PATRONE EPICUREO
Per capire chi fosse Patrone Epicureo è opportuno leggere – data la scarsità di documenti che su di lui abbiamo - la lettera di Cicerone (Ad familiares XIII, 1), in cui l’Arpinate, a nome dei filosofi
epicurei Patrone e Fedro e dello stesso Pomponio Attico,
pregava vivamente C. Memmio, che aveva acquistato il terreno,
di risparmiare la casa di Epicuro e il luogo in cui grandissimi
uomini avevano abitato e camminato:
“Con Patrone Epicureo io ho tutto in comune, tranne
che in filosofia, nella quale discordo fortemente da lui. Ma
già all’inizio, a Roma, quando osservava te e tutti i tuoi, si
curò di me soprattutto, e ultimamente, quando ottenne
quei vantaggi e premi che volle, mi considerò quasi il
primo fra i suoi difensori e amici; inoltre, mi fu raccomandato
anche da Fedro (che, quando ero fanciullo e prima
che conoscessi Filone, stimavo molto come filosofo, e, successivamente,
se non come filosofo, certo come uomo one-sto,
piacevole e cortese). Questo Patrone, dunque, mi
aveva già scritto a Roma di conciliarlo con te e che ti chie-dessi
di concedergli non so quali famose rovine della casa di Epicuro (nescio quid illud Epicuri parietinarum sibi concederes).
Io, però, non te ne scrissi nulla, perché non volevo
che il tuo progetto di costruzione (aedificationis tuae
consilium) fosse ostacolato dalla mia raccomandazione. Ma
il medesimo Patrone, giunto che fui ad Atene, avendomi di
nuovo pregato di scriverti sulla stessa questione, riuscì nel
suo intento, perché fra i tuoi amici si dava per certo che tu
avessi abbandonato quel tuo progetto di costruzione. Se
questo è vero e se della faccenda non te ne importa più
nulla, io vorrei che tu, se nell’animo tuo è nato qualche
risentimento con lui a causa della perversità di alcuni (giacché
io conosco bene quella gente), tu ti rappacificassi, o
per la tua suprema benignità o per fare a me questo favore.
Per la verità, se vuoi sapere qual è il mio parere, non
vedo né la ragione per cui egli debba insistere così tanto in
questa richiesta, né la ragione per cui tu debba opporti,
per non dire che a te molto meno che a lui conviene dibattersi
senza ragione. Infatti sono certo che tu sai che cosa
Patrone domanda e su che cosa si fonda. Egli dice che
deve mantenere il suo onore, a suo dovere, il rispetto del
testamento, l’autorità di Epicuro, la richiesta di Fedro, la
sede, l’abitazione e le vestigia di uomini sommi (honorem,
officium, testamentorum ius, Epicuri auctoritatem, Phaedri
obstentationem, sedem, domicilium, vestigia summorum
hominum sibi tuenda esse dicit). Orbene, se noi volessimo
biasimarlo per questa sua insistente richiesta, dovremmo
altresì deridere il tenore della sua vita e la dottrina filosofica
che segue. Orbene, in verità, dal momento che a lui e
agli altri di quella setta noi non siamo troppo nemici, non
so perché non gli si debba perdonare tanta insistenza: se
anche eccede in questa, eccede più per leggerezza che per
cattiveria. Ma, per non andare per le lunghe (giacché bisogna
pure che io lo dica una buona volta), io voglio bene a
Pomponio Attico come ad un fratello. Nessuna cosa mi è
più cara e più dolce di lui. Egli, non perché sia uno di loro
[scil.: degli Epicurei), giacché possiede perfettamente tutte
le scienze liberali, ma perché ama molto Patrone e amò
molto Fedro, si dà da fare per ottenere questo da me, lui
che è un uomo per nulla ambizioso né insistente, più di
quanto non abbia mai fatto. Non dubita che io possa ottenere
questo da te con un solo cenno, anche se tu avessi
ancora l’intenzione di fabbricare. Ma ora, se egli saprà che
tu hai deposto l’intenzione di fabbricare e che, ciononostante,
io non ti ho fatto la sua richiesta, non riterrà che tu
sia stato scortese nei miei confronti, ma riterrà che io sia
stato negligente nei suoi confronti. Per la qual cosa io ti
chiedo che tu scriva ai tuoi che quel decreto degli
Areopagiti, che essi chiamano memoriale, per tua volontà
sia annullato. Ma ritorno da capo. Vorrei che, prima di far
questo, tu ti persuada di farlo volentieri per causa mia. E
tieni per certo che, se farai questo che ti chiedo, mi farai
cosa gratissima. Sta’ bene".
Da questa lettera emerge chiaramente ciò che abbiamo
già sopra anticipato, ossia, con ogni probabilità, che il Giardino
era stato chiuso e che i membri della Scuola si erano dispersi.
Patrone agisce e parla come se fosse un ex-scolarca, che
tenta ad ogni costo di salvare almeno i luoghi in cui era
sorta la Scuola dalla totale distruzione. Il fatto che subito
dopo il 51 a.C. non si abbiano più notizie di scolarchi del
Giardino conferma questa ipotesi.
La crisi della Scuola epicurea ad Atene, probabilmente,
durò a lungo e si protrasse, forse, anche per gran parte del
I secolo d.C.
Da alcune testimonianze del neopitagorico Numenio e
dell’aristotelico Aristocle sembra potersi ricavare che il
Giardino nel II secolo d.C. sussisteva come istituzione e
che, dunque, era rinato.
In ogni caso, questo si ricava senza dubbio da alcune
iscrizioni pervenuteci, le quali dimostrano come venissero
nominati «diadochi» della Scuola epicurea in Atene nel II
secolo d.C.
Ben si comprende, pertanto, come Diogene Laerzio, che
visse nella prima metà del III secolo d.C., abbia potuto, fra
le varie prove attestanti la probità di Epicuro e della filosofia.