’uomo di scienza deve continuamente tentare di dubitare delle proprie verità. Queste sono verità della conoscenza, solo nella misura in cui resistono a ogni possibile dubbio. Vivono quindi un conflitto permanente con lo scetticismo. Tale conflitto si chiama prova ” (Intorno a Galileo). Per questo, “ evitare l’errore è un ideale meschino ” (Popper); e il “ panico dell’errore è la morte del progresso” (Whitehead); come ebbe a dire Einstein, un’idea - cioé un’idea buona - è davvero rara. Avanziamo per tentativi ed errori; è l’errore il debole segnale che ci permette la risalita difficile e tortuosa, dall’oscurità della caverna in cui tutti ci troviamo. Ed Ortega, a tale riguardo, afferma: “ anche nel dubbio si sta. Solo che in questo caso lo stare ha un aspetto terribile. Siamo nel dubbio come in un abisso, ossia cadendo. Esso è quindi la negazione della stabilità ”. Certamente, Ortega non è riuscito a completare la costruzione del suo edificio teorico; spesso le opere sono incomplete: tuttavia in esse ci sono le linee generali di un grande cantiere in cui sono presenti i più solidi materiali della cultura contemporanea, dalla filosofia della scienza alla sociologia, dalla linguistica alla fenomenologia. Si potrà anche criticare il “sincretismo” di Ortega, ma si dovrà anche riconoscere che tale “sincretismo non è un facile eclettismo”. Esso nacque dallo sforzo di fondere correnti di pensiero che scorrevano - e tuttora scorrono - separate. Qui sta indubbiamente il suo limite, se si amano i sistemi teorici chiusi e rigorosamente unitari; ma qui sta anche il suo fascino, se si concepisce la filosofia come una “ ricerca senza fine, che continuamente problematizza i suoi risultati ”. In una lettera indirizzata a E.R. Curtius nel 1929 Ortega annunciò il progetto di scrivere “un purana filosofico Sobre la razón vital”; qualche anno dopo precisò allo stesso Curtius di aver intenzioni di enucleare il sistema filosofico che da tempo si portava dentro in due opere intitolare “El hombre y la gente” e “Aurora de la razón histórica”: nella prima avrebbe tratteggiato una “statica sociale”; nella seconda “una dinamica”. La guerra civile, l’esilio e le continue malattie impedirono a Ortega di portare a termine il suo ambizioso programma di lavoro, sicché la sua teoria generale della società e della storia è rimasta una costruzione incompiuta. Tuttavia i numerosi e ampi frammenti che Ortega ci ha lasciato sono sufficienti per considerare la sua impresa teorica una delle più suggestive e grandiose del nostro secolo, degna senz’altro di essere paragonata a quella di Croce e di Toynbee. Ogni sistema è per Ortega un “ labirinto, un circolo chiuso ”, dove il pensiero, una volta compiuta la sua parabola, insegue se stesso, e dalle cose vede soltanto ciò che si accorda col suo programma. Per queste evidenti ragioni la critica di Ortega non è sempre pacificatrice, ma continua a gettare semi e germogli di insoddisfazione: e non sempre si sa “con certezza” in quale direzione.

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