La filosofia di Luigi Pareyson

 

Relatore: Laureando:

Ch.mo Prof. Dario Sacchi Gianmario Lucini

Matr. nº 2262410

Anno Accademico 1996 - 97

 

 

Sommario

Introduzione - Le stelle di Pascal 4

Parte prima_ 11

La problematica dell’esistere e del conoscere nel pensiero diLuigi Pareyson 11

1. ______________________ Filosofia della verità e verità della filosofia. 12

1.1 ______________________ Per una ricognizione del pensiero di Pareyson 12

1.1.1______________________________ La presa di distanza dai "sistemi" 20

1.2 __________________________________ Pareyson scrittore di filosofia. 32

1.3______________________________________ Filosofia e ermeneutica ) 42

1.3.1________ L'interpretazione, l'interprete, l'interpretante: la semiosi illimitata 53

1.3.2____________________ Ermeneutica e dialettica: la crisi dello hegelismo_ 57

1.3.3________________________ Dialettica, esistenzialismo ed ermeneutica 63

1.3.4_____________________________________ Ermeneutica e linguaggio_ 69

1.3.5____________________________ Ermeneutica e filosofia della scienza 74

1.4_______________________________ Filosofia e Verità nel postmoderno_ 78

1.5________________________________________ Senso, essere e Verità 81

1.6_____________________________ Filosofia, immanenza e trascendenza 83

Parte seconda: pensare la libertà_ 86

1.________________________________ Ancora sull’unità della filosofia_ 87

2._______________________ La libertà come fondamento della filosofia_ 94

2.1____________________________ Libertà è coessenziale alla conoscenza 101

2.2___________ Filosofia e scienze nella costituzione del rapporto fra persone 106

2.3_________________________________ Libertà e ricerca del fondamento_ 119

3. La libertà come fondamento del rapporto con l’essere (la libertà come dono) e del rapporto sociale. 128

4.___________________________ La libertà come fondamento dell’etica_ 135

4.1_________________ Libertà, filosofia e scienze umane: un difficile rapporto_ 136

4.2___________________________________________ Il corpo e la libertà 138

5.__________________________________________ La libertà e il male_ 142

5.1_________________________________ Schelling e il problema del Nulla 149

5.4___________ Il dolore e la sofferenza degli innocenti. Dostoevskij e il male 153

5.5________________ Il problema della teodicea e la rinascita nell’espiazione 163

Parte terza_ 169

Tornare alla sapienza della filosofia_ 169

1________________________________________________ Il linguaggio. 171

2.____________________________________ Finito, infinito, fondamento_ 180

3.__________________________________________ Il Dio della filosofia_ 185

3.1________________________ Il Dio della filosofia e il senso del conoscere. 188

4.______________________ A-dialetticità dell’ermeneutica in Pareyson ) 203

5.__________________________ Ermeneutica, cultura e scienze umane ) 208

5.1_____________________________________ Le scienze dell’educazione 209

5.2___________________ Scienze umane e filosofia: l’intelligenza del possibile 215

5.3_____________________ Scienze umane e filosofia per il diritto di esistere 218

Conclusioni 224

Bibliografia_ 232

Note alla bibliografia di Luigi Pareyson_ 237

 

 

Introduzione

Le stelle di Pascal

Poiché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un niente rispetto all’infinito, un tutto rispetto al niente, un punto che sta in mezzo tra il tutto e il niente. Infinitamente lontano dal comprendere questi due estremi, la fine e il principio delle cose che gli sono invincibilmente celati in un segreto impenetrabile; ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito che lo inghiotte. ... Questa è la nostra reale condizione: quella che ci rende incapaci tanto di sapere con certezza quanto di ignorare in modo assoluto. Navighiamo in un’immensità, sempre incerti e fluttuanti, sospinti da un estremo all’altro. Ogni appiglio a cui pensiamo di attaccarci ci abbandona e, se lo seguiamo, si sottrae alle nostre mani, scivola via, fugge un’eterna fuga. Niente per noi è stabile, è la nostra condizione naturale, e tuttavia la più contraria alla nostra inclinazione; noi ardiamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e una definitiva base solida per costruirvi una torre che s’innalzi all’infinito, ma tutte le nostre fondamenta scricchiolano, e la terra si spalanca fin negli abissi.

(B. Pascal, Pensieri, 72)

Va verso Sud e gira verso Nord il vento.

Il vento, nel suo cammino, non fa che girare:

ritorna sempre sulle sue spire.

Tutti i fiumi scorrono verso il mare

e il mare non si empie mai;

sempre i fiumi tornano a fluire

verso il luogo dove vanno scorrendo.

Ogni discorso resta a mezzo,

ché l’uomo non riesce a concluderlo.

L’occhio non si sazia di ciò che vede,

né l’orecchio di ciò che ode.

Ciò che è stato è ciò che sarà

ciò che è stato fatto è ciò che si farà,

Niente di nuovo sotto il sole.

(Qohèlet, 1, 6-9)

 

 

La ricerca, nel campo delle scienze umane, ci testimonia con dati sempre nuovi quello che gli artisti ormai da oltre un secolo ormai esprimono nelle loro opere, ossia il senso di vuoto e di frammentazione che pervade la vitao spirito dell’uomo moderno, piegandolo a un oscuro male dello spirito. La, ma anche della mente, che la scienza stessa tuttavia non sa definire con precisione in cosa consista questo malessere. La ricerca psicologica trova nel disagio e nelle psicopatologie, in modo sempre più evidente, il segno di una incapacità relazionale; la medicina rileva sempre più frequenti sul corpo i segni di un disagio mentale e spirituale - in forma di malattie psicosomatiche, dal lieve mal di capo sino al tumore maligno; la sociologia insiste sulle diagnosi di frammentazione sociale e di pluricollocazione sociale dell’individuo incapace di ricondurre a sintesi l’immagine di se stesso e ribadisce il carattere "reversibile" delle sue scelte di "soggetto multiplo", collocato nella "provvisorietà" di un continuo movimento di valori, sempre "pendolare" fra gruppi e formazioni sociali differenti: l’ansia e l’irrequietezza sono d’altra parte espressioni del disagio che la stessa psicologia include fra le cosiddette "nevrosi" di cui un po’ tutti siamo vittime consapevoli. D’altra parte, chi studia i fenomeni di costume, mette in evidenza come, anche nelle sue stesse manifestazioni vitali e culturali, l’uomo sempre più tenda ad abbracciare lo schematismo e il ritualismo, quasi lasciandosi ispirare da un oscuro timore per la sua sicurezza che gli paralizza la mente e la libertà di giudizio, portandolo paradossalmente a dipendere sempre più dalle sue stesse invenzioni, da una parte sempre più potenti e dall’altra sempre più futili perché non contestualizzate in una visione unitaria di senso. La cultura poi sembra cedere sempre più il passo alla ricettività, alla passività, allo spettacolo, quasi non fosse più possibile il pensiero se non unito al divertimento, ad una certa "edonizzazione" e superficialità che viene mistificata nell’allettante termine di "leggerezza", in contrapposizione alla "pesantezza" della razionalità; basti pensare alla mistificazione nel campo dell’arte: oggi qualsiasi strimpellatore capace di quattro accordi su una pianola o una chitarra viene definito "artista" e tanto è più "artista" quanto più fa vendere dischi all’editore o quanto più è pagato per ogni esibizione; il valore delle opere d’arte pittoriche o scultoree viene stabilito in un certo importo per centimetro, al di là del messaggio che esprimono, poiché non è tanto il messaggio che viene preso in considerazione quanto l’immagine che il possesso di un’opera evoca nel compratore - l’arte infatti, èe anche un comune bene-rifugio per gli investimenti soprattutto in periodi di svalutazione e di instabilità dei mercati. La stessa filosofia sembra seguire questo modello, o rifugiandosi in soluzioni "deboli" che considerano non sostenibile un discorso filosofico "forte" per una società così complessa, o ritagliandosi una specializzazione disciplinare cone un confine ben determinato, senza osare uscirvi per affrontare un discorso sistematico sulla totalità che dia senso di continuità alla stessa ricerca particolare. Di conseguenza,, e così "filosofia" è un termine sempre meno usato, per lasciar spazio ai nomi delle sue diverse discipline particolari: la bioetica, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio, ecc. Il che sarebbe anche un bene, se queste discipline si "tenessero insieme", almeno all’interno della filosofia di un solo pensatore. Ma una simile filosofia, piegata sugli ònta e dimentica del dialogo con l’essere, sancisce e forse provoca la frammentazione spirituale dell’uomo. Senza un "pensiero forte", che molti ormai si sono rassegnati a delegare alla religione (alla teologia) o alla scienza, visto che in filosofia esso sembra insostenibile, l’uomo non si sente tranquillo, perché non trova risposte alle sue domande esistenziali, che sono poi quelle a cui la filosofia ha sempre cercato di rispondere. Da una parte infatti il progredire della razionalità e della conoscenza, merito dello straordinario sviluppo delle metodologie, delle capacità critiche e di indagine delle scienze, risolve molti dei problemi dell’uomo, ma nello stesso tempo sembra che sia proprio il progredire della conoscenza e della critica uno degli elementi che più inquietano il suo spirito, che più urtano contro il suo desiderio di stabilità e di fondamento. La storia infatti ci insegna che nulla può essere considerato stabile se non il fatto che tutto continuamente evolve (o talvolta si involve, a seconda dei punti di vista).

La filosofia, a parere di molti, si è ridotta a "Cenerentola" della cultura perché non ha mai indagato a fondo i problemi più profondi dell’uomo, la sua collocazione cosmica, il suo rapporto col mistero, la sua coscienza di se stesso e del suo destino, della morte. Di questi problemi sembra ora occuparsi in prevalenza la teologia. Ne consegue che se la filosofia non riesce a recuperare il suo ruolo, che è quello di trovare un pensiero forte nell’ambito della razionalità, la stessa fede ne perde in chiarezza, e corre il rischio di confusività e secolarizzazione; spunti in tal senso sembrano infatti emergere dalle riflessioni di alcuni studiosi di filosofia. Voglio subito chiarire che il termine "forte", da me usato in questo lavoro, non intende relazionarsi al concetto di "assoluto" così come Hegel e l’idealismo lo intendono. Questo lavoro intende invece sostenere l’ipotesi che, anche in assenza di un pensiero forte, nondimeno è possibile un pensiero sicuro di sé, non soltanto nel senso che dice Vattimo, ossia di essere convincente, ma nel senso di "pensiero che ha autorità", l’autorità che gli viene dalla critica razionale in una dialettica e una tensione fra gli opposti di tradizione e modernità, l’autorità che esso si conquista tramite la traduzione della tradizione. Pareyson chiama questa filosofia ermeneutica, la sua ermeneutica, diversa da quella di altri filosofi perché mette al centro l’uomo nel suo significato di apertura al mondo e al possibile, nel suo significato di simbolo di libertà. Un pensiero che si fondi su un’ermeneutica del possibile in quanto libertà esclude, a priori, qualsiasi riferimento ad un "assoluto" che possa essere, in qualche modo, com-preso dalla razionalità, ma nello stesso tempo trova, in questa possibilità-libertà, il fondamento di se stesso e, come vedremo, un radicamento in quell’assoluto senza tuttavia pervenirvi. In questo senso, non si può parlare qui né di pensiero debole né di pensiero forte, ma soltanto di pensiero in quanto possibilità, al di fuori di qualsiasi schema o gioco dei sistemi e dei contro-sistemi filosofici. Sul versante della scienza, la necessità di una filosofia forte è evidente se soltanto si considera lo stato del dialogo fra le scienze. Da più parti infatti, all’interno della comunità scientifica, si chiede a viva voce la costituzione di un nuovo "paradigma", per usare un’espressione di Kuhn, capace di comprendere le varie epistemologie in una sintesi unitaria. La non-possibilità sinora di trovare questa sintesi, determina un diffuso malessere e un clima di sfiducia fra gli studiosi, costretti spesso a lavorare l’uno contro l’altro per difendersi da attacchi reciproci magari più emotivi che critici: la scienza infatti, nella sua collocazione pratica, è anche una questione di potere, di cattedre, di scuole, di commesse delle imprese, ecc. Per semplificare in termini disincantati, difendere il proprio punto di vista diventa allora, spesso, anche difendere i propri affari o coloro per i quali si lavora. Problemi comunque che non toccherebbero i filosofi... Ho scritto che la filosofia ha perduto il pensiero forte, ma anche in questo secolo e anche per le ragioni che ho esposto sopra, essa ha comunque ripreso queste problematiche. Luigi Pareyson, l’autore di cui mi occuperò, ci ha lasciato delle ipotesi di indubbio interesse e forse non ancora sviluppate in tutte le loro implicazioni, senza peraltro che questo autore abbia mai avuto l’intenzione di costruire una filosofia "forte". Il primo elemento che lo caratterizza, come vedremo, è la sua concezione della filosofia, profondamente legata alla tradizione ma nello stesso tempo fortemente critica verso di essa, una filosofia capace di sostenere e dare coraggio all’esistenza dell’uomo, sospeso fra finito e infinito, come un funambolo in equilibrio fra due insondabili abissi, quello della storia e quello dell’oltre la storia. Non una filosofia divisa, perché l’uomo è totalità, non una filosofia "scientifica", perché l’uomo è anche racconto, non una filosofia basata solo sulla fede o solo sullo spirito, perché l’uomo è insieme corpo e spirito, materia e razionalità, sentimenti, emozioni, irrazionalità. Tutti questi aspetti devono trovare una giustificazione, un accoglimento, una comprensione nella filosofia, perché questa possa essere, come egli scrisse, "dell’uomo, sull’uomo e per l’uomo" [1]). Ma lasciamo che l’autore ci parli di se stesso e si presenti, per così dire, a noi per mezzo di un suo scritto:

"L’ambiente culturale in cui crebbi fu per forza di cose la maturità dell’idealismo crociano e gentiliano, come del resto è accaduto a tutti quelli della mia generazione, ch’è forse l’ultima ad essere cresciuta in quella temperie filosofica. La scuola alla quale mi formai fu il pensiero di Augusto Guzzo, ch’era una forma di idealismo parallela a quella di Croce e di Gentile, derivata non da essa, ma direttamente dal neoeghelismo napoletano [2]). I primi studi ai quali per affinità elettiva mi dedicai furono la filosofia dell’esistenza, specie di Jaspers e Marcel in principio, e poi soprattutto di Heidegger, e fu soprattutto da essa che trassi la mia prima ispirazione. Questa triplice lezione ricevuta nella mia formazione filosofica mi confortò a mettere al centro d’ogni mia preoccupazione speculativa il problema e il concetto di "persona". Son giunto così a una forma di "personalismo" che non ha niente in comune né con le varie forme del personalismo francese né con l’intimismo spiritualistico di origine idealistica e trascendentalistica, tantomeno attualistica" [3]).

Una filosofia siffatta è caratterizzata dal dinamismo delle sue varie discipline interne e da una coerenza che tenga insieme un tutto senza contraddizioni. Da questo punto di vista, più che una filosofia sistematica, si potrebbe parlare in Pareyson, almeno per gran parte della sua attività speculativa, di un orizzonte filosofico, come limite oltre il quale è intuibile un nuovo scenario nel quale immergersi con sicurezza argomentativa senza bisogno di rompere nessun ponte o lasciarsi qualche insepolto cadavere alle spalle. Un orizzonte che rappresenta anche una casa per l’uomo, nel senso in cui ne parlava Buber [4]), una casa paradossalmente senza mura e senza tetto, dalla quale egli possa interrogare il cavo del cielo senza provare l’angoscia di Pascal, o perlomeno sapendo che a quell’angoscia vi è una risposta, anche se forse non la si potrà mai trovare. É, di nuovo, la stessa possibilità di una risposta, e quindi la stessa possibilità del pensiero, che fonda il pensiero stesso, la sua volontà di libertà coincide col suo stesso statuto ontologico.

Partendo da una cornice storica, cercherò di far emergere, nella prima parte di questo scritto alcuni nodi centrali della concezione gnoseologica e della concezione pareysoniana dell’’"essere", che serviranno poi, nella seconda parte, per esporre un aspetto sicuramente più motivante in relazione alle intenzioni e alle considerazioni che sin qui ho esposto, ossia l’insieme di riflessioni che costituiscono la filosofia della libertà o, come la definisce l’autore, l’ontologia della libertà. Questo aspetto della filosofia di Pareyson è, a mio avviso, uno dei più profondi risultati della speculazione filosofica del nostro secolo (ma non solo), che sinora, per quello che mi è dato di conoscere, nessun filosofo ha mai trattato in maniera così lucida e penetrante. Nell’ultima opera del Pareyson, che raccoglie una serie di saggi, lezioni, considerazioni dedicate all’argomento, non vi è mai una caduta di tono e l’argomento, benché di una difficoltà non comune, cattura sempre il lettore, anche profano, scuotendolo con interrogativi, ipotesi, deduzioni, argomentazioni, sì che alla fine se ne esce un po' frastornati, scossi, col desiderio di starsene in pace e riflettere, senza peraltro che il pensiero riesca a fermarsi su qualcosa di definito, costretto com’è a vagare in una vastità di per sé insondabile, ma nello stesso tempo densa di significato e di senso. E questo, non perché la trattazione abbia i caratteri del linguaggio ermetico, ma perché l’argomento, pur fra i più dibattuti dall’illuminismo ai giorni nostri, è certo uno di quelli che più ha sofferto di una caduta semantica ed assiologica, sì che riconoscerlo nella sua autenticità ci procura sgomento, nostalgia, tristezza, ma anche un forte conato di rivolta verso il nostro orizzonte culturale così superficiale e mistificante. É un vasto affresco, talmente vasto che qui può essere visitato solo per frammenti pur tentando una sintesi esauriente, ma dove in ogni pezzo si intravede però la totalità. Queste le mie impressioni della lettura di questo autore, che vorrei poter ri-trasmettere in questo lavoro, così come io le ho percepite ma, appunto per i motivi che riporterò nel vivo delle argomentazioni filosofiche che andrò esponendo, questo è impossibile, anche perché la penna non è all’altezza della complessità di questo mare magnum che solo i filosofi di razza sanno navigare.

La terza parte di questa trattazione è un tentativo di elaborazione di alcuni temi che ritengo di particolare interesse per un laureando in scienze della formazione. In questa elaborazione tenterò di attingere ad alcuni aspetti della filosofia di Pareyson per inquadrare particolari problematiche di carattere attuale dalle quali ritengo non sia possibile prescindere, se si intende svolgere seriamente la professione di formatore. Un’ultima breve conclusione sarà dedicata ad una riflessione complessiva ed un bilancio finale dello studio svolto.

Un aspetto che però voglio anticipare sin d’ora e che in diverso punti di questo scritto viene anche esplicitato, è la convinzione che sia possibile un atteggiamento diverso di vivere il mondo rispetto al principe Qohèlet, nella convinzione che è anche un bene il fatto che "ogni discorso resta a mezzo / ché l’uomo non riesce a concluderlo". Il senso sta nel considerare questa inconclusione la conclusione stessa e un bene per l’uomo se egli, attingendo alla filosofia ma soprattutto alla sapienza del mito, riesce a comprendere che l’unica sua stabilità, quella su cui può fare affidamento come sua condizione e casa del suo esistere e del suo pensare, è, appunto, l’instabilità che ci viene assieme alla libertà, e che ci richiede una responsabilità e talvolta anche un po’ di coraggio. Non è infatti dalla stabilità che nasce un movimento verso l’essere o verso Dio e neppure verso un superamento della tradizione, ma dalla serena consapevolezza di questa instabilità. Riuscire ad accettare in ogni istante questa realtà, ci aiuta a guardare le stelle senza angoscia, considerando la cupola del cielo come la nostra grande casa [5]).

 

 

Parte prima

La problematica dell’esistere e del conoscere nel pensiero di

Luigi Pareyson

Maestra di enigmi

Affermate che basta una parola

E quella sola che nessuno ha

Lei che trasvola via dalla memoria

Lucciola albale e falena

E nera spina di pena

Brùscolo a un occhio di storia -

Venisse al mio parlare

Éffeta e poi per sempre bocca muta

Al vostro servo stretto

Frugando sul sentiero

Dove non scende lume di pietà -

Se la felicità sia il nostro vero

O il nostro vero la felicità

(G. Giudici, da Salutz, 1986)

 

 

1. Filosofia della verità e verità della filosofia.

1.1 Per una ricognizione del pensiero di Pareyson

L'obiettivo di questa parte introduttiva è quello di illustrare alcuni importanti aspetti della filosofia di Luigi Pareyson, tenendo come riferimento centrale le sue riflessioni sulla gnoseologia. Questo autore infatti suscita sempre più interesse fra gli studiosi contemporanei per alcuni suoi importanti contributi che, come cercherò di dimostrare anche in questo lavoro, rappresentano un’interessante alternativa alla speculazione "post-metafisica" del nostro secolo. Pareyson ha costruito con una speculazione limpida e coerente, una "terza via" alla concezione dell’essere e della sua verità, partendo dalla riflessione dei filosofi della dissoluzione del pensiero hegeliano, in particolare il secondo Fichte, Kierkegaard e, soprattutto, l’ultimo Schelling [6]).

Innanzitutto, credo sia doveroso pormi una domanda: è possibile postulare una filosofia divisa in parti? Ovvero, come posso riflettere sulla teoria della conoscenza, senza contestualizzare tale riflessione all'interno di un più completo quadro teorico? Come posso porre il problema della "verità" prima di quello dell’essere, del mondo? Infatti, come sostiene Heidegger in una sua opera, il primo problema che storicamente la filosofia si è trovata ad affrontare non è il problema gnoseologico, ma quello metafisico, quello dell'essere [7]). Ciò corrisponde ad una dinamica naturale dell'intelligenza, che per prima cosa nell'atto speculativo si chiede il senso dell'esperienza, quindi il perché l'essere sia, che senso abbia e a quale scopo tenda il suo esserci.

I primi pensatori si rivolgono direttamente (o indirettamente) alla realtà sperimentabile con i sensi, o alla realtà in sé presa nel suo insieme, nel suo complesso, non parcellizzata come poi sarà, dopo Aristotele, nelle diverse branche della scienza. Cercano dunque, questi pensatori, di trovare intelligibilità nell'intero, senza specializzarsi in un sapere particolare. La filosofia si è quindi interrogata prima sulla natura, sull’essenza e solo dopo sull'uomo, in particolare con il movimento dei Sofisti, [8]) e con Socrate [9]). Interrogarsi sull'uomo significa dunque interrogarsi sul soggetto conoscente. L'oggetto della gnoseologia è quindi lo stesso soggetto, in una sorta di processo di interazione fra un soggetto agente e un oggetto in sé. L'attenzione verso il soggetto è un'azione riflettente, una riflessione.

É quindi ovvio, dicevo, che si inizi la ricerca filosofica dalla natura. L'intelligenza dell'uomo infatti è naturalmente estrovertita. A differenza degli organi di senso l'intelligenza può indagare se stessa (autocoscienza), raggiungendo la consapevolezza della coscienza di sé medesima, che è posteriore alla conoscenza di sé medesima come oggetto. Vale a dire che la coscienza di sé è soltanto una coscienza in seconda battuta: infatti, al momento della riflessione l’oggetto del pensiero, la coscienza, è ormai storicizzato e superato dall’atto del riflettere che è diacronico ed evolutivo. Soltanto una coscienza che potesse prescindere dalle categorie di spazio e di tempo potrebbe forse rappresentare se stessa nello stesso istante diviene consapevole di sédel suo rappresentarsi. L'esistenzialismo del '900 ha molto puntato su questo aspetto (Heidegger: l'uomo si coglie come gettato nel mondo [10]), le pressioni che subisce sono così forti che deve ritornare in se stesso superando questa sua alienazione). E nell'antichità, lo stesso S. Agostino, col "rede in te ipsum" [11]), riconferma l'atteggiamento fondamentale della filosofia, che consiste nel recupero della propria soggettività dallo smarrimento del mondo. Dunque, l'Io è letteralmente scagliato nel mondo ed ha a disposizione la capacità riflessiva per cogliersi come tale e non disperdersi [12]). Ma, se l’Io è scagliato nel mondo, significa, per Heidegger, che non si è "auto-costituito", che da qualche parte viene e da qualche parte è diretto, se si vuole usare una metafora spaziale. E questo implica che vi sia un donde e un dove che non fanno parte della nostra esperienza sensoriale, ma che interessano la nostra esistenza, che da un donde proverrebbe e a un dove sarebbe diretta. É questo una delle numerose dicotomizzazioni della filosofia occidentale che, nei secoli a noi più vicini, ha assunto numerosi modi di manifestarsi, e corrisponde a due posizioni contrapposte rispetto alla trascendenza: per alcuni l’esperienza dell’uomo si risolverebbe in toto con l’esistere, per altri invece parteciperebbe di una realtà che trascende la sua vita e la storia stessa. Di conseguenza, cambia tutto il ragionamento filosofico che, nell’una e nell’altra prospettiva, viene prodotto in merito al concetto di verità, che noi abbiamo assunto a filo conduttore del nostro studio sul pensiero di Pareyson. Pensiamo ad esempio al pragmatismo (o strumentalismo) di James e Dewey: la verità sta nell’utilità, nella "praticabilità vitale" di una proposizione. Di conseguenza viene sì superato il problema dell’essere (perché, in definitiva, è esterno a questa concezione filosofica), ma certamente si pongono problemi ancor più gravi rispetto all’etica (chi decide infatti in che cosa consista una certa "utilità" o cosa significhi realmente l’espressione "praticabilità vitale"?).

Per il positivismo invece l’essere e la verità stanno "al di qua" della trascendenza, ossia nella storia, in un "mondo vero", come lo chiama Nietzsche, che esaurisce nella sua immanenza di spazio e di tempo, qualsiasi domanda che la razionalità dell’uomo pone al mondo, a patto che questa razionalità stia al gioco delle cose, cioè consideri "essere" solo ciò di cui i sensi possono rendere conto. Una filosofia siffatta non riesce però a rispondere ad una sola delle domande esistenziali che l’essere umano si pone, domande che egli non cerca ma che trova e con le quali si scontra talvolta, pagando un alto prezzo in sofferenza mentale. Il positivismo infatti si è dimenticato che l’uomo è fatto anche di emozioni, di sentimenti, di fantasia, di razionalità unita all’intuizione oltre che di ragione ancorata al fenomeno.

Queste filosofie, d’altra parte, come la stessa filosofia esistenzialista, nascono da una reazione alla filosofia classica che poneva l’essere come "Gegenstand", come qualcosa che sta di fronte al pensiero come oggetto. Pensiamo all’essere parmenideo, che "rimanendo identico nell’identico stato, sta in se stesso / e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge", ed è addirittura descritto come "ben rotonda sfera" [13]). In Platone, ancora, l’essere è sempre visto come un "Gegenstand", ma così anche in Aristotele e in tutti i pensatori fino ad Heidegger. Il quale nella sua opera più importante, rimasta peraltro incompiuta, rileva per primo questa contraddizione della filosofia occidentale, che considerando l’essere come contrapposto al pensiero, di fatto lo riduceva ad ente, condannando per di più l’uomo ad essere estraneo a questo essere o ente, appunto perché gegen, contrapposto. Ma i motivi forse che più spinsero lo sviluppo del pensiero esistenzialista, sono forse motivi psicologici ed etici correlati alla preoccupazione per alcuni particolari processi culturali nel corso dei primi decenni del nostro secolo. Agli esistenzialisti infatti non sfuggiva che lo sviluppo della tecnica e delle scienze di fatto finiva per ridurre l’essere, anche in filosofia, a tutto ciò che può essere misurato, calcolato, definito. Questo processo irrimediabilmente riduceva i margini di libertà, non solo della vita dell’uomo, ma dello stesso pensiero e quindi del suo progresso al di là del suo sviluppo materiale. In tutti i momenti in cui la libertà è in pericolo, la filosofia pone il problema dell’essere, perché l’essere, come vedremo, coincide con la libertà, oltre che con la verità. Va dato quindi merito alla filosofia esistenzialista anche di questo importante contributo culturale. D’altra parte, la stessa negazione dell’essere operata dalla tecnica e dallo scientismo sganciati da ogni riferimento alla vita spirituale dell’uomo, può essere vista come il tentativo, pur contraddittorio, di affermare la libertà dell’uomo attraverso un cedimento al nulla (il valore antinomico dell’essere), e lo stesso nihilismo che caratterizza la seconda metà del secolo scorso e i primi decenni di questo secolo ne è la giustificazione teoretica più elaborata. Dirà più tardi Sartre, in L’essere e il nulla, che l’opposizione essere-coscienza, questa incapacità della coscienza di possedersi, produce il "per sé", un "agente di nullificazione del mondo": attraverso la coscienza entra quindi nell’essere il nulla, riducendo l’uomo a un "progetto fallito di diventare Dio". E prima ancora lo stesso Nietzsche, attraverso una lucida e spietata analisi della cultura del suo tempo, non propone mai il nulla, il nihilismo, ma lo trova come costante in ogni approdo della speculazione: l’attività del pensiero infatti riesce a distruggere qualsiasi carattere "definitivo" trovato nella storia, dalla morale alla verità a Dio stesso. L’uomo non ha più un luogo di sicurezza al quale appigliarsi e il frutto più vistoso della sua volontà di potenza, la teorizzazione della morte di Dio, lo getta nello scompiglio e cambia tutto il senso della sua esistenza. Le regole su cui si basa la civiltà e la convivenza, di colpo acquistano un significato sinistro e nientificante, null’altro che un insieme di finzioni e di imposture la cui devastante evidenza lo annichilisce, come si legge nelle memorabili pagine della Genealogia della morale, il primo testo che ha scosso la dormiente filosofia del secolo scorso ed ha preparato l’avvento delle filosofie del nostro secolo. Ma il giogo di questa sua scoperta è ben più greve del giogo imposto dall’antico riconoscimento del suo stato creaturale e del dogma teologico. Senza Dio, il mondo non ha più fine, ed è condannato all’apeiron, o all’eterno ritorno, o all’amor fati come unico espediente di sopravvivenza intellettuale o, se vogliamo, di salvezza, tant’è che le filosofie che teorizzano la reincarnazione hanno avuto un certo successo nella cultura occidentale negli ultimi decenni di questo secolo. L’uomo nuovo dello Zarathustra ha il compito di sostituire con la propria volontà i vecchi doveri e creare dei nuovi valori, dopo che i millenni sono miseramente crollati su loro stessi, nuovi valori legati alla terra, al dionisiaco, all’orgoglio della vitalità. Ma qui troviamo che Nietzsche, dopo questa lucida analisi, improvvisamente cala di tono. Non mi pare infatti di intravedere nello Zarathustra qualcosa che esca dagli schemi dei vecchi millenni che Nietzsche ha impietosamente messo a nudo nella sua analisi, o almeno, il nuovo senso che egli intende proporre a me come lettore non corrisponde al senso che io sto cercando con la lettura del nostro Pareyson. Ma di questo non possiamo qui trattare, per non sconfinare nel mare magnum della filosofia di questo grandissimo e inquieto pensatore che è Nietzsche.

Per lo stesso Heidegger, se l’esistenza deve essere pensata come essere, è impossibile che l’essere possa essere pensato come struttura stabile, parmenidea. L’essere infatti si dà nel tempo: l’essere è tempo, accade, in un progetto entro cui le cose vengono all’essere o come scienza-oggettività o in altri modi (valori, fini, affetti, ecc.). L’essere quindi non può essere pensato come "Gegenstand" ma come orizzonte che non può avere i caratteri della struttura eterna. Con l’essere quindi si può avere un rapporto analogo al rapporto che abbiamo col linguaggio: parlare una lingua significa infatti anche "essere parlati", perché la lingua in un certo senso ci condiziona, essendo stata elaborata prima della nostra comparsa nel tempo.

I problemi aperti da Sartre ed Heidegger in parte trovano una risposta in Pareyson. Egli propone un’uscita dall’aporia dell’essere mediante la religione, ma non la religione dei teologi, perché il dogmatismo del credo religioso non può essere la base di una filosofia che per costruirsi deve per forza di logica attingere all’argomentazione razionale. Egli affronta il problema dell’essere e della sua verità sviluppando appunto quel concetto di libertà che anche gli altri esistenzialisti, e dopo di loro anche i pensatori della corrente ermeneutica, ponevano come argomento di punta contro le pretese riduzioniste del positivismo. Propone allora, come vedremo, un recupero delle mitologie e delle religioni intese come narrazioni del modo di accadere dell’essere nella storia, di come la storia quindi non sia estranea all’essere ma partecipi (sia in rapporto) all’essere. Solo per mezzo della narrazione (o "metanarrazione", come direbbe Lyotard) l’essere appare nella storia ed è storicamente apparso, ed è quindi indagabile dalla razionalità con fondamento di argomentazione. Di qui la filosofia dell’ultimo Pareyson, vista soprattutto come "ermeneutica dell’esperienza religiosa", ossia interpretazione di quello che rappresenta il sacro nella vita dell’uomo. L’evocazione del nulla in Pareyson, non è come in Sartre per il quale il nulla, evocato dal "per sé", nullifica l’esperienza. Non è neppure come in Heidegger, che risolve il problema in termini ambigui, con il concetto di "nascondimento dell’essere" (per cui la verità consisterebbe nello "svelamento" dell’essere, in un "lasciare che le cose vengano all’essere" o "lasciare che l’essere sia"). Certo, l’ombra del nulla è nell’essere, anche nel tratto della lotta e della sofferenza dell’essere. Ma tale ombra non è che l’evocazione del nulla messa in atto dalla libertà dell’uomo: in sé non esiste come possibilità nell’essere, è già vinta e non ha più alcuna possibilità di realizzazione. Sta il fatto che la problematica sollevata da Heidegger e dai pensatori esistenzialisti, benché si possa definire "metafisica", in realtà è antimetafisica, se consideriamo con questo termine la disciplina da Parmenide e Platone in poi. Tale problematica non può essere ignorata da qualsiasi indagine filosofica in qualsiasi campo, dalla filosofia del linguaggio all’etica, all’estetica e, appunto, alla teoria della conoscenza di cui ci occupiamo.

Non ha senso quindi considerare dapprima la gnoseologia e poi la metafisica, ma anche la filosofia pratica o la filosofia della religione, ecc., e soprattutto considerarle in separata sede, quasi fossero filosofie diverse perché il pensiero dell'uomo non è solo metafisico o etico o teoretico, ma è tutto questo insieme nell'atto del pensare, anche se possiamo rinvenire in questo pensare un particolare accento piuttosto che un altro. Molti invece affermano che il pensiero razionale metafisico non sia neppure possibile, e questo specialmente dopo Kant [14]). Ma il fatto innegabile è che la metafisica sia connaturata con il pensiero dell'uomo: l'uomo non può ignorare la metafisica; più che la gnoseologia bisognerebbe qui considerare l'ontologia dell'uomo [15]). Hegel dice che anteporre la gnoseologia alla metafisica, o peggio, escludere questa seconda, equivale a voler imparare a nuotare seguendo un manuale senza mai immergersi nell'acqua [16]). L'uomo quindi per prima cosa ha a che fare con la realtà, e sulla realtà costruisce delle teorie basandosi sull'esperienza, teorie giuste o sbagliate, opinioni istintive, intuitive o solidamente giustificate da un pensiero razionale. L'uomo della strada quindi è più metafisico o filosofo di quanto non si creda [17]). La differenza fra il filosofo e l'uomo della strada, sta solo nel modo di filosofare, intuitivo, magari creativo e brillante nel primo, ma anche rigoroso e sistematico nel secondo. La filosofia quindi è un fatto, per così dire trovato, della vita [18]), non una costruzione del pensiero, e l'aver chiarito questo fino alle sue più profonde conseguenze è merito speciale dell'esistenzialismo, ma anche di tutti coloro che hanno filosofato con coerenza, in qualsiasi "corrente" li si voglia collocare [19]). Per Pareyson tuttavia, che aderisce ad alcune tesi dell’esistenzialismo, dobbiamo fare una distinzione: vi sono infatti almeno due tipi di esistenzialismo "quello che assolutizza l’uomo d’oggi facendone la filosofia e quello che interpreta l’uomo d’oggi in base alla situazione stessa dell’uomo in sé, quello che eternizza l’uomo d’oggi e quello che storicizza in termini attuali l’uomo in sé; quello che conclude un’età segnandone la crisi, e quello che teorizza il motivo eterno d’ogni crisi" [20]). Egli dunque rifiuta quella formulazione dell’esistenzialismo che si colloca quindi, rispetto all’uomo, come teorizzazione del supplizio di Tantalo o del mito di Sisifo, in una sorta di visione dell’uomo eroica e ciclopica quanto disperante [21]). Il superamento di questa condanna ad esistere si trova invece, per Pareyson, nell’adesione a un esistenzialismo cristiano, basato però su un cristianesimo autentico, non quello secolarizzato che è stato anche bersaglio delle acute critiche di Nietzsche. Infatti, "l’esistenzialismo cristiano è quello che pone l’alternativa: fine o ritrovamento del cristianesimo. Per l’esistenzialismo anticristiano l’alternativa è diversa: fine o conservazione del cristianesimo secolarizzato. Infatti l’esistenzialismo anticristiano non è se non l’antitesi del cristianesimo secolarizzato, mentre l’esistenzialismo cristiano si pone al di là dell’uno e dell’altro" [22]), evitando una conclusione materialistica e la sartriana disperazione di una dialettica storica che l’uomo non è in grado di controllare. Da qui la posizione disperata di questo esistenzialismo che, negando la trascendenza, si nega però anche la possibilità di una salvezza o perlomeno una possibilità di felicità nella storia, giungendo all’accettazione dell’alienazione dell’uomo come datità.

1.1.1 La presa di distanza dai "sistemi"

Se consideriamo la filosofia, per così dire "accademica", verifichiamo che un qualsiasi manuale di storia della filosofia ci presenta il pensiero dei diversi filosofi in maniera molto asciutta ma anche molto sistematica. In genere partendo da un "fondamento", una concezione originaria che diventa poi centrale in tutta la riflessione, il filosofo "costruisce" la sua teoria, quasi deducendola da questo unico principio, in genere metafisico. E già qui possiamo trovare la prima posizione originale che il Pareyson assume fin dalle sue prime opere. Non vi troviamo infatti un pensiero che possa essere il fondamento di un sistema filosofico costruito, per così dire, "a tavolino". Leggendo Pareyson non troviamo una riga o un concetto che non presupponga l'essere umano come attore che lo possa incarnare, dando vita, con la sua vita, al suo pensiero che non ha quindi ragione di essere senza una scelta, una decisione precedente e conseguente. La metafisica in Pareyson viene integrata nell'ontologia della libertà [23]), perché "essere e libertà sono i due poli dell'operosità dall'uomo" [24]). Questa posizione si evolve nell’arco di un quarantennio, dalle sue prime opere sino alla morte. Scrive, nell’ultima edizione di Esistenza e persona:

"... Questo tipo di metafisica [si riferisce alla metafisica ontica] è nel libro [allude qui alla prima edizione di "Esistenza e persona", del 1950] dichiaratamente ripudiato, a favore d'una ontologia consapevole non soltanto della portata finita del proprio sguardo e del carattere finito delle proprie operazioni, ma anche garantita dal rischio della discrepanza fra il dire e il fare e il pericolo della mistificazione, nel senso ch'essa intende presentarsi come discorso dell'uomo sull'uomo per l'uomo, sì che un eventuale discorso sull'essere o sull'assoluto non può essere che indiretto, cioè discorso sull'uomo come rapporto con l'essere o come coscienza dell'assoluto" [25]).

La posizione pareysoniana quindi parte dall'heideggeriano "essere gettato nel mondo" (pur in un senso sereno e non tragico come in Heidegger) e non da una metafisica dell'ente, carica di formule astratte e incomprensibili a un ek-sistere in un mondo che si rivela straniero alla propria essenza. Compito della filosofia è dunque quello di conciliarsi con questo mondo, e quindi di essere "discorso dell'uomo sull'uomo per l'uomo" e via maestra al conseguimento di un senso a questo ek-sistere [26]). Il personalismo ontologico consiste dunque, in senso teoretico, in una posizione metafisica realista della trascendenza di carattere spiritualistico [27]), nella quale si attinge alla metodologia husserliana da un lato [28]), all'antropologia ebraico cristiana [29]), all'esistenzialismo e, come vedremo, all'ermeneutica contemporanea [30]) per altri aspetti. Si tratta però di un orizzonte che non si identifica con nessuna di queste particolari correnti filosofiche, ma chiede al lettore di essere considerato soltanto per la sua coerenza, ossia per il vigore della sua argomentazione filosofica il cui punto di forza viene riposto nel concetto di verità, insieme considerato come legittimante di ogni speculazione filosofica, punto di contatto con altrettante coerenti filosofie che ogni pensatore coevo possa sostenere, luogo di origine (e di tensione a) del pensiero autentico [31]). Si tratta dunque di una concezione della filosofia tendente a una particolare razionalità che però non si accontenta semplicemente di esprimere sé stessa alle altre filosofie, ma sollecita anche un confronto con esse, pur su basi talvolta duramente critiche [32]) (e comunque mai rifuggendo da argomentazioni solide a sostegno delle proprie posizioni). Per questo anch’io, nell’intento di conservare questo spirito dialogico della filosofia di Pareyson, cercherò di metterla in colloquio, per così dire, con il "donde" del suo pensiero e con alcuni riferimenti coevi, specie nelle note, per non appesantire troppo l’esposizione, cercando di interpretare, per quanto mi è possibile, i diversi significati che di volta in volta incontrerò nella lettura dell’autore.

Il concetto di verità (concetto teoretico per eccellenza) viene posto dal nostro filosofo come territorio di confine nel quale possa avvenire questo scambio di senso e viene fondato sulla trascendenza [33]). Viene altresì posto immediatamente in relazione al polo opposto a quello della trascendenza, ossia l’immanenza nella storia, con la lapidaria tesi che "della verità non c’è che interpretazione e non c’è interpretazione che della verità" [34]). Il problema teoretico fondamentale quindi è, in Pareyson, giustificare il nesso e nello stesso tempo la distinzione fra storia e meta-storia, fra verità relativa e verità assoluta, fra finito e infinito, fra immanenza e trascendenza. In questo modo egli lentamente costruisce un suo sistema filosofico (dove è spesso più significativo il metodo di ricerca che non le definizioni teoretiche), che pian piano evolve con coerenza nel tempo e si rivela come tale soltanto dopo una lettura globale, o almeno antologica, delle sue opere, dopo una riflessione sui concetti che egli propone in questo ambiente di confronto-scontro che è il territorio della coerenza alla verità, il luogo stesso della filosofia come essenza. E tale sistema, come qualsiasi concetto pareysoniano, sembra però scaturire da un'unica intuizione fondamentale, che non possiamo attribuire, come dicevo prima, ad un principio metafisico, ma ad una decisione alla quale tutto il suo essere filosofo aderisce, che cioè sia necessario tornare alla filosofia, quella vera (poiché la filosofia moderna ha deviato dalla sua essenza più genuina), agendo filosoficamente (e quindi eticamente), per fare in modo che la filosofia ritrovi se stessa. [35]). La concezione esistenzialista intende questa decisione come "rapporto" con l’essere, posizione questa che si differenzia da quella spiritualista, che tende a negare il rapporto dell’uomo con l’essere per sottolineare gli aspetti di necessità, dipendenza, creaturalità, non considerando la storia come luogo del manifestarsi dell’essere. L’esistenzialismo di Pareyson si differenzia però anche dalla concezione laica dell’esistenzialismo, nei suoi esiti umanistico-materialistici perché tale concezione non esce dalla problematica posta dallo hegelismo, ripetendone i dilemmi.

Ovviamente, alla base di questa decisione, vi è una precisa concezione della trascendenza che fa riferimento alla spiritualità cristiana, che però il filosofo cerca di non esibire come conditio sine qua non per poter accedere al suo pensiero, appunto per cercare un terreno di confronto razionale anche con altre Weltanschauungen, nell’intento di sganciare la metodologia della riflessione filosofica da tentazioni ideologiche. Il problema principe, in forza a queste intenzioni, diventa allora quello di trovare un terreno comune e pur personale dove trascendenza e immanenza della verità possano coesistere senza necessariamente cadere nel carcere rigido del dogma o nell’impotenza deldel relativismo o dello scetticismo [36]).

Questa decisione è logicamente riconducibile alle diverse matrici del suo pensiero che abbiamo sopra esposto, e che egli teorizza nel concetto di personalismo ontologico o esistenzialismo personalistico.

Il personalismo ontologico sostenuto in questo libro si riconduceva a quello che mi sembrava il centro ispiratore dell'esistenzialismo, il principio di coincidenza di relazione con sé e relazione con altro, sì ch'esso è stato per un verso uno svolgimento di tutte le potenzialità personalistiche dell'esistenzialismo e per l'altro una quantificazione rigorosamente esistenzialistica del personalismo [37]).

Da questa posizione egli inizia la sua lotta, continuata con costanza per tutta la vita, contro quella filosofia che vuole (consciamente o no) distruggere se stessa e togliere all'uomo la speranza di raggiungere traguardi di senso e che, benché rivestita di una superficiale patina di razionalità e coerenza argomentativa, si risolve in scetticismo che nulla di sostanziale produce. La filosofia che Pareyson accusa di aver tradito il suo mandato è il "pensiero storicizzato", che non ha nulla da dire al di fuori del suo tempo storico [38]). E' quel pensiero che non esprime la verità ma solo la storia, il cui tentativo è proprio quello di ridurre la filosofia alla storia. In esso

"rivelazione ed espressione si separano definitivamente: senza verità l'aspetto rivelativo della parola è puramente apparente, e si riduce a una razionalità vuota e priva di contenuto; non più riferita alla persona nella sua apertura rivelativa, ma alla situazione nella sua mera temporalità, l'espressione diventa inconsapevole e occulta [39]). La natura della parola degenera e si sfalda" [40]). E "... la teoria e la discussione speculativa sarebbero cose d'altri tempi, e il giorno d'oggi ignorerebbe ogni altro dibattito che quello pratico, politico o religioso che sia; donde la presenza sempre più frequente di filosofi per così dire scissi in due, per metà culturisti [41]) e per metà ideologi" [42]). Accade così che "... il divorzio fra la rivelazione della verità e l'espressione della persona, produce uno sfasamento fra il discorso esplicito e l'espressione profonda: la parola dice una cosa, ma ne significa un'altra [43]). ... Ciò implica ... l'identificazione del pensiero con la situazione. Il pensiero è in tal modo completamente storicizzato. ... S'apre la via al culturismo [44]), che fa rientrare il pensiero in una generica storia della cultura, intesa a metterne in luce solo l'aspetto espressivo, senza pregiudizio del suo eventuale valore speculativo; al biografismo, che riduce il pensiero a un'espressione incomunicabile della situazione in cui ognuno sarebbe inesorabilmente murato...; allo storicismo ..., che riduce tutto il pensiero a semplice esposizione della situazione storica, negandogli la possibilità di uscire dal tempo" [45]) [46]).

Un pensiero insomma che corrisponde a una lettura illuministica della storia, già criticata da Gadamer in Warheit und Methode [47]). La filosofia sembra dunque aver rinunciato al suo compito, lasciando campo ad altre forme di cultura: la scienza in primis, [48]) ma poi la religione e la politica. La cosiddetta filosofia è impegnata solo nella sua distruzione, sulle orme dello storicismo, accontentandosi di un ruolo ancillare ed espressivo al servizio della storia, ripiegata su se stessa, svuotata, avendo esorcizzato la ricerca della verità dai suoi fini. La filosofia così concepita si tramuta in ideologia [49]) e serve talvolta da falsa giustificazione teorica ad intenzioni più o meno mascherate che riguardano l'agire pratico, soprattutto in politica. "Con ciò il pensiero storico manifesta la sua inevitabile destinazione pragmatica e strumentale" [50]). Qui verrebbe la tentazione di inoltrarci in una motivata considerazione del valore profetico di queste parole scritte nel 1965 [51])71, soprattutto guardando all’odierna politica nostrana e constatando come, trasversalmente ormai a tutti gli schieramenti che fanno riferimento alle diverse ideologie, questa destinazione pragmatica e strumentale della filosofia sia ormai un dato di fatto, specialmente della filosofia dei valori: qualsiasi valore ormai è sullo stesso piano, dal momento che, come tale, viene definito dai mass media, e la sua posizione gerarchica, in assenza di un’etica che riporti il relativo all’assoluto, non è decisa tanto da una ricerca critica ma semplicemente da una sua "risonanza" maggiore o minore, sponsorizzata dagli interessi di chi possiede e controlla i media, interesse che pur tuttavia sottostà ad una mediazione di nostre scelte, pratiche e quindi etiche, in una spirale nella quale ogni causa è sempre effetto di un suo precedente effetto e causa dello stesso. Destino paradossale della nostra cultura che, dopo essersi emancipata dalla teologia, non fa altro che riproporre in maniera assoluta (in una forma teologico-metafisica) dei frammenti di una totalità, liberandosene non appena tali frammenti non corrispondono più alle attese, quando non sono più rispondenti alle fantasie di onnipotenza dell’uomo. É l’atteggiamento di "menticidio" come lo definisce che Aldo Masullo, un’ definisce "estasi della contingenza", ossia l’ebbrezza dell’attimo presente sradicato dal passato e senza futuro [52]) e che richiama un poco la confusione del primitivo davanti alle perline o agli specchi. Atteggiamento non sconosciuto proprio a noi, esseri più "civilizzati" che ci meravigliamo e non riusciamo a capire come il primitivo possa adorare l’effigie di pietra o l’albero o il totem: ma almeno questi idoli "rimandano" a un qualcosa di superiore, mentre noi neppure riconosciamo questa ulteriorità ai nostri idoli quotidiani. Il che è decisamente paradossale. Accade così che un valore relativo (un mezzo), come il danaro o il benessere diventi lui il valore assoluto, ricacciando i valori metastorici nella sfera della relatività, anche se nessuno si sognerebbe oggi di teorizzare un’etica che veda al sommo della sua scala gerarchica la coppia di valori che realmente vi sta, ossia la coppia danaro/potere. Qui sta la scissione della filosofia, incapace di dare significato di certezza alla sua riflessione e di costruirsi la verità di sé come oggetto della sua riflessione, per definirsi e definendosi interpretare i fatti [53]). E non di rado questa filosofia finisce ingloriosamente a ridursi a semplice argomentazione razionalizzante dello status quo, una difesa aprioristica della nostra epoca e dei suoi evidenti limiti ed errori. Il non percepirsi non corrisponde perciò al non-esserci, ma corrisponde piuttosto a un limite (questo sì, ideologico), che nel suo non-senso ha il significato teoretico del nulla, significato che è seguito, perseguito, compreso e fatto proprio dai pensieri che Pareyson definisce prassisti, ideologici, storicisti, culturalisti, biografisti [54]).

Per fare un esempio sul versante sociologico e politico: il costume ormai usuale di smentire in pubblico ciò che in pubblico è stato detto, anche re-interpretando le proprie parole e ridefinendo il proprio pensiero (curandosi però di non smentire l'ambiguità che ne sta alla base, in modo che la sua forma cambi travestendo un’intenzione esplicita, ma non l'intenzione o il messaggio profondo, cosicché il messaggio, volutamente ambiguo, possa andar bene per un’interpretazione e per il suo esatto contrario), è ormai prassi comune in politica, nella cultura, nella vita sociale, e viene accolta e incoraggiata anche dal cittadino medio, che scambia questa impostura di fondo come particolare abilità e strumento di autorealizzazione personale su cui nulla vi sarebbe da eccepire se non per invidia. Ma questo è un discorso antico. Basti per tutte l'analisi che Nietzsche fa del concetto di "falsa coscienza" o di "ressentiment" [55]) o anche del concetto di mondo vero [56]), per renderci conto che anch'egli, a modo suo, fu profeta. Il punto di arrivo è dunque un relativismo in filosofia che "a priori" esclude da sé i riferimenti al trascendente, causando gravi ripercussioni all'etica specie nel suo rapporto con le scienze [57]). Un relativismo che, storicizzando l'uomo e il suo pensiero, lo rende, tra l'altro totalmente irresponsabile di fronte al futuro e di fronte alla natura che egli ha il compito di preservare per preservarsi [58]). Di conseguenza, abbandonare l’etica significa autodistruggersi. Infatti, se nella storia sono riscontrabili strutture costanti di comportamento e di civiltà,

"si tratta pur sempre di costanti accertabili in modo soltanto empirico e tali da non elevarsi al di sopra del puro fatto. Insomma, nella storia per un verso esisterebbero valori ma non permanenti, e per l'altro caratteri costanti ma non valori" [59]),

il che corrisponderebbe alla negazione del pensiero stesso come possibilità di un’ulteriorità, e sarebbe invece il rinviorimando a un futuro provvidenziale magari ammantato di un'aura scientista, delle risposte di cui ora l'uomo ha bisogno [60]).

1.2 Pareyson scrittore di filosofia.

Ho scritto che Pareyson ha costruito, nel corso della sua attività filosofica (ossia dal 1939 al 19971) [61]), anche se non come obiettivo del suo filosofare, un sistema [62]). Con questo, escludevo che questa costruzione avesse il carattere della sistematicità, ossia dell'essere stata ideata e progettata come tale. Il carattere sistematico della filosofia pareysoniana non è quindi dato dall'autore, ma è trovato dal lettore. E questo ritrovamento non è possibile soltanto leggendo una sola opera che tratti, ad esempio, di metafisica o di gnoseologia. Le varie parti della filosofia, se così ci piace considerarle, sono mescolate fra loro nelle diverse opere, che trattano di vari argomenti. L’intento dell'autore è infatti quello di immettersi in un flusso di pensiero vivo, che affronta nel concreto i vari aspetti problematici della filosofia. In questo modo non gli può essere congeniale la forma di trattazione monografica di un argomento specifico, ma una trattazione legata al problema concreto che egli intende affrontare [63]). Così, in un libro che parla di estetica, possiamo trovare abbondanti riferimenti all'etica, alla gnoseologia, alla metafisica, che sono funzionali al tipo di argomentazione che il filosofo sta costruendo in un particolare contesto espositivo.

Il titolo della raccolta Verità e interpretazione, [64]) ad esempio, suggerirebbe l'idea che qui si voglia trattare, magari "professoralmente", soltanto di aspetti gnoseologici, nella particolare prospettiva della filosofia ermeneutica. Ma non è così. In effetti dalla scrittura e dall'esposizione del pensiero, benché la teoria della conoscenza resti pur sempre protagonista sullo sfondo, quasi da campitura, il disegno del filosofo si snoda toccando abbondantemente la metafisica, l'etica, l'estetica (qui invero poche volte), la politica, e altri aspetti. E ciascun aspetto non suona come estraneo all'altro, quasi che questa voluta (o connaturata) asistematicità nell'esposizione lasci intendere la ricerca di un nuovo modo di filosofare, tramite l’impiego di nuovi strumenti espositivi [65]). Vien da pensare che il "basso continuo" della composizione pareysoniana consista in questo allargamento della capacità espressiva del linguaggio combinando la forza concettuale dei diversi e tradizionali ambiti del filosofare in un linguaggio vivo e portatore di senso.

Insomma, la filosofia, così considerata, non costituisce soltanto una semplice scelta metodologica o formale, ma costituisce qualcosa di nuovo, perché travalica il puro ambito riflessivo, con la chiara intenzione di entrare nel vissuto concreto dell'uomo, nella sua antropologia, nella sua dimensione ontologica. Se noi guardiamo l'opera di Pareyson segnatamente nel suo stile, possiamo constatare che, al di là degli studi monografici ad esempio su Jaspers e su Fichte, le opere "importanti" sono costituite da raccolte di saggi, di diverso respiro e di diversa mole, scritti per le occasioni più disparate (articoli per riviste, prolusioni accademiche, lezioni, discorsi letti in occasioni ufficiali, prese di posizione in risposta a, commemorazioni di altri filosofi, ecc.). Gli scritti sono quindi stati raccolti in volume e pubblicati, ma non si avverte minimamente una frattura di stile o un vuoto argomentativo nell'esposizione, anche per frammenti scritti in anni lontani fra loro. Casomai, al momento dell'edizione definitiva, l'autore avverte di possibili cambiamenti derivati da precedenti perplessità superate, ma il saggio in sé permane invariato nella sostanza [66]). Ebbene, per essere in grado di filosofare in questo modo occorre, a mio avviso, possedere una eccezionale visione globale della filosofia, e nel contempo una capacità di analisi che non perde mai il riferimento a questa visione d'insieme.

E' però innegabile che, nonostante il suo linguaggio quasi informale, schivo da artifici e argomentazioni particolarmente sofisticate che in qualche modo fungano da armatura ai suoi ragionamenti, Pareyson si accinga a costruire un suo sistema in forte tensione dialettica con altrettanti sistemi o "correnti" che la filosofia coeva del momento offre all'attenzione dello studioso. Questo "sistema" pareysoniano trova radici salde nella storia della filosofia e non si pone altro obiettivo che quello di cercare quell'unica verità che all'uomo è dato di trovare in maniera affatto originale dentro la storia e dentro un suo orizzonte di esistenza, come di riflesso deduciamo dall'analisi che egli fa della crisi del sistema hegeliano, prendendo a riferimento le critiche di Kierkegaard e Feuerbach ad Hegel:

"... il cominciamento del sistema è il cominciamento assoluto... Ma perché, prima di cominciare il sistema, non si è posta un'altra non meno importante questione, cioè: come comincia il sistema con l'immediato? Comincia in modo im,mediato? A questa domanda la risposta è chiaramente un no, perché il "cominciamento del sistema che comincia con l'immediato, è a sua volta raggiunto con la riflessione". A questo punto la difficoltà è la seguente: "come si ferma la riflessione, ch'è entrata in movimento per raggiungere il cominciamento?". La riflessione non si ferma da sé, perché l'atto del fermarsi è per essa ancora l'atto di esercitarsi come riflessione: la riflessione è il cattivo infinito. Se la riflessione si ferma, è perché qualcos'altro la fa fermare, e cioè la decisione" [67]).

Ma, già in questa decisione, vi è una dirompente carica critica contro i vari "sistemi" filosofici: da quello tomistico (che non concepisce la filosofia senza la teologia) a quello hegeliano-gentiliano (che presuppone il concetto di "assoluto"), a quello marxista (prassista), a quello empirista-logico (che presuppone la sola realtà dei sensi), a quello pragmatista. Il sistema pareysoniano, come ho già scritto, non nasce come tutti questi sistemi da un nucleo intuitivo fondamentale donde tutto il resto sembra poi quasi dedotto, ma nasce sempre da un nucleo intuitivo polimorfo (secondo forme già presenti nella tradizione, come egli stesso riconosce - si veda ad esempio la citazione a pag. 8) costantemente verificato nelle sue interconnessioni, alla luce della critica e dall'ascolto-confronto con la verità, in un costante dialogo con l'altro, filosofo o non filosofo, evitando posizioni di arroccamento e prediligendo l'apertura.

Ed è conseguenza logica che l'unica forma di "opposizione" possibile a un tal genere di pensiero sia o il rifiuto tout court senza neppure prenderlo in considerazione o il misurarsi con esso sul suo stesso terreno, quello della speculazione e dell’argomentazione teoretica, eventualmente per provocarne una costruttiva autocritica. D'altra parte, questo atteggiamento è quello riservato ad ogni filosofia che accetti all'interno della sua concezione l'idea di una trascendenza, anche se qui la trascendenza viene quasi sottaciuta per lasciar campo alla razionalità e al pensiero argomentativo accessibile anche all'agnostico, salvo riemergere nei punti cruciali, dove la scelta o l'intenzione viene rinnovata, dove la logica (che a suo modo è misura) non può sostenere l’argomentazione razionale nell’ambito di ciò che la trascende e dove bisogna prendere campo pro o contro la quanto viene intuito comeconsiderato verità. Di conseguenza, mentre ad esempio per il materialismo storico o per l'Assoluto hegeliano è relativamente "facile" trovare il punto debole [68]), il famoso piede di argilla che, guastato, porta il colosso alla rovina, per un sistema che non pretende di possedere alcuna verità ma solo di cercarla è quasi impossibile: se e quando lo si fa, si trova qualcosa che non c'era, si supera e si allarga l'orizzonte, o si trovano semmai le eterne insanabili questioni poste dalle cosiddette "domande esistenziali" o "prime" della filosofia, cui nessuno ha saputo sinora rispondere in termini logicamente ineccepibili. Oppure bisogna cercare di respingerlo "a monte", nelle sue premesse antropologico-culturali, e questo, purtroppo, è l'atteggiamento di tanta filosofia contemporanea, sebbene certi segnali di apertura sembrino essere più numerosi anche in settori (come la filosofia del linguaggio) che fino a pochi decenni or sono non esitavano a dichiarare indisponibilità nei riguardi del pensiero che assume nel suo orizzonte tesi metafisiche [69]). Ma l’aspetto che più fa riflettere nella filosofia di Pareyson considerata come "sistema", è la caratteristica strutturale del sistema stesso, ossia il suo grado di apertura. Questa apertura si caratterizza soprattutto sul piano metodologico. Oserei dire che, come per taluni aspetti in Hegel, qui il metodo sia importante quanto il merito, ossia quanto il contenuto stesso del pensiero. I contenuti infatti saranno prima o poi superati da qualcuno che viene dopo di noi, il metodo però non è cosa che si cambia di generazione in generazione, poiché il metodo è guidato da una teleologia, anche se in Pareyson questa teologia si chiama libertà, ossia un principio morale che pur orientando la ricerca non stabilisce criteri assoluti per la deduzione di verità o di falsità, come nei sistemi.

Il metodo in Pareyson controlla costantemente la coerenza fra criteri di ricerca, premesse antropologiche e ipotesi filosofiche, rappresentandone la concreta attuazione, nell’intento di fare filosofia e non di seguire un sistema. I risultati di questo approccio sono evidenti: sul versante teorico il nostro autore contribuisce vigorosamente all’opera di svecchiamento della filosofia italiana mettendola direttamente in dialogo con le emergenti filosofie europee. Sul versante della critica filosofica, egli studia con assiduità il pensiero degli altri filosofi, italiani e stranieri [70]). La sua critica è sempre acuta, ma valorizza i punti di forza di questi pensatori, pur evidenziando gli aspetti poco convincenti del loro pensiero. Ogni riferimento viene contestualizzato con cura nel periodo storico dell’autore considerato, viene insomma cercato anche il motivo, l’elemento umano, l’elemento psicologico e il sistema di valori che ha influito sulle sue teorie [71]). Per teorizzare una sola filosofia, un solo pensiero "forte" senza disperdere la ricchezza di ogni posizione individuale e relativa, occorrono pertinenza e rigore, un linguaggio più allusivo che definitorio, capace di recuperare l’allusività del simbolo senza preoccuparsi di renderlo esplicito, ma soltanto chiaro, interpretabile. Un linguaggio dunque che fornisce tracce, piste, sentieri, senza mai innalzare steccati o muri laterali, magari sormontati da "cocci aguzzi di bottiglia", per parafrasare Montale. Vi è dunque, in Pareyson scrittore, una sapiente mescolanza di rigore definitorio e apertura all’intuizione, all’ulteriorità, al trascendente, a ciò che nel linguaggio è contenuto ma che il linguaggio non può dire. Siamo dunque nell’alveo della migliore tradizione filosofica occidentale, fatta di rigore e di temperanza, di spazi aperti ma anche di fatiche razionali, dell’esigenza di argomentazione ma anche di simboli, di conoscenza della verità ma anche di consapevolezza del limite, del cristallo di Parmenide ma anche della potenza allusiva di Eraclito.

Per rendercene conto, consideriamo come viene affrontato da Pareyson un tema che riemerge nella filosofia odierna, quello dei "valori". Pareyson affronta il tema dell'etica, ad esempio in Verità e interpretazione, con queste argomentazioni: i valori, nella storia, sono tutti storici. I valori corrispondono a un modo di giudicare la vita stessa e i suoi avvenimenti, e in quanto tali non possono essere assoluti. Nulla che ci venga dalla storia può esserlo, perché la verità è sì presente nella storia, ma non è della storia. Questa posizione si differenzia in primo luogo da un certodallo storicismo che, ad esempio in Spengler, era inteso come uno specifico di ogni particolare civiltà (a parte il fatto che si potrebbe obiettare che il concetto di "civiltà" suona troppo vago per attribuirvi una chiusura, un inizio e una fine). Tale civiltà produrrebbe al suo interno una morale, una scienza, un diritto, una filosofia che non hanno più nulla da dire alle generazioni future: allora però non si capisce come quella stessa civiltà possa essere in rapporto con le generazioni precedenti: la tesi storicistica quindi non regge, non è fenomenologicamente possibile. Pareyson afferma invece: "Da un lato voglio ritrovare la verità assoluta della filosofia, dall’altro affermo che ciò è necessario oggi, per risolvere i problemi di questo tempo. Voglio, dunque, affermare a un tempo l’assolutezza della verità e la condizionalità storica della verità" [72]). É questa una concezione vicina ad altri pensatori coevi, ad esempio Abbagnano [73]). I valori nella storia si trasformano ed evolvono. Prima di tutto possono essere capiti solo se collocati in un certo contesto culturale:

"... l'esemplarità non diventa efficace se non è accolta in un ambiente storico spiritualmente affine a quello donde è emerso il valore originale", e "per un verso non sembra accettabile l'idea ... che il ritmo dello spirito umano consista in una vicenda di slanci innovatori e pause d'inerzia, come se la perpetuazione di una riuscita fosse affidata a un'abitudine passiva ... per l'altro verso l’esemplarità può fruttificare solo se accolta in un atto di adesione e partecipazione quale soltanto la simpatia e la consapevolezza di appartenere a una stessa comunità spirituale sanno ispirare e ... l'esemplarità del valore, pur essendo una forza indipendente, agisce soltanto come stimolo e sostegno interiore dell'attività che ha saputo scoprirla e adottarla" [74]). Inoltre, il valore non esprime un fatto storico, anche se è nella storia ed esprime la sua storia. Se un valore è tale deve esprimere l'essere, e non è metro di giudizio il tempo quantitativo della sua permanenza nella storia. Un valore che esprime l'essere viene vissuto in modo diverso nei diversi periodi storici, tale che un modo di viverlo non può essere calato in un altro contesto storico, ma se è vero valore che esprime l'essere riemerge sempre, anche dopo interi periodi di assenza dalla storia [75]), e riemerge in maniera rinnovata e sempre viva.

Abbiamo qui un esempio di come un tema controverso, come quello dell'etica, venga affrontato sullo sfondo ontologico-personalistico assunto da Pareyson a cornice-guida della sua speculazione, ma nello stesso tempo sia anche affrontato in modo da lasciare uno spiraglio aperto nella sua problematicità anche ad altre concezioni: si pensi ad esempio all'etica nel "pensiero debole", oppure all’"etica del discorso" di K.O. Apel e alla teoria dell’"agire comunicativo" in Habermas.

"Il problema non è dunque di distinguere nella storia ciò che sarebbe permanente in quanto valore sovrastorico da ciò che come fatto storico sarebbe soltanto temporale: ... il problema è invece di riconoscere nella storia la presenza dell'essere, e quindi di distinguere ... fra ciò ch'è solamente storico ed espressivo e ciò ch'è anche ontologico e rivelativo" [76]).

L’atteggiamento di chi argomenta in questo modo non è l’atteggiamento di chi si riferisce alla levigatezza di un sistema che sta nella sua mente o che comunque parte da un centro che corrisponde alla propria visione del mondo, ma l’atteggiamento di colui che costantemente ha sotto gli occhi l’altro e lo invita ad un dialogo, ad un confronto, ad uno sforzo comune per cercare una verità che è sempre vista come domanda, come problema e mai come certezza. E qui il filosofo, dopo essersi inoltrato su un terreno in parte condivisibile anche da altri, dichiara la sua convinzione, quello che la sua filosofia ritiene indispensabile per dar senso al pensiero ("sull'uomo e per l'uomo"). La ricerca della verità è quindi intesa come il venire dell’essere all’uomo, attraverso il linguaggio. Questo è l’atteggiamento di una filosofia che si cura di sé curandosi dell’uomo. Qui il sistema hegeliano è davvero capovolto nella sua prospettiva: non è più l’uomo che deve fare i conti col sistema, con l’assoluto che, benché assoluto, si rivela angusto ed opprimente, ma è il sistema che deve fare i conti con l’uomo.

Similmente, in una sua opera che tratta di estetica [77]), Pareyson dedica spazio a considerazioni come la seguente:

"... Ecco allora nella formatività costitutiva della vita spirituale ritagliarsi quelle che una lunghissima tradizione ha sempre considerato "arti", e che son tutte, in realtà, "poesie in un certo modo reali", come le arti dell'equitazione, della navigazione, dell'agricoltura, e le arti della guerra [78]), del governo, della chirurgia, e le arti di dimostrare, convincere, persuadere, sino alle già ricordate arti di vivere e di pensare. E chi voglia immediatamente rendersi conto di questa "artisticità" comune a tutta la vita spirituale, non ha che da ricordare che ogni opera dell'uomo può avere uno stile, cioè essere stata formata in un modo singolarissimo e personalissimo, inconfondibile eppure onniriconoscibile, inimitabile eppure esemplare, irripetibile eppure paradigmatico, e dove si può parlare di stili, si deve parlare di arte" [79]).

Siamo qui mille miglia lontani della concezione dell'arte crociana, che resta vistosamente superata per l'allargamento di vedute e la nobiltà che viene attribuita ad ogni più umile espressione dell'opera dell'uomo. La teoria della formatività risulta infatti essere la riabilitazione di quanto il pensiero filosofico, da Platone in poi, ha sempre considerato tekne, facendo della filosofia una aristocrazia e dell'arte un linguaggio quasi oscuro ed iniziatico. Come non vedere che in questa concezione dell'estetica, da ogni parola emerge un sostrato etico, logico e metafisico? Infatti, con pochissimi aggiustamenti di parole, il concetto può senza sforzo essere collocato in un discorso metafisico, gnoseologico o etico [80]).

Pur con i dovuti distinguo e le dovute premesse quando si accosta il pensiero occidentale a quello orientale, rileviamo che anche nel Taoismo la tekne è nobilitata e intesa come strumento formativo della personalità [81]), in quanto investito di questa intenzione ad elevarsi spiritualmente, come segno di una "formatività della vita spirituale". Dunque un pensiero, quando è davvero filosofico, al di là della tradizione con la quale viene messo in rapporto, può stabilire un dialogo con un altro pensiero, se questo secondo pensiero è anch'esso rivelativo, di qualunque argomento trattino i contenuti dei due pensieri e qualunque siano le loro premesse e le loro conclusioni. Questo dialogo trae origine dalla carica intenzionale che il filosofo affida al linguaggio. Esso infatti è messaggio che va oltre il contenuto alludendo a uno specifico di senso che trascende il dicibile e che, a differenza di altri, Pareyson non cerca di rendere "dicibile", perché tale dicibilità (che per altri invece corrisponde a una pretesa scientificità della filosofia) non porta nulla di utile alla verità e non accresce (non potrebbe) l’essenza dell’essere.

In questo, credo, stia l'essenza più profonda di quel tentativo di fare filosofia che trasversalmente tocca le filosofie, e che trova la sua sorgente nell'essenza dell'uomo in quanto essere dotato di capacità riflessiva. Ed è in questo terreno, affatto indicibile, che trova origine non la metafisica, o l'etica, o l'estetica o la politica, ma la filosofia, che si traduce in vita vissuta, che viene riassorbita dall'essere che l'ha prodotta, caratterizzando la sua essenza e riproponendola sempre diversa e unica. Seguendo una convinzione di questa natura, credo, il non-compreso Wittgenstein, con somma meraviglia dei suoi amici neopositivisti, dopo aver scritto il Tractatus sparì dalla circolazione per molto tempo e non già, come dissero alcuni, soltanto perché fosse convinto di aver scritto l’opera di filosofia [82]).

1.3 Filosofia e ermeneutica [83])

L'orientamento dominante della filosofia contemporanea afferma che il conoscere come tale é sempre un interpretare alla luce di una teoria, e si chiama ermeneutica [84]). É una teoria della conoscenza concreta. Il mondo é come un grande testo fatto di segni e di simboli che devono essere decodificati, perché l'uomo cerca sempre, anche quando non lo sa, anche quando questi segni e simboli sono talmente familiari che non ci si chiede il loro perché, anche allora cerca il senso delle cose [85]). Da questo punto di vista, é stato possibile unificare diverse attivitá intellettuali che, ad una considerazione superficiale, potrebbero sembrare molto diverse fra loro, ad esempio l'attivitá dello scienziato e quella del critico letterario: secondo un approccio ermeneutico essi non hanno compiti diversi: interpretano, decodificando; chiedono il perché delle cose e dei fenomeni, dei messaggi che l'ambiente invia ai nostri canali sensoriali. La filosofia ermeneutica chiama precomprensione la struttura teorica delle attese e delle ipotesi. In un certo senso l'approccio ermeneutico scaturisce dalla riflessione fenomenologica: anche qui troviamo alla base il concetto di intenzionalità in stretta correlazione con la decodifica dei significati e la ricerca di senso, anche qui troviamo il concetto di precomprensione come struttura teorica delle attese [86]). Ma, a differenza dell'approccio fenomenologico, l'approccio ermeneutico non ritiene possibile l'epoché husserliana, non considera questa precomprensione un ostacolo alla ricerca, ma semplicemente un dato di fatto con cui il filosofo deve misurarsi per poter interpretare meglio. L'atteggiamento fenomenologico propone di liberarsi da questi pregiudizi e metterli tra parentesi e di metterci, per quanto possibile, di fronte alla realtà per osservare il fenomeno in quanto fenomeno, liberando la visione personale dai pregiudizi che vi sono incrostati sopra. Ma per la filosofia ermeneutica il sottrarsi al patrimonio di certezze, equivarrebbe all’impossibilità di qualsiasi esperienza. In questo senso viene contestato l'atteggiamento fenomenologico. Non è possibile per gli ermeneutici sospendere i pregiudizi, perché sono già dentro il linguaggio. Bisogna inoltre riconoscere che un autore come Husserl non dava sufficiente importanza alla perenne mediazione linguistica del conoscere umano. In effetti noi non solo vediamo qualcosa, ma ci formuliamo anche linguisticamente qualcosa. E questo già introduce la nostra esperienza in un ambito culturale, in un circuito di mediazioni culturali e storiche. Cercare di fare epoché del linguaggio è come augurarsi:

Venisse al mio parlare

Éffeta e poi per sempre bocca muta

come riportato nella poesia introduttiva a questo capitolo. Se quindi è insostenibile pretendere di fondare una assoluta oggettività della filosofia, nondimeno, la forte carica critica e la rigorosa metodologia della filosofia fenomenologica sono tutt'ora patrimonio della migliore filosofia contemporanea, accolta anche da Pareyson nella prassi argomentativa delle sue opere come elemento costitutivo del suo metodo di ricerca.

Il filosofo che ha gettato e sviluppato le basi dell'ermeneutica in questo secolo, é stato Martin Heidegger [87]). A partire da questo autore é nata la corrente dell'ermeneutica che, pur non avendo un orientamento verso le scienze come accade per l'epistemologia e la gnoseologia, su alcuni punti importanti si trova a completarle. Gli epistemologi come Popper e i suoi seguaci dicono che l'osservazione é sempre pregna di teoria [88]), l'ermeneutica sostiene che conoscere é interpretare alla luce di precomprensioni diverse a seconda del soggetto interpretante: su questo terreno, epistemologia ed ermeneutica sono molto vicine. Questo vuol dire, per ambedue le posizioni, che tutto quello che noi diciamo non è una verità assoluta, ma in qualche modo una interpretazione, che risente della condizione storica, dei condizionamenti culturali e sociali di chi la dà, della quantità dei dati disponibili al momento della formulazione del giudizio, e di mille altre "variabili" che possono influenzare l'osservazione e l'interpretazione dei fatti. Ogni interpretare quindi è sempre aperto ad ulteriori approfondimenti e revisioni.

Pareyson si inserisce in questo contesto, e ribadisce la sua adesione all'ermeneutica con la pubblicazione dei saggi raccolti in Verità e interpretazione. In alcuni passi del primo saggio, egli sottolinea la dimensione soggettiva, o meglio, personale della verità [89]), come espressione o svelamento dell'essere dal proprio punto di vista [90]). É implicito qui il riferimento alla struttura precomprensiva come dato fenomenologico. Ma, lungi dal fermarsi a questo stadio dell'analisi e dal concludere che allora il concetto di verità è un concetto relativo, egli costruisce la sua ermeneutica come ontologia dell'inesauribile [91]).

"La presenza della verità nella parola ha anche un carattere originario ... si tratta di un légein che è anche un semàinein: la parola significa per la sua fertile pregnanza, che oltrepassa la sfera dell'esplicito senza sminuirla" [92]).

La parola dunque (e quindi, il linguaggio) racchiude in sé la possibilità della verità, non come trascendenza, come ad esempio avrebbe detto Wittgenstein, [93]) ma come condizione di possibilità. Non che nella storia sia possibile trovare una verità immodificabile; tuttavia l'uomo, storicamente, accede a modo suo ad un'unica verità che si dà nella storia in modo da essere comprensibile al tempo storico. Chiara dunque la risposta al pessimismo heideggeriano e chiaro l'intento di recupero della funzione del linguaggio come unico mezzo che contiene e può rivelare la verità. Heidegger infatti (ma anche Wittgenstein, l'empirismo logico e l'attuale filosofia del linguaggio) si scontra con i "limiti" del linguaggio e, sostanzialmente, non ne comprende il senso più profondo e allusivo (egli che pur dimostrava una così profonda sensibilità e competenza filologica, in modo particolare per la poesia), quel rimando all'ulteriore che invece Pareyson identifica come una caratteristica importanteprincipale del linguaggio, laquella capacità di svelare lal'unica verità che pur assume forme diverse nel corso della storia [94]). Heidegger si interrompe lanella sua riflessione in Sein und Zeit perché cerca nel linguaggio una corrispondenza perfetta con l’essere. Vuole quindi superare quell’elemento di indeterminatezza che allude all’essere, o meglio, vuole comprendere questo elemento, per arrivare a descrivere l’essere. Pareyson invece cerca una via all’essere che rispetti il linguaggio-strumento, attraverso l’allusione simbolica, l’analogia, il riferimento all’ulteriore, per usare un vocabolo che gli è caro. Heidegger, scegliendo questa via, si preclude la possibilità di giungere all’essere e, pur fine studioso di poesia e di arte, si preclude la potenza di quei linguaggi che Pareyson cerca di utilizzare nella sua analisi (non ovviamente facendo poesia o arte, ma cercando di capire che cosa della poesia e dell’arte rimanda così direttamente all’essere in un modo che il linguaggio descrittivo non riesce a rendere). Gli studi di estetica di Pareyson, la sua teoria della formatività, sono, sotto il profilo non solo della metodologia ma anche dell’analogia e del senso che riescono a trasmettere, certamente più convincenti, sotto il profilo non solo della metodologia, ma anche dell’analogia e del senso che riescono a trasmettere, delle dotte analisi delle poesie di Trakl che Heidegger propone in una delle sue ultime opere [95]). Con questo non voglio dire che l’opera citata di Heidegger sia "inferiore", come teoresi, alla teoria della formatività, ma semplicemente che è diversa e, almeno per me, non altrettanto convincente. In fondo, quello che Heidegger chiede al linguaggio è un compito impossibile: gli chiede infatti di essere lui, l’essere di cui dovrebbe soltanto dire.

In Pareyson è infine teorizzato con sufficiente chiarezza anche il riferimento a ciò che di filosofia ha solo parvenza, ma che in realtà nasconde altra natura speculativa, riconducibile all'ideologia e non alla filosofia. Egli identifica allora l'antitesi fra pensiero rivelativo ed espressivo, nel contesto di alcuni fenomeni culturali che il primo saggio di Verità e interpretazione si prefigge di descrivere sommariamente nella loro fenomenologia e in alcune loro conseguenze negative che, già nell'introduzione al volume sono individuate nelle "... varie forme di relativismo, scetticismo, tecnicismo, prassismo, nichilismo, che, sotto l'apparenza della più vigile criticità, derivano tutte dalla decadenza del pensiero filosofico" [96]).

Ma contestare così duramente alcune correnti del pensiero contemporaneo non significa semplicemente lanciare un anatema o rivendicare una non argomentata supremazia del proprio punto di vista. Pareyson muove questo attacco per difendere la filosofia, non le sue teorie. Il punto di vista che non viene mai a mancare, il luogo verso cui la mente non può non tendere, è il luogo della verità, a prescindere dalle diverse ipotesi e dalle diverse visioni del mondo. Certo, non è raggiungibile una verità assoluta, ma non per questo il filosofo deve sentissi autorizzato a dire che la verità non esiste e che quindi qualsiasi teoria può assurgere alla dignità di pensiero filosofico per il semplice fatto di essere una teoria. Qui l’apertura di Pareyson cambia improvvisamente e duramente di segno: in questo caso il nostro filosofo lascia cadere tutti i suoi propositi di ricerca di un dialogo comune e semplicemente rifiuta il dialogo con queste teorie:

"Vi sono filosofie che, per quanto ambiscano, con la loro pretesa di formulazione universale, a conseguire un valore di verità, non riescono ad altro che ad esprimere il loro tempo. Con esse una discussione speculativa è inutile e inopportuna" [97])

Direi che oggi, al di là delle correnti filosofiche di riferimento, siamo un po' tutti convinti che non vi possano essere delle verità assolute. Il che, potrebbe forse portarci alla posizione di coloro che, prima di Kant, sostenevano che la realtà è inconoscibile. In realtà, la condizione di cui parla l'ermeneutica, è di tipo diverso, perché il condizionamento culturale e storico, è comunque sempre interno al pensiero degli uomini, essendo implicito già nel linguaggio [98]).

Da parte sua, il nostro filosofo osserva:

"Il carattere proprio dell'interpretazione è dunque d'essere al tempo stesso rivelativa e storica, e non se ne comprenderà appieno la natura se non s'intenderà in tutta la sua portata la coessenzialità di questi due suoi aspetti, cioè come in essa l'aspetto rivelativo sia inseparabile dall'aspetto storico". ... In virtù dell'interpretazione quell'antistoricismo che inevitabilmente inerisce alla ricerca e scoperta della verità, non ha e non deve avere un carattere ascetico, perché l'unico modo di accedere alla verità non è di uscire dalla storia" ... Nell'interpretazione rivelazione della verità ed espressione del tempo non sono in rapporto di contiguità o continuità o gradualità, ma di sintesi, nel senso che l'una è la forma dell'altra" [99]).

Solo con questa premessa possiamo dunque, secondo Pareyson, far coincidere storia e filosofia, e non nel senso crociano di coincidenza della filosofia con la storia. E non vi è dualismo fra il conoscere e il suo oggetto, come quello criticato da Kant, l’oggetto non è "Gegenstand" ma parte del medesimo orizzonte che è costituito dallo stesso soggetto . Qui ci si muove all'interno di una cultura, con un punto di vista che potremmo definire relativo. Non si paragona questo relativismo storico ad una realtà indipendente o esterna dai nostri contenuti culturali e storici. Tutto ciò che si deve dimenticare è la pretesa di conquistare un punto di vista assoluto, come pretendeva l'hegelismo, riconoscendo un limite pur senza rinunciare a possedere la verità nella storia. La stessa epistemologia popperiana e postpopperiana insiste particolarmente su questo punto del limite, nel sottolineare che la verità che troviamo oggi potrebbe essere falsificata in ogni istante e, di conseguenza, che tutte le verità, anche della scienza, sono provvisorie, ma che al tempo stesso è possibile parlare di verità "oggettiva" nel senso di Tarski e Senofane [100]).

Il pensiero umano, in ultima analisi, è qualche cosa che è sempre in progetto, che mai si può dire concluso, non perché si ammetta la cosa in sé di ascendenza kantiana. Semplicemente il processo è infinito. Tutto ciò che è valido per un'epoca potrebbe non essere valido per l'epoca successiva. Ciò che resta invece valido è ciò che è dell'uomo, la sua interpretazione:

"Ogni relazione umana ... ha sempre un carattere interpretativo. Ciò non accadrebbe se l'interpretazione non fosse di per sé originaria ... in essa si attua la primigenia solidarietà dell'uomo con la verità. E questa originarietà dell'interpretazione spiega ... il carattere ontologico di ogni interpretazione: ... interpretare significa trascendere, e non si può parlare autenticamente degli enti senza insieme riferirsi all'essere. Insomma: l'originario rapporto ontologico è necessariamente sempre ermeneutico, e ogni interpretazione ha necessariamente un carattere ontologico. Ciò significa che della verità non c'è che interpretazione e che non c'è interpretazione che della verità" [101]).

Per servirci di una figura metaforica di Braudel, le diverse filosofie, intese come orizzonti storici di pensiero, potrebbero essere collocate in una certa durata storica, che si estende fino a che determinati caratteri del pensiero permangono o comunque producono cultura e riferimento nell'agire umano: Pareyson invece puntualizza che la filosofia in sé non è soggetta a questa regola, la filosofia come egli la intende permane come caratteristica connaturata all'essenza dell'uomo, di tutti gli uomini. Il riferimento alla teoria della formatività che consideravo in un passaggio precedente, convalida questa deduzione: ivi infatti, qualsiasi atto umano che possa essere riferito a una caratteristica riflessiva (tipica solo dell'essere umano) viene considerato arte e, siccome non è possibile una forma artistica senza l'espressione anche di un pensiero filosofico, ecco che la filosofia, in sé, come caratteristica dell'essere, comprende anche la storia coincidendo con essa, pur rivelandosi secondo una forma che è tipico prodotto di una cultura storica. Ed ecco che verità e interpretazione, nella storia, coincidono.

L'affermazione metafisica quindi è, nella filosofia ermeneutica, degna di grande rispetto, perché rappresenta un concentrato di valori e di contenuti tipici di una certa civiltà, ma come tale potrebbe essere superata in un'altra epoca storica. Per il nostro autore infatti la filosofia non deve occuparsi del problema di Dio: non esiste infatti un Dio filosofico ma solo un Dio oggettivato dal pensiero dei filosofi [102]). "Con Dio - ribadisce Pareyson, la filosofia viene a contatto solo nella misura in cui essa si ponga a riflettere sull'esperienza religiosa" [103]). "La filosofia insomma, deve abbandonare la tradizionale e illusoria funzione fondativa: "il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico" [104]). Si contesta solo la pretesa di cogliere un vero o un falso che siano tali, al di qua della storia: tutto ciò che possiamo dire su verità e falsità è sempre interno a un processo storico. Sembra riferirsi a questo aspetto il nostro filosofo quando, trattando dell'autofondazione della filosofia nel suo saggio su Fichte afferma:

"La filosofia, nell'atto stesso che cerca il primo principio da cui dedurre, ricostruendolo, lo spirito finito, e cioè nell'atto con cui cerca il fondamento delle possibilità del pensiero naturale, deve anche preoccuparsi di cercare il proprio principio, e cioè il fondamento della possibilità dello stesso pensiero filosofico" [105]).

L'ermeneutica del pensiero debole, invece, dice che non si possono più cogliere strutture forti del pensiero che in qualche modo rispecchino un carattere eterno e stabile della realtà [106]), ma siamo in un certo senso chiusi in un ambito in cui ogni affermazione è sempre debole, perché non può mai imporsi sulla sua contraddittoria. Si può sempre pensare ad un modello diverso da quello che si ha sottomano, all'interno del quale affermazioni che ora appaiono vere si dimostrino poi false, tantopiù che il linguaggio, strumento imperfetto, non riesce ad esprimere se non allusivamente l'intenzione del pensiero. E fin qui nulla di apparentemente diverso da quanto dice Pareyson, ma solo se intendiamo come "pensiero forte" quello basato sulla metafisica, mentre così non sembra [107]). In realtà il tentativo di Pareyson è proprio all’opposto del "pensiero debole" perché egli si propone, al di là della metafisica, di trovare la strada per un pensiero forte, inteso non come semplice teoria o sistema ma come comunicazione a partire dall’analisi del nostro modo di conoscere la realtà, nei suoi tratti comuni. Non si tratta qui di stabilire una com-unità a posteriori, come in Habermas [108]), tramite una convenzione che urta le condizioni di possibilità della libertà umana. L’intento di questa operazione sarebbe infatti quello di eliminare la libertà negativa in modo quasi meccanico, una sorta di strumento per esorcizzare il male senza volere il bene. Si tratta invece di stabilire, pur partendo dalla relatività delle proprie posizioni (precomprensioni, pregiudizi o quant’altro), non ciò che per l’uomo è utile o ragionevole, ma ciò che risponde alle domande di senso dell’uomo. Ecco allora che questo concetto così inafferrabile del senso, pregno di ineffabile e di rimandi a una dimensione non verificabile da canoni e misure, diventa il perno attorno al quale può ruotare qualsiasi ricerca filosofica, il riferimento comune che garantisce le diversità pur tendendo ad un’unità. Attorno a questo concetto, che chiede a gran voce un ritorno a un "sapore" filosofico, molta filosofia moderna ricerca un nuovo orizzonte, come rileva Gianni Vattimo in uno studio su Nietzsche [109]).

Pareyson, da parte sua sostiene, come già ho evidenziato, l'esistenza di una verità con sue precise caratteristiche ontologiche, anche se il suo darsi è storico e non assoluto e, inoltre, il suo svelarsi e il suo nascondersi è correlato non ad una sua mancanza ma alla finitezza del pensiero, all'impossibilità di conseguire l'assoluto. L'essere può infatti essere considerato fondamento, inteso come

"un termine di cui l'uomo può parlare solo in quanto è, egli stesso, essenzialmente rapporto ontologico ... non per questo merita il nome di fondamento nel senso classico, perché l'unica cosa che se ne può stabilire è la sua inoggettivabilità e inconfigurabilità. E ove si parla di inoggettivabilità non c'è metafisica nel senso tradizionale: valgano qui le lezioni di Fichte ... e il monito di Jaspers... Il discorso sull'essere è indiretto in quanto è una riflessione non conoscitiva ma rappresentativa dell'ontologicità dell'uomo" [110]).

In secondo luogo opera una netta distinzione fra ciò che è filosofia e ciò che non lo è. In terzo luogo, pur riconoscendo l'impossibilità di un’unica filosofia, nondimeno egli considera questo non un limite ma un arricchimento e, in tale ottica, salva la dialettica hegeliana come metodologia ancor valida per un confronto. Questa metodologia o comunque, questi criteri del suo filosofare, pervadendo le varie aree di interesse speculativo che egli affronta (metafisica, gnoseologia, etica, estetica, filosofia della religione, filosofia della cultura, ecc.), costituiscono ciò che io ho chiamato sistema, la cui caratteristica, facevo notare, è essenzialmente diversa da altri sistemi che noi troviamo nella storia della filosofia. Non siamo infatti in grado di trovare un inizio o una fine di tale sistema, ma ci troviamo immersi in esso leggendo un qualsiasi brano del nostro autore e, nondimeno, non traiamo mai da questa esperienza una sensazione di dejà vu o di ridondanza. Ogni frase sta al posto che le compete e l'eventuale ripetizione dello stesso concetto lo mostra in luce sempre diversa, con una sfumatura che ne approfondisce la comprensione. Inoltre, tale interpretazione che noi facciamo del suo pensiero è sempre una nostra interpretazione e, al tempo stesso, è il suo pensiero, esattamente com'egli intendeva l'interpretare.

Nell'ermeneutica del pensiero debole non riusciamo a trovare tutto questo: vi troviamo invece un pensiero che più che dire o argomentare, timidamente allude, cerca di convincere, non rischia una scelta. Un pensiero che lavora molto sull'intuizione ma, in osservanza al suo paradigma, si rifiuta di argomentare e di dimostrare, un pensiero che non giudica e non prende partito (non per una filosofia, beninteso, ma per la filosofia), un pensiero che si basa più sulla retorica che sul confronto [111]). Un tale pensiero non ci dà sicurezza, ma non perché non dica cose sensate, anzi, per alcuni aspetti offre notevoli spunti e apprezzabili novità, specie per chi, come me, non è un filosofo. Quello che lascia perplessi è proprio la costituzione del suo paradigma che riconosce, in ultima analisi, valore di verità ad ogni pensiero e dunque anche al pensiero strumentale ed ideologico che invece Pareyson identifica e rifiuta, perché, appunto, non esisterebbe la verità. E questo accade perché non ci si cura del rapporto fra essere e pensiero [112]), proprio perché, per dirla con Vattimo, "l’essere ac-cade; forse anche nel senso che cade-presso, che accompagna in quanto caducità ogni nostra rappresentazione" [113]). Ma se tutto è vero e quindi significa che nulla è vero, che bisogno avremmo di cercare la verità? Perché, allora, l'uomo folle di Nietzsche [114]) si dispera per la morte di Dio?

1.3.1 L'interpretazione, l'interprete, l'interpretante: la semiosi illimitata

Noi pensiamo normalmente (o siamo convinti di farlo) a una semiosi finita, perché un dato oggetto è segno che rimanda a qualcos'altro, che può essere a sua volta segno, ma che comunque deve approdare a qualcosa che sia veramente realtà oggettiva e non segno di qualcos'altro. La semiosi infinita invece, una teoria derivata dalla speculazione peirceana [115]), sostiene che noi non arriveremo mai a cogliere il fatto o la sua interpretazione, ma solo interpretazioni di interpretazioni. E' un atteggiamento tipico della cultura contemporanea, specie in alcuni ambiti, come l'estetica. I fatti sarebbero dunque sempre interni ad altre interpretazioni.

Croce, ad esempio, nel presentare la sua interpretazione del fatto artistico, aveva a suo modo dato già una anticipazione di quanto l'ermeneutica avrebbe detto. Noi siamo portati ad esempio a pensare che l'artista veda più o meno la realtà che vediamo anche noi, e poi la sappia esprimere in forma artisticamente adeguata [116]): supponiamo quindi una realtà a sé, anteriore, quasi indipendente dall'espressione. Croce invece era molto categorico su questo e affermava che l'artista vede effettivamente una cosa diversa da ciò che vede il non artista. Ciò significa che un contenuto che apparentemente è solo di esperienza è già costituito come tale entro una particolare prospettiva personale. Non esiste un contenuto al di qua di una prospettiva che poi venga formulato secondo i dati della prospettiva stessa. Il contenuto è già interno alla prospettiva, che è personale e unica dell'artista. In Pareyson abbiamo una definizione che supera quella crociana:

"Dire che la spiritualità vivente dell'artista è contenuto dell'opera d'arte è come dire che chi fa arte è una persona singola e irripetibile, la quale per formare si avvale di tutta la propria esperienza, del proprio modo di pensare, vivere, sentire, del proprio modo di interpretare la realtà e di atteggiarsi di fronte alla vita, sì che il suo "modo di formare" è, quell'unico che può avere chi pensa vive sente in quella maniera ... L'opera d'arte ha come contenuto la persona dell'artista ...di chi ha quella determinata e irripetibile spiritualità" [117]).

Spiega bene Vattimo: "Pareyson definisce il formare come quel fare che, facendo, inventa il modo di fare. ... non si inventa solo più il modo particolare di applicare una legge generale data; insieme alla regola particolare dell’operazione viene inventata anche la legge; anzi, la legge non è altro che la regola individuale dell’operazione. ... L’esigenza a cui l’opera risponde e soddisfa viene istituita dall’opera stessa" [118]). L'opera d'arte così definita nel suo contenuto (la spiritualità specifica di quell'artista) suppone non solo che l'artista veda una cosa diversa da quella che vede un altro uomo, ma che viva diversamente la stessa esperienza. Ci deve essere però un tramite perché sia possibile l'interpretazione. Solo che qui non si parla di oggetto che starebbe davanti all'artista, ma si parla di un linguaggio che si riferisce ad una esperienza personale esistenziale. Ora, come tutti i linguaggi, ovviamente anche quello artistico subisce un processo di semiosi per cuiche, come spiega Eco, "è necessario nominare il primo significante attraverso un altro significante, che a sua volta ha un altro significante, che può essere interpretato da un altro significante e così via" [119]). Ma questo processo di semiosi, questo "cattivo infinito" della riflessione, deve pur terminare in quel "qualche cosa" che qui viene definita "spiritualità dell'artista", vale a dire nella sua ontologia, nel luogo del suo essere, nel suo "vivere", costituendo la regola, pur non vincolante, anche della sua interpretazione. La semiosi quindi deve finire in una de-cisione per un significato che porta intrinsecamente una sua regola di interpretazione. Il problema, per noi, è quello di non equivocare il significato di "regola" (o di "riferimento", nel caso della semiosi illimitata), conferendogli valore di oggettività, di regola valida per tutti, anche se è vero che tutti riconosceranno se questa "regola" viene rispettata o infranta. Ad esempio, se un pianista eseguisse la celebre Marcia funebre dell’op. 35 di Chopin con lo stesso spirito della Marcia militare di Schubert, susciterebbe sicuramente qualche perplessità [120]).

Se si volesse combattere a fondo la posizione che vede il fatto esterno e indipendente dalla conoscenza, bisognerebbe invece concludere che non esiste un fatto che non sia già compreso in una particolare interpretazione, per sfuggire così il pericolo di idealismo o di realismo. Pareyson invece non pone il problema in questo modo. Implicitamente la sua concezione filosofica tende ad escludere lo sviluppo indicato dalla semiosi illimitata che, in sé, non sembra portare a conclusioni concrete. A me personalmente la semiosi illimitata sembra una ridondanza del principio di ermeneia: non mi pare che svolga altra funzione se non dimostrare in modo esasperante che interpretare significa davvero interpretare e che l'interpretazione, teoricamente, può non avere fine [121]). Ma, se davvero fosse così, perché interpretare? Andare oltre quello che produce senso e una certa "stabilità critica" mi sembra puro esercizio intellettualistico, utile forse ad allenare la mente: la necessità di riprendere il processo semiotico sorge pertanto quando la richiesta di senso non viene soddisfatta, ed è quindi tale soddisfazione la fine del processo anche se, bisogna riconoscere, questa fine non ha il carattere della stabilità, perché l'uomo non cessa mai di evolvere. Se così non fosse, se questa semiosi consistesse in un nevrotico rincorrere associazioni e significati, la nostra mente non cesserebbe di vagare, disperdendosi, non riconoscendo più come suo prodotto il pensiero di un minuto prima, non raggiungeremmo mai l'omeostasi che ci permette di integrare nella nostra coscienza il senso più profondo della nostra esperienza. In effetti questa teoria richiama una posizione realista: si parla di un "segno" che "si rivolge a qualcuno" per creare nella sua mente un segno equivalente: lo schema, mi sembra, sia quello di soggetto e Gegenstand, non di circolo ermeneutico. Questa versione dell'ermeneutica contemporanea avrebbe secondo Pareyson un vizio di fondo, quello di mettere in rapporto il soggetto con un oggetto, mentre l'interpretazione, per il nostro autore, non è un rapporto fra soggetto e oggetto, ma rapporto con l’essere. Quando un grande pianista interpreta una sonata di Mozart, poniamo la K. 545 [122]),

"... non pretendiamo ch'egli debba rinunciare a se stesso né permettiamo ch'egli voglia esprimere sé stesso: noi desideriamo che sia lui a interpretare quell'opera, sì che la sua esecuzione sia insieme l'opera e la sua interpretazione di essa" [123]).

Ciò che chiamiamo "Sonata K 545" è allora composto da tre elementi: l'opera, l'interpretazione, la nostra interpretazione dell'interpretazione che, poniamo, a sua volta può confrontarsi con altre interpretazioni mozartiane della stessa opera. Ma il processo, pur approfondito e vasto che sia, a un certo punto si ferma, se non altro perché, nella vita, ci sono altre interpretazioni da fare, se si vuol vivere. Il rapporto con la verità è dunque personale, la semiosi non ha senso se non si apre al confronto con altre semiosi, interne o esterne a me, ma, in ultima analisi, sempre mie dal momento che le vivo io. L'interprete è dunque non

"... un "soggetto" che dissolva l'opera nel proprio atto o che debba spersonalizzarsi per rendere fedelmente l'opera in sé stessa, ma è piuttosto una "persona" che sa servirsi della propria sostanza ... per penetrare l'opera nella sua realtà e farla vivere nella sua vita" [124]).

Il concetto di "persona" supera l'antitesi oggetto-soggetto, e rende inutile un'ermeneutica che si rifaccia al triangolo di Peirce. Lla persona non sa che farsene dell'assenza di limite: il suo obiettivo è piuttosto quello di attingere a un senso e, anzi, quella di individuare un limite per poterlo superare.

"Il rapporto della persona alla verità è dunque un rapporto ben più originario, giacché la persona è costituita come tale proprio dal suo rapporto con l'essere ... sì che il problema della verità è metafisico prima che conoscitivo, e impone che si faccia ricorso non alla chiusura gnoseologica propria del soggetto ma all'apertura ontologica propria della persona" [125]).

Quando il conoscere è inteso in questo senso, anche la semiosi trova riferimento nell'essere che interpreta, e non ha senso cercare una sua specificità che nulla aggiunge e nulla toglie al compito della filosofia, che è quello di rendere ragione all'essere, rapportarsi ad esso. "Ora, il recupero della verità prospettato dal Pareyson come antidoto alla morte della filosofia ... va inteso non nel senso di un recupero della verità-oggetto, bensì della verità come origine del discorso filosofico" [126]), origine che è anche un fine, un ritorno nostalgico dell’uomo al luogo (nòos) della sua origine. Il concetto di semiosi infinita, sia nell’arte che nella comunicazione (ad esempio nella comunicazione ipertestuale, che si va sviluppando proprio nel nostro tempo), è invece proprio la teorizzazione dell’impossibilità di pervenire alla verità, di possederla storicamente, e, di conseguenza, poterla trasmettere nel linguaggio come manifestazione dell’essere, come senso. In questo tipo di ermeneutica l’essere è lasciato che sia, certo, ma muto, alieno, estraneo, e perciò parmenideo, gegenstand.

1.3.2 Ermeneutica e dialettica: la crisi dello hegelismo

Il modello ermeneutico tratteggiato da Pareyson, si differenzia anche da altri modelli per i termini in cui egli elabora quel fenomeno culturale del novecento che egli chiama "la dissoluzione dello hegelismo". Questo fenomeno ha dato vita, dopo le critiche di Feuerbach, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e altri, alle molte "correnti" filosofiche dell'8-900, se non altro per reazione al sistema di Hegel. Ovviamente anche Pareyson, sin dal suo incipit come filosofo, critica il pensiero hegeliano. In sintesi:

"La filosofia hegeliana ha dunque come presupposto la pretesa di poter partire dall'essere astratto. Questo punto di partenza è una contraddizione fra l'astratto e il concreto, fra il puro pensiero e la ragione isolata da un lato e la realtà sensibile e l'insieme delle facoltà umane dall'altro: partendo dall'essere astratto la filosofia hegeliana lascia fuori di sé la vera realtà ch'è la realtà sensibile. ... al pensiero originario e concreto, ch'è la lirica della filosofia, sostituisce la mediazione formale, che non è se non filosofia drammatica e teatrale" [127]).

Al di là di una corretta critica, mi sembra invece che il tentativo di Pareyson sia quello di "salvare", per quanto possibile, ciò che di autenticamente filosofico è nello hegelismo, e di cui il pensiero moderno può ancora far tesoro, in particolare il metodo dialettico.

Iniziamo con l'individuazione di possibili legami fra il modello ermeneutico e quello dialettico. Un modello ermeneutico consiste in un approccio al reale mediato dalla precomprensione che orienta l'esperienza, integrandola e rielaborandola, come ho già detto. Al tempo stesso per renderci conto di questo carattere mediato e sempre circolare della nostra comprensione, è necessario compiere uno sforzo di carattere fenomenologico: un approccio meramente constatativo alla realtà non é possibile, e questo vuol dire che l'attività mentale, il pregiudizio che sta alla base, è in gran parte inconsapevole, si svolge in back-ground. E siccome non appare se non con un atto riflessivo, abbiamo l'impressione di essere "di fronte alle cose", e così ci esprimiamo comunemente. La coscienza non é immediatamente chiara nella propria essenza, perché in qualche modo é sempre distante dal suo oggetto. Noi abbiamo presente il conosciuto, ma non abbiamo presente il conoscente: non abbiamo presente la coscienza come fatto, ma soltanto come effetto. Abbiamo sempre presenti dei contenuti, ma non sempre abbiamo presente il fatto di sapere: l'autoriflessivitá della coscienza non é qualcosa di primario, é qualcosa di derivato. Questo aspetto è stato già individuato da Husserl e dalla sua fenomenologia: la coscienza e il pensiero sono dotati di intenzionalitá; il pensiero é pensiero di: non esiste pensiero senza oggetto, un pensiero vuoto. Il pensiero non può attardarsi su se medesimo, ma immediatamente trascende verso qualcos'altro.

Pareyson si inserisce in questa concezione precisando alcuni aspetti che accentuano la singolarità personale dell'interpretazione e dell'espressione della verità, in un paragrafo del saggio "Originalità dell'interpretazione", contenuto nella raccolta Verità e interpretazione, che egli intitola Statuto dell'interpretazione:

"... La formulazione del vero è per un verso possesso personale della verità, e per l'altro possesso di un infinito... L'interpretazione è infatti l'unica forma di conoscenza che sia capace per un verso di dare una formulazione personale e quindi plurale di qualcosa di unico e indivisibile, senza per questo comprometterne o disperderne l'unità, e per l'altro verso di cogliere e rivelare un infinito, senza limitarsi ad alludervi o girarvi intorno, ma possedendolo veramente. ...La verità si offre solo all'interno d'una sua formulazione, con cui di volta in volta s'identifica e in cui risiede sempre come inesauribile; ma svanisce il rapporto interpretativo se tra la verità e la sua formulazione l'identificazione cede il posto alla confusione, o il rapporto di ulteriorità diventa vera e propria esteriorità, perché in tali casi viene soppressa l'inseparabilità dei due termini, nel senso che o uno si mette al posto dell'altro, pretendendo di sostituirlo, o entrambi si dividono, restando senza rapporto a causa dell'inaccessibilità d'uno di essi. ... la verità è sempre ulteriore rispetto alla sua formulazione, ma solo in modo da esigere e permettere una pluralità di formulazioni, e non invece nel senso d'una sua assoluta ineffabilità, di fronte alla quale tutte le formulazioni resterebbero fatalmente inadeguate" [128]).

Se la coscienza si trascende perché é sempre volta all'altro da sé, o, come dice Pareyson, all'ulteriore, quali sono i meccanismi che favoriscono la riflessione (il sapere di sapere)? Come cogliamo direttamente l'Io? Questo avviene quando c'é uno scarto, una frattura, una tensione, una dissonanza e quindi si rende necessaria l'interpretazione, quando c'é l'errore, o quando l'attesa non viene soddisfatta e i pregiudizi con cui mi accosto al mondo vengono smentiti. É allora che in qualche modo una spiegazione va data, anche se, d’altra parte, sappiamo che tale spiegazione non può essere definitiva, poiché l'essere, e quindi la verità, è inesauribile. Altrimenti

"... l'esaltazione filosofica del mistero, del silenzio, della cifra, rischia d'essere un semplice capovolgimento del culto razionalistico dell'implicito e di conservarne tutta la nostalgia. ... L'inesauribilità è ciò per cui l'ulteriorità, invece di presentarsi sotto la falsa apparenza dell'occultamento, dell'assenza, dell'oscurità, mostra la sua vera origine, ch'é ricchezza, pienezza, ridondanza: non il nulla, ma l'essere" [129]).

La nostra interpretazione urta contro un ostacolo e prende consapevolezza di sé: allora si avverte una palese dialettica nel modello ermeneutico, che Pareyson risolve con il rimando all'ulteriore, radicando la sua sintesi nella consapevolezza dell'inesauribile, che non è quindi possibile, come invece diceva Hegel, raggiungere una volta per tutte, e non è neppure confinabile, come sosteneva Wittgenstein, nei territori dell’"indicibile" [130]) ma che pur viene guadagnato di svelamento in svelamento e "una volta per tutte".

Per dialettica si intende un modello in cui viene affidata alla contraddizione, alla negatività, al contrasto, all'opposizione, una funzione majeutica per quanto riguarda la nostra conoscenza della realtà. L'uomo pensa sempre per contrasti. E' un asserto che possiamo verificare nella percezione, ma vale anche come legge che governa la nostra attività intellettiva. Ciò che assume rilievo, lo assume per effetto di uno scontro.

Una volta che ci siamo resi conto dei nostri pregiudizi, ne consegue, come buona norma, che dobbiamo cercare appositamente e favorire proprio il ritrovamento di queste contraddizioni, di questa tensione interna fra sé e l'altro da sé. É molto importante far attenzione a non esorcizzare questo sentimento, come sembrerebbero tentati di fare gli ermeneuti del pensiero debole [131]). Quando parlerò del problema dell'unità della filosofia in Pareyson, mostrerò come questo autore abbia avuto molta cura nel seguire questo metodo di ricerca.

L'esperienza in senso stretto é dunque data proprio dal venire a contatto con la contraddizione. D’altra parte la contraddizione, per sua natura, é qualcosa che deve essere superato, altrimenti sarebbe la notte della vita psichica. É dunque necessario formulare ipotesi e congetture, per togliere la contraddizione che si é manifestata fra il sistema delle nostre azioni e quel particolare dato che si rivela in grado di falsificare, di contraddire l'ipotesi. Il nostro pensiero non deve cercare la conferma, altrimenti assumerebbe come naturale un'interpretazione dei fatti che invece é culturale e storica, scivolando nell'ideologia. Per altro verso, non è nemmeno vero che un pensiero che ci viene dalla cultura debba essere per forza di cose contraddetto dalle ipotesi. É dunque questa misura, non propria della dialettica ma dell'essere, che può guidare il pensiero.

"Identificare il pensiero espressivo con la situazione storica non significa vanificarlo, ma considerarlo nella sua "espressività" come la situazione stessa in quanto concettualizzata, e, nella sua "specificità", come parte integrante della situazione, che senza di esso non sarebbe quella che è: significa ricostruire un'unità strutturale e una totalità organica, che, mentre garantisce l'inseparabilità della coscienza dalla realtà, conserva le produzioni spirituali della loro irreducibilità e insostituibilità, al punto che s'è potuto dire che nella sovrastruttura non c'è nulla che già non fosse nella base se non la sovrastruttura stessa" [132]).

Ma un altro pensatore, oltre ad Hegel, deve a mio avviso essere preso in considerazione in riferimento alla dialettica di Pareyson, anche se il nostro autore probabilmente non pensò mai alla sua filosofia in questa prospettiva. Mentre Hegel vede la verità come il "superamento" di opposti, Eraclito, il pensatore a cui ci riferiamo, non teorizza una dialettica del superamento ma una dialettica della tensione, nella quale il superamento è la comprensione della tensione stessa. La realtà sarebbe in una stabilità dinamica, in un divenire che però è nell’immanenza di un’armonia extrateoretica, comprensibile ma non teorizzabile [133]). Se infatti per Eraclito "tutto scorre", è anche vero che la realtà è stabile, e questa posizione descrive esattamente lo stesso rapporto che si instaura fra ermeneutica ed esperienza: se la realtà è comprensibile soltanto nel suo orizzonte di volta in volta ritagliato dalla totalità, è anche vero che la realtà è una e stabile, che il divenire e la molteplicità stanno dentro la storia. Noi non sappiamo se Eraclito teorizzasse una realtà metastorica e una metafisica della trascendenza: da allusioni di alcuni frammenti possiamo intuire che il suo concetto di nòmos alluda a un principio unificatore metastorico, intelligibile ma non descrivibile "pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego" [134]). Questo concetto sembra rimandare a un Dio filosofico di cui non è possibile teorizzare, un essere soprannaturale che però, attraverso la sua legge, garantisce la stabilità delle cose. Il concetto di legge nasce probabilmente prima nella vita politica che nella filosofia. Sotto questo aspetto la mentalità razionale è sollecitata anche dalla cultura politica stessa e dalle consuetudini della vita quotidiana. Le monete infatti sono state coniate per la prima volta intorno al VII secolo. Le cose da allora si scambiano con la moneta. Cosa significa la moneta? Essa riferisce il valore economico delle cose a un principio unitario. Tutte le cose si scambiano con la moneta. Ecco allora che in questo mondo l'esigenza di unità si manifesta in più piani, economico, politico, filosofico. Era la mentalità stessa che cercava di cogliere l'unità nella vita dell'uomo. Eraclito traspone questo concetto in filosofia, quando afferma "Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e spegne secondo giusta misura" [135]) e per il quale "il tutto è governato attraverso tutto" [136]), come teorizza la cibernetica. Questo principio di unità del tutto attraverso una armonica differenziazione ha molto a che fare con la concezione dialettica di Pareyson, quando egli parla di unità della filosofia, quando espone la teoria della formatività, quando dialoga col relativismo senza mai essere relativista, quando teorizza l’ulteriorità del linguaggio e la sua allusività ad una realtà non descrivibile attraverso di esso. Sia in Eraclito che in Pareyson, ovviamente con significati diversi [137]), la realtà è comunque vista come divenire ma nello stesso tempo come unità nella libertà, come differenziazione di enti ma nello stesso tempo come essere [138]). Identità e molteplicità, in un certo senso, sono la stessa cosa e cambia soltanto la prospettiva di interpretazione. Non mi pare, come alcuni sostengono, che Eraclito neghi il principio ontologico di identità [139]), o perlomeno trovo che questa interpretazione non renda giustizia alla profondità del suo pensiero, pur convenendo che i limiti storici del pensiero filosofico del VI secolo darebbero ragione a questa tesi. Ma Eraclito, a mio avviso, è un pensatore troppo complesso per il suo tempo. Inoltre il suo lògos non è il lògos di Socrate o di Aristotele, ma risente ancora di quell’atmosfera di saggezza legata all’ispirazione sciamanica e mitica che è tipica dei presocratici. Anche in Pareyson troviamo una forte influenza del mito e della religione, come vedremo nella seconda parte di questo lavoro, ma, ovviamente, alla luce di una razionalità più sottile e più smaliziata che non si accontenta mai della "semplice" intuizione e rifiuta le spiegazioni fideistiche e teologiche in campo filosofico. Nondimeno i due autori, anche su questo punto, presentano delle somiglianze: anche Eraclito polemizzava con Omero, Esiodo, Pitagora, Senofane ed Ecateo, perché incapaci di comprendere il lògos [140]).

Senza divenire dunque, sia per Eraclito che per Pareyson, non emerge l’ente ed è impossibile il rapporto fra ente ed essere. Il divenire è un ciclo limitato, ma nello stesso tempo trascende il tempo che lo racchiude, perché il divenire è divenire dell’ente e rap