PAOLO VIRNO

 

a cura di Giovanni Copertino

 

Paolo Virno, nato a Napoli nel 1952 è un filosofo italiano contemporaneo, semiologo e figura di spicco del movimento marxista italiano dopo il secondo dopoguerra. Attualmente insegna filosofia del linguaggio presso l’università di Roma Tre.

Trascorsa la sua infanzia a Genova, dove vi si forma politicamente. Negli anni a cavallo i ’60 e i ’70  il suo nome si associa ai gruppi armati dell’estrema sinistra, fino al 1969 anno in cui entra a far parte di Potere Operaio.

 

“Entro in Potere Operaio dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il convegno nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto del ’69 quando, dopo la rottura con Lotta Continua, si sta per formare realmente Potere Operaio come organizzazione. Come tanti altri, mi colpì questa apertura teorica e culturale, il fatto che si prendesse sul serio la grande cultura borghese, che si prendesse sul serio il pensiero negativo, che si prendesse sul serio la filosofia classica e la grande economia, Keynes, Schumpeter, in una situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti correnti nel movimento erano quelli che si sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi (narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti i compagni di Potere Operaio leggevano quelle cose, non è questo il punto: ma una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il Libretto di Mao”.

 

Il suo impegno intellettuale per la causa marxista, comporta che dal 1970 fino al 1972, impartirà lezioni sul Capitale di Marx nello stabilimento dell’Alfa Romeo di Arese:

 

“queste specie di lezioni sul Primo Libro de Il capitale (era quello il libro di testo): ci si può quindi immaginare la lettura del capitolo sulle macchine, del capitolo sulla giornata lavorativa, fatta in parte con dei compagni, in parte invece con degli operai qualsiasi, non particolarmente politicizzati. Il che però era una specie di conferma, qualche anno più tardi (verso la fine del ’73) di questo assunto generale dell’esperienza operaista, cioè sul carattere immediatamente applicabile delle pagine più avanzate di Marx alla condizione materiale dell’estrema modernità.”

 

Nel 1977 assieme a Franco Piperno e Oreste Scalzone fonda la rivista Metropoli di chiara matrice marxista.

In seguito nel 1979 nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria nota come “7 aprile” accusano Virno e gli altri di appartenere in blocco all’organizzazione eversiva «costituita in più bande armate variamente denominate».

Fu prosciolto soltanto 8 anni più tardi, gli di carcere sono riassunti nelle seguenti parole:

 

“…Io vado a Novara, Oreste va a Cuneo, quell’altro va a Favignana, quell’altro ancora da un’altra parte. Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel carcere di Palmi, inaugurato nell’autunno del ’79, carcere per soli politici o per detenuti comuni completamente politicizzati, una specie di “Kesh”. Là dentro c’era una situazione curiosa, anche molto spettacolare, perché si incontrano assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle BR o con Alunni o quelli dei NAP, si pensò anche di approfittare di questa situazione per avviare una discussione larga, di carattere “costituente”: però, il problema è che anche lì c’è il fatto che i più spregiudicati di loro, come Curcio, erano d’accordo, avevano capito di aver perso l’essenziale, cioè il cambio di paradigma del ’77, cioè il fatto che i giovani operai erano non più riconducibili a quelli del ’69; altri invece no. Comunque, c’era una disponibilità generale all’inizio. Però, loro erano in un periodo di pieno sviluppo di quella che chiamavano strategia dell’annientamento, insomma diciamo di massificazione della lotta armata, e naturalmente è un vincolo materiale troppo forte il tipo di tattica, di passaggio che stai attraversando per avere la snellezza mentale di affrontare una discussione così grande.

“Riassumendo in breve, la mia detenzione fu un anno dal ’79 all’80, poi due anni liberi in cui curai la serie continua di Metropoli nell’81, due anni ancora di carcere, condanna a 12 anni in primo grado, un anno di arresti domiciliari ... l’assoluzione (insieme a tanti altri imputati del 7 aprile) fu nell’87, la conferma nell’88”.

 

Dopo svariate docenze (si annovera un’esperienza nell’Università di Montreal), tuttora insegna filosofia del linguaggio all’Università di Roma Tre. 

 

 

 

Pensiero

 

Paolo Virno, convinto della necessità di un nuovo linguaggio della politica che chiarisca le trasformazioni economiche, sociali e culturali che da più di un decennio caratterizzano le società occidentali, introduce nell'opera Grammatica della moltitudine, una riflessione sul contrasto tra i termini di "popolo" e "moltitudine" che generarono un’accesa polemica teorico filosofica nel secolo XVII. Quando avvenne la formazione degli stati nazionali fu il termine popolo a prevalere e Virno si domanda se non sia venuto il tempo di restaurare l'altro concetto.

I primi a discutere sulla contrapposizione di popolo-moltitudine furono Spinoza e Hobbes. Per Spinoza, la "multitudo" è quell'insieme di persone che nell'azione politica e in quella economica, pur agendo collettivamente non perdono il senso della propria individualità, resistendo sempre alla riduzione a unica massa informe com'è nel termine di "popolo". Per Spinoza moltitudine è dunque la base delle libertà civili.

Al contrario Hobbes vede nel concetto di moltitudine, cioè in una pluralità che non si sintetizza nell'uno, il più grave pericolo per l'autorità dello Stato che esercita il «supremo imperio».          «Dopo i secoli del «popolo» e quindi dello Stato (Stato-nazione, Stato centralizzato ecc.), torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta, abrogata agli albori della modernità. La moltitudine come ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Forse.»

 

 

Il Ricordo del presente

 

“Sono tornato là

dove non ero mai stato.

Nulla da come non fu, è mutato”

G. Caproni   

 

 

Il saggio di Virno, Il ricordo del presente, si apre con i versi della poesia Ritorno di Giorgio Caproni che racchiudono nella loro poetica l’inquietante fenomeno del déjà vu.

Problematica cardine del libro è la fine della storia, e il rapporto tra teoria della memoria e folosofia della storia.  

Il déjà vu è un’inquietante patologia della memoria, in base alla quale ci sembra di rivivere sempre di nuovo qualche frammento del passato. La “fine della Storia” è l’idea, o lo stato d’animo, che caratterizza il senso comune postmoderno. Vi è un rapporto tra le due cose? “La fine della Storia” ha la sua radice nel fenomeno del déjà vu?

 Il professore Virno nella prima parte del libro, riprende Henri Bergson, e il suo saggio Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance (1908).

Il déjà vu, secondo Bergson, rivela in via eccezionale il modo ordinario in cui opera la nostra coscienza: mostra ciò che noi percepiamo la realtà, simultaneamente come presente e come passato.

La formazione del ricordo non è mai posteriore a quella della percezione ma, contemporanea a essa. Il fuggevole presente è sempre afferrato sotto due profili distinti e concomitanti”

Percezione e ricordo nascono per parto gemellare, e quel che chiamiamo ricordo non è altro che il presente stesso, visto sotto la specie del possibile, l'intromissione del condizionale in un hic et nunc retto dall'inesorabilità dell'indicativo. Le due esperienze simultanee, sono solo differenti in “natura” e non d’importanza: noi facciamo esperienza del presente come reale, compiuto, attraverso le nostre percezioni, ma, nello stesso istante, facciamo esperienza anche della “memoria” del presente (come, appunto, nel fenomeno del déjà vu), che consiste nel processo in atto di formazione della memoria, anziché nel sentimento di un evento già accaduto e che sembra ripetersi in maniera inquietante nel presente. Memoria e percezione sono dunque due funzioni coestensive del presente: è solo a causa del nostro bisogno di azione che spesso saltiamo la percezione della memoria-in-progress per dare spazio alle più utili e contingenti informazioni che ci consentono di muoverci e agire nella situazione presente. Il déjà vu emergerebbe allora in quei momenti in cui l’azione vacilla, e noi possiamo cedere la nostra attenzione alle fessure di una percezione temporale estesa.

Per Virno, il déjà vu nella sua modalità di falso riconoscimento del passato nel presente, o paramnesia, è una patologia che corrode la genesi stessa del tempo storico come possibilità di riproduzione della vita affrancata da una coazione a ripetere: è lo stesso virus, se vogliamo, che si è insinuato nella negatività delle teorie della Fine della Storia.

In realtà per Virno, così come per Bergson, l’anacronismo che riflette la nostra percezione del presente è solo formale e in quanto tale viene ad affermare la pura coesistenza e simultaneità della potenza e dell’atto, delle “generali facoltà” del linguaggio e dell’intelletto e della loro declinazione performativa attuale.

Se, al contrario, il déjà vu è interpretato come il richiamo di un fatto passato che sembra ripetersi irrimediabilmente, noi consideriamo il presente-possibile in un passato-reale.

L’inestricabile ambiguità del déjà vu, come processo attuale della memoria e sentimento fallace del passato, si ripartisce – e forse si riequilibra – nella polarità del performer e dello spettatore. Conferendo un valore di “fatto” al presente in corso (presente, beninteso, per noi; per i “performer” si tratta di un passato fittizio).

Quello che potesse essere, nella storia attuale, liquidato come irrealizzabile utopia, qui si dà come possibilità fattuale, soglia aperta di potenziale, attraverso la quale articolare la nostra voce e il nostro linguaggio – anche se si tratta solo di un atto di parola. Se una sintesi temporale delle anamorfosi in cui si declinano gli atti di parola è possibile, questa avviene nel segno e nel tempo linguistico del futuro anteriore: nel considerare un’esperienza prossima ventura come già trascorsa, si sottomette a quella valutazione che spetta ai fatti compiuti – e contemporaneamente si esercita un dubbio “metodico” nei confronti di quello che, ora, è spacciato come destino inevitabile o inclinazione “naturale”.

È come se, nel semplice atto di prendere la parola e di dar conto del presente, noi ci investiamo nel processo e nella responsabilità di comporlo come memoria, di introdurre in tal senso uno scarto, una “differenza”, di sospenderne l’uso corrente. L’atto di parola, di fronte a testimoni presenti o virtuali, è – nei termini di Virno – un diagramma logico-linguistico dell’azione innovativa, vale a dire della possibilità di interrompere il flusso dell’esperienza e di operare “quei mutamenti di direzione argomentativa e quegli spostamenti di significato che, nel macrocosmo della prassi umana, provocano la variazione di una forma di vita”.

 Proponendo un’interpretazione dei due termini in chiave temporale: potenza è non-ora, inattualità; atto è “adesso” , presenza. Su questa base, si chiede se il tempo storico non sia costituito precisamente dall’intreccio permanente di potenza e atto, non-ora e adesso, inattualità e presenza.

Nel rendere cronologia a questi due concetti ci permette di far sorgere un’evidenza, preoccupante se fosse a comprenderla in sfere differenti e in particolare a quella del lavoro: ciò che gli adepti di una fine della Storia giungono a metterla in opera, attraverso ciò che non è che l’effetto di una patologia della memoria, poiché è la negazione cui si sottintende la potenza.

L’inchiesta tracciata intorno al concetto di forza-lavoro prende una dimensione di particolare rilievo, da allora che il concetto dimostri fino a che punto il rifiuto di una storicità del tempo non è che l’utile che permette di fare l’economia di ciò che è portatore della sola potenza, bersaglio privilegiato della società capitalista, nel saper l’individuo intanto, come corpo vivente e produttore di forza-lavoro.   

Ciò che infine accade nell’ultima parte del libro, le tesi di carattere generale sono messe alla prova nel tentativo di chiarire lo statuto temporale del capitalismo.

Inevitabile, a questo punto, il confronto con la tesi di Heidegger, secondo la quale la storicità avrebbe la sua radice nella morte:

 

“Il passato scaturisce in certo modo sull’avvenire…La storia, in quanto modo di essere dell’Esserci, getta così profondamente le sue radici nel futuro che è proprio la morte, come possibilità caratteristica dell’Esserci, a rigettare l’esistenza anticipante verso il suo esser-stato effettivo”.



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