Parmenide
Si chiarisce così positivamente cosa significhi noèin nel poema. Senz’altro non "pensare", o addirittura "pensare" in contrapposizione al vedere del "dato in carne ed ossa" (per dirla con Husserl). Non si tratta di quel che si può pensare. Non è una mera pensabilità quel che il poema intende. È già meglio, poiché non occulta completamente le intenzioni di Parmenide, rendere noèin con "riconoscere"; vi appartiene almeno l’essere del riconosciuto, il suo esser reale e vero. Nel frattempo, abbiamo appreso dalle ricerche di Kurt von Fritz, estremamente accurate per quanto riguarda la storia delle parole e dei concetti, quale sia l’originario ambito d’impiego e il campo semantico di noèin.(1) Secondo l’originario uso della parola, noèin appare press’a poco come il fiutare [Wittern] del capriolo che "scova" qualcosa, nel senso di "qui c’è qualcosa". Questo è il modo in cui l’animale selvatico localizza il pericolo; certo non riconosce ciò di cui si tratta e tuttavia sente che lì "c’è" [‘ist’] qualcosa, ed è una percezione molto sottile, tanto che è totalmente celata agli altri. Così, ad esempio, possono utilizzare questa parola Democrito per la conoscenza degli atomi o Platone per l’intuizione e l’astrazione matematica, mentre infine Aristotele sottolinea nelle sue analisi concettuali, che così volentieri risalgono all’uso linguistico originario, che il nùs consiste nel thingànein, nell’immediatezza del trovare [Treffen] e del toccare [Anrühren] qualcosa, che è cosa diversa dall’enunciare una proposizione su qualcosa.(2) Ma in questo elenco si dovrebbe aggiungere ancora Anassagora, e così rendere fecondi per la formazione dei concetti filosofici i risultati delle ricerche di von Fritz circa la storia dei concetti. Notoriamente, come c’insegna appunto la critica che Platone rivolge nel Fedone ad Anassagora, il nùs è pensato da Anassagora come una materia finissima che raggiunge e penetra tutto. Esso, per così dire, annusa tutto perché è presente in tutto, senza mai essere mescolato con alcuna cosa. In ogni caso, questa storia del concetto insegna come tutto ciò dovesse esser prossimo al pensiero delle origini, quando ha dovuto decidere tra pensiero dell’essere e pensiero del nulla, rappresentandosi l’essere come questa sfera d’essere in sé piena, omogenea ed immutabile, nella quale sempre ci s’imbatte [auf das … trifft], quando ci si imbatte in qualcosa.(3)
Qui non siamo ancora nell’ambito di costruzioni concettuali astratte, bensì in un pensare fortemente intuitivo, nel quale parole della lingua viva vengono caricate di un nuovo contenuto. È discorso mitico, non solo a causa della sua forma in versi, ma anche a causa del suo legame con l’intuizione. È quasi come quel che in Platone conosciamo come la prossimità e la reciproca apertura di lògos e m?thos. Quel che appartiene alla linea del suo pensiero, e quindi delle sue intenzioni, e anche quel che poi lo supera, trova un’espressione e una collocazione più alta, per così dire, nell’aldilà di un mondo evocato e reso presente solo a partire dal m?thos, dal "racconto". Così, il "pensare" l’essere come sfera omogenea è come un’esposizione dell’indicibile acquisizione che il nulla non è. Tutto il testo, conservato a quanto pare senza lacune, nel quale la tesi dell’essere viene sviluppata come estrapolazione di tale posizione in una realtà descrivibile, riceve a partire da queste considerazioni un chiaro principio compositivo. Sono tutti segni, sèmata, quelli disseminati sulla via della verità. Difficilmente lo si può respingere attraverso il parallelo in sé grazioso, addotto da W. Bröcker, con i detti che segnano una strada sacra.(4) A favore di quest’ipotesi, niente parla nel poema; piuttosto si parla della difficoltà di mantenere la via e di non sviarsi inavvertitamente nell’impercorribile. Nel mondo di allora la circolazione aveva bisogno proprio di segnavia come quelli che noi oggi conosciamo sulle piste da sci. I fr. VI e VII mostrano chiaramente che i mortali sono costantemente esposti alla minaccia di deviare dalla via della verità. […]
Il fr. III mi ha provocato grossi dubbi. La frase è difficile da ricostruire:
Tò gàr autò noèin estìn te kài èinai
"è lo stesso: esti noèin e esti èinai, il fatto che si percepisca e il fatto che ci sia realmente qualcosa che si percepisce". Attraverso il te kài, noèin e èinai sono intimamente collegati, e questo collegamento è espresso attraverso il tò autò.
Ora, l’attestazione di questo frammento non è affatto buona. È di nuovo il dotto Clemente colui che in questo caso viene seguito da Plotino e Proclo. Ma, in realtà, entrambi citano solo a causa della differenza tra àisthesis e noèin. Questo è tutto. Così, per me è illuminante il suggerimento di A. Marsoner, il quale dubita della genuinità di questo testo.(5) Il verso è senza dubbio un verso incompleto e suona piuttosto come una ricapitolazione molto pregnante della dottrina di Parmenide che era sotto gli occhi di Clemente e che in realtà è stata sviluppata solo a partire dal fr. VIII.34 sgg.
In ogni caso, è una relazione della quale esistono tutt’altre indicazioni quella che lega insieme i fr. VI, VII e VIII. Questo gruppo rappresenta una ragionevole composizione unitaria. Subito prima della fine della parte introduttiva il più importante fra tutti i segnali sarebbe, per così dire, incorniciato da due altre proposizioni. Quel che sta al centro è il segnale principale per l’essere. Essere è solo dove noèin si imbatte in qualcosa [auf etwas stößt], lo si renda con "percepire" [Vernehmen] o "cogliere" [Annehmen] o "toccare qualcosa" [An-etwas-Rühren]. In ogni caso, è chiaro che il nulla non può esser percepito in questo modo e che dove qualcosa viene percepito c’è qualcosa, essere e non nulla. Si direbbe quasi che l’essere è "posto" [›gesetzt‹], all’incirca come nella synkatàthesis degli Stoici.
Involontariamente, si è portati ad esprimersi in questo modo; non si dovrebbe, o al limite lo si potrebbe fare solo a proposito del passaggio alla seconda parte del poema. Lì "porre" ha il senso buono di stabilire una convenzione di nomi. Lì si può parlare di "porre". Ma dedurre da un segno per l’essere, segno che esclude il nulla, che qui abbia luogo un porre essere, è il linguaggio dell’Idealismo tedesco, che qui non c’entra niente. Così il principio "la stessa cosa è pensare ed essere" – che numeriamo come fr. III – è stato recepito dalla filosofia dell’identità, propria dell’Idealismo tedesco, come un sigillo; e nella ricezione successiva questo principio dell’identità è sempre stato posto in primo piano come tale.(6)
Il presumibile modello del fr. III sono i versi VIII.34 sgg. Anche quest’ultimo ha le sue difficoltà, ma il senso è chiaro. Tautòn d’ estì noèin te kài hùneken èsti nòema: "Entrambi sono la stessa cosa: è, in modo tale che si percepisce, ed è, il fatto che ciò che si percepisce è". In altre parole, viene espressa un’identità di percepire ed essere, e non una sorta di essenza dell’identità. A mio parere, ciò è indiscutibile. […]
L’indivisibilità di noèin e èinai, che in realtà è l’oggetto dell’argomento, si conferma anche successivamente: "non senza l’essente troverai il noèin".
Evidentemente, questo intende essere un segno per l’essente. Essere è sempre ove possa esservi reale percezione e non questa sorta di vuoto nulla. La struttura dell’argomento resta difficile. In ogni caso, non è il noèin quel che realmente viene cercato. Anche qui si tratta dell’esti e dell’eòn. Così, mi appare davvero artefatta la traduzione di quasi tutti gli esegeti: "non senza l’essente, nel quale esso è pronunciato, troverai il pensiero". Pronunciato sarebbe il pensiero? Non lo è forse l’essere, quando viene pensato? E nella negazione (fr. II.7) sarebbe riconosciuto e pronunciato il non essere? Non è forse questo l’argomento indispensabile?
Senza alcun dubbio, se si considera la costruzione del verso. Il v. 35 non rivela affatto un’anticipazione del v. 36.(7) Così, l’ascoltatore di questo esametro ben costruito intende inevitabilmente che il pronunciato è l’essere.
Dunque, l’ascoltatore intenderà lo "in cui" (en hò) in un senso indeterminatamente temporale, che in greco è del tutto usuale, quasi nel senso di "mentre" [während] (o anche del tedesco "indem") il tò eòn viene pronunciato, ossia c’è. Il senso è dunque: dove c’è noèin, lì c’è essere. In tal misura, noèin e essere sono la stessa cosa, cioè inseparabili. L’essenziale è che in tutti questi segnavia ci sia essere. Con questo concorda l’esplicito prosieguo con tò eòn. È di questo che si parla e non di noèin. Si parla dell’immutabile, presente essere, trovato con l’aiuto del noèin. Perciò ci si vede anche costretti, per dare un senso al tutto, a tradurre noèin non con "pensare", bensì con "riconoscere" [Erkennen]; ed io ho suggerito addirittura "imbattersi in esso" [Auf-es-Stoßen] o "incappare in esso" [Es-Ausmachen], o ancora "percepire" [Vernehmen]. Laddove c’è percepire, lì è scorto [wahrgenommen] l’essere. L’abitudine che ci deriva da altri usi linguistici e che ci fa parlare di essere e non essere, cambiamento di luogo e colore che svanisce, non costituisce una percezione dell’"essere" [fr. VIII.38-41]. Abbiamo già visto che tutto ciò ha il carattere di mero "ònoma", poiché quel che viene nominato non può esser realmente percepito, non può esser preso per essere. Infatti, sorgere, svanire e così via recano necessariamente con sé il non-pensiero del nulla, e ugualmente l’insieme "èinai te kài uchì", legato da te kài.
Note
(*) Il testo è una selezione di passi dal volume di H.-G. Gadamer, Scritti su Parmenide, a cura di Carlo Saviani, Filema, Napoli 2002 (pp. 76-78, 80-82, 85-86). La traslitterazione dal greco qui adottata è semplificata e l’accento, sempre grave, nei dittonghi è posto sulla prima vocale.
(1) Ora in Um die Begriffswelt der Vorsokratiker, cit., pp. 246-363. [Alle analisi filologiche di von Fritz, che confermano le ipotesi etimologiche di Schwyzer circa "una radice snu (alto ted. medio: "snöuwen"; ted.: "schnuppern")" (cf. ivi, p. 273), va riferito anche il seguente passo di Heidegger: "Nòos e nùs originariamente non significano ciò che più tardi emerge come ragione; nòos significa il sentire (Sinnen) che ha in mente e si prende a cuore qualcosa. Così noein significa anche ciò che noi chiamiamo fiuto (Witterung) e fiutare (wittern); il nostro uso di queste parole è tuttavia limitato agli animali (…). Il fiuto umano è il presagio (Ahnen)." (Was heißt Denken, Tübingen 1954, p. 172; tr. it., Che cosa significa pensare?, II, Milano , 1979, p. 147.]
(2) Sul "significato fondamentale per il pensiero della filosofia attica" della "coappartenenza di pensiero ed essere, l’eleatica intuizione originaria (Urintuition)", cf. Über das Göttliche im frühen Denken der Griechen, cit., p. 169, dove Gadamer, ricordando il senso figurato che Aristotele assegna al thingànein come "toccare con mano", impiega per noèin la parola tedesca "Innesein", "avvedersi".
(3) Sull’originario senso del noèin, vd. anche H.-G. Gadamer, L’inizio della filosofia occidentale, (1988), Milano 1993 (il testo citato qui di seguito tiene conto delle modifiche apportate dallo stesso Gadamer nella tr. ted., Der Anfang der Philosophie, Stuttgart 1996): "Noi traduciamo questo termine con "pensare", ma dobbiamo ricordare che il suo significato primario non è lo sprofondare in se stessi, la riflessione, bensì al contrario la pura apertura a tutto; non è un chiedersi che cosa è questo, ma è l’affermare che c’è qualcosa. La sua etimologia ci riporta al sentire (Gespür) dell’animale che, attraverso il fiuto (Witterung) e senza alcuna percezione più precisa, avverte la presenza di qualcosa" (pp. 123-124; tr. ted., pp. 143-144); "Volendo usare un termine della Scolastica, si potrebbe dire che il problema è quello della "haecceitas". Questo problema lo ritroviamo nella heideggeriana "questione dell’essere", ma possiamo vederlo già molto prima, nel noèin di Parmenide, e anche in Aristotele, il quale connette il noèin con il thingànein, il toccare (Berühren): l’immediatezza del percepire, in cui non c’è alcuna distanza tra il percepire e il percepito. Anche noi, peraltro, diciamo che si sente un odore o che si sente odore di qualcosa, prima ancora di dire, riflessivamente, che un determinato naso avverte questo o quell’odore. Quando intervengono le parole e i concetti, non c’è più spazio per questa immediatezza." (p. 131; tr. ted., p. 151). Al rapporto tra il noèin parmenideo e la "verità della parola" Gadamer accenna in Denken und Dichten bei Heidegger und Hölderlin (1988), ora in GW, 10, 1995, p. 80.
(4) W. Bröcker, Die Geschichte der Philosophie vor Sokrates, Frankfurt a.M. 1965, p. 60.
(5) A. Marsoner, La struttura del Proemio di Parmenide, in "Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici" V, 1976/78, Napoli 1980, p. 175.
(6) Cf. quanto già diceva Riezler nel suo Parmenides: "Questa proposizione vale nella storia della filosofia come principio dell’identità di pensiero ed essere, come prima e più originaria fondazione dell’Idealismo. Ma interpretare non significa inserire nei cassetti di una successiva storia della filosofia, i cui titoli sono meri nomi, il cui senso è più esanime ed equivoco delle proposizioni che con questi nomi dovrebbero essere interpretate.". Ma, prosegue Riezler, in Parmenide "il noèin non è in alcun caso il pensare in quanto porre. Esso è il riconoscere come cogliere, scorgere, scoprire, percepire: nel noèin si aggiunge al percepire la comprensione interiore del percepito. Come tale, il noèin sta in uno speciale, intimo rapporto con lo èinai." (p. 64; II ed., p. 60).
(7) Il riferimento è a Fränkel; vd. supra, Parmenide nell’interpretazione di Kurt Riezler, n. 12. Lo stesso appunto a Fränkel è rivolto da von Fritz (op. cit., p. 308), che nel ribadire l’inseparabilità di noèin e eòn richiama l’interpretazione di Riezler.