A cura di Fabrizio Cerroni
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Chaïm Perelman nasce a Varsavia il 20 Maggio 1912 da una famiglia ebraica.
Nel 1925 si trasferisce in Belgio dove compie i propri studi, ottenendo una prima laurea in legge nel 1934, e poi, dopo una dissertazione sul filosofo e matematico Gottlob Frege, una seconda laurea in filosofia nel 1938, entrambe all’Université Libre di Bruxelles. Della stessa diventerà professore l’anno successivo, e vi insegnerà fino al 1978.
Inizialmente Perelman si è occupato di logica matematica, argomento al quale ha dedicato due saggi: Les Paradoxes de la Logique del 1936, e Une Solution des Paradoxes de la Logique et ses Consequence pour la Conception de l’Infini del 1937.
Successivamente si è occupato della teoria del diritto e della giustizia nel cui ambito si è interessato specialmente al problema dei giudizi di valore. Frutto di questo studio è il saggio De la Justice pubblicato nel 1945.
Nel 1948 inizia la sua collaborazione con la specialista di psicologia sociale Lucie Olbrechts-Tyteca, che frutterà due opere: Retorica e Filosofia (1952), la quale costituisce una sorta di introduzione al più completo ed importante Trattato dell’Argomentazione. La Nuova Retorica (1958). In questi saggi, che testimoniano l’allargamento delle ricerche di Perelman, dalla filosofia del diritto all’intero ambito delle scienze umane e dei problemi della comunicazione sociale, viene elaborata la teoria dell’argomentazione.
Alla luce della nuova retorica, Perelman torna ad occuparsi di diritto, innanzi tutto ripubblicando nel 1963 il trattato De la Justice, integrato con altri saggi nel frattempo pubblicati sulla giustizia e la ragion pratica. Ma soprattutto attraverso l’elaborazione di nuove opere: Diritto, Morale, Filosofia (1968) in cui approfondisce la natura del ragionamento giuridico ed i suoi legami con la filosofia; Campo dell'Argomentazione. Nuova Retorica e Scienze Umane (1970); Logica Giuridica e Nuova Retorica (1976); Il Dominio Retorico (1977); Introduzione Storica alla Filosofia Morale (1980).
Perelman è stato nominato membro dell’Accademia Reale del Belgio, dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg, nonché socio dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche dell’Institut de France. Inoltre è stato nominato dottore honoris causa delle Università di Firenze, di Gerusalemme e della McGill di Montreal. Infine, ha fondato la Société Belge de Logique et de Philosophie des Sciences; il Centre National belge de Recherche et de Logique, nonché una scuola di filosofia del diritto.
Perelman è morto a Bruxelles per un attacco di cuore il 22 gennaio1984.
IL PENSIERO
Perelman è stato uno dei più importanti e conosciuti filosofi belgi. Allievo di Dupréel, ne riprende la critica del positivismo e la riflessione sui valori. La sua ricerca ruota intorno a due assi: la nuova retorica ed il ragionamento giuridico. In entrambi, Perelman ha analizzato il problema dei giudizi di valore, giungendo alla conclusione che la logica che li muove non possa essere compresa nell’ambito della filosofia occidentale post-cartesiana a causa della sua ristretta concezione della razionalità.
Difatti, tale concezione, nata con Descartes e sviluppata in seguito dai logici e dai matematici, considera razionale solo ciò che, per il suo carattere necessario ed apodittico, si impone a tutti con la forza dell’evidenza. Questa certezza è considerata il corollario di una dimostrazione astratta od empirica e produce il proprio effetto di verità esprimendosi in idee chiare e distinte.
In questo modo, ciò che è soltanto probabile, verosimile, incerto o confuso, è posto intrinsecamente fuori dall’ambito della ragione. Però, sostiene Perelman, è solo in questo campo del preferibile che avviene il confronto etico sui valori, sulla cui base vengono prese le scelte che portano all’azione. L’effetto della limitazione cartesiana è, dunque, che questo vastissimo campo nel quale si dispiega la libertà umana, sprofonda nel dominio della suggestione, della violenza, del fondamentalismo, del dogmatismo, ossia dell’irrazionale.
È per opporsi a questa deriva che Perelman, con la collaborazione di Lucie Olbrechts-Tyteca, elabora la nuova retorica (o teoria dell’argomentazione). Tale teoria, che, come afferma Norberto Bobbio, è una delle tesi più feconde degli ultimi anni, è esposta in forma compiuta nel Trattato dell’Argomentazione. Il suo oggetto è «lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso» (Trattato dell’Argomentazione): la finalità della nuova retorica è, dunque, quella di recuperare le argomentazioni usate nel discorso persuasivo nella sfera della razionalità, attraverso l’estensione di quest’ultima espressa dalla nozione di ragionevolezza, la quale comprende tutte le idee sostenute dagli uomini indipendentemente dal grado di adesione dagli stessi manifestato. La ragionevolezza pertanto non riguarda solo le conoscenze evidenti e necessarie, ma tutte quelle semplicemente verosimili, per le quali, non esistendo certezza oggettiva, l’adesione può essere ottenuta solo attraverso l’argomentazione (la quale si oppone così alla dimostrazione).
Questa teoria è debitrice delle teorie di Aristotele, il quale postulava una “logica in situazione”, capace di tener conto del rapporto tra oratore ed uditorio. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, ossia che ogni argomentazione è determinata dalla necessità di stabilire un contatto mentale con l’uditorio al quale si rivolge, che, per Perelman, si basa il legame tra vecchia e nuova retorica. Ogni argomentazione è predisposta e sviluppata dall’oratore tenendo conto (consciamente o inconsciamente) dei mezzi più adatti per persuadere il particolare uditorio cui si rivolge. Per questo è possibile affermare che è l’uditorio a determinare la qualità dell’argomentazione.
Il concetto di uditorio è dunque centrale per la nuova retorica. Esso implica che ogni argomentazione abbia un carattere relativo. Tale relatività è alla base della distinzione proposta da Perelman tra le filosofie prime che pongono princìpi ritenuti assolutamente veri, cosicché la loro messa in questione comporta la perdita di validità di tutta la filosofia; e filosofie regressive, le quali, al contrario, considerano i propri assiomi come risultati di una situazione particolare e determinata: se questa si modifica, anche i princìpi andranno rivisti.
Poiché il “campo del preferibile” è quello proprio delle controversie sui valori, ne segue che la nuova retorica ha immediate implicazioni pratiche. Giacché questo è il campo della scelta fra soluzioni alternative, situazione intermedia tra la violenza che interrompe ogni argomentazione e la dimostrazione che impone una conclusione univoca al ragionamento. Per cui la nuova retorica investe i settori dell’etica, del diritto, della politica, della filosofia e delle scienze umane. La nuova retorica consente di recuperare questi settori ad una razionalità persuasiva, che non si imponga in modo assoluto ma lasci la libertà del dubbio, indispensabile per creare un clima di discussione aperto e democratico, estraneo sia al dogmatismo che allo scetticismo, i quali altro non sono che due facce della stessa medaglia; ma estraneo anche ai mezzi persuasivi irrazionali come la violenza del fondamentalismo, o la suggestione della pubblicità e della propaganda.
Sono importanti le implicazioni per la filosofia del diritto, la quale per Perleman si basa sul principio: “la logica giuridica non è la logica formale”; principio che gli è valso la definizione di antiformalista. Il ragionamento giuridico dovrà basarsi anch’esso sull’argomentazione, di modo che il giudice, sempre nel rispetto della legge, tenga conto anche dei valori esistenti nella società, in modo di arrivare a decisioni condivise da tutte gli uditorii, e che rappresentino una sintesi tra diritto ed equità.
La nuova retorica apre la strada a una scelta responsabile ed impegnata, unica possibile manifestazione sociale della libertà, che sia contraria ad ogni autoritarismo, nel riconoscimento che non esistono verità assolute, e si sviluppi nelle istituzioni democratiche.
«Solo l’esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario, dà un senso alla libertà umana, condizione per l’esercizio di una scelta ragionevole» (Trattato dell’Argomentazione).
«La pubblicazione di un’opera dedicata all’argomentazione e la ripresa in esso di un’antica tradizione, quella della retorica e della dialettica greche, costituiscono una rottura rispetto ad una concezione della ragione e del ragionamento nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli» (Trattato dell’Argomentazione). Con queste parole si apre l’introduzione al Trattato. Esse mostrano il progetto della teoria dell’argomentazione: l’ampliamento del concetto di ragione, limitato dalla filosofia post-cartesiana al razionale puro (enunciati evidenti o necessari), per includervi l’ambito del ragionevole.
Perelman critica la concezione nata con Cartesio e fatta propria dai positivisti per i quali il probabile equivale al falso, e la conoscenza scientifica può derivare esclusivamente dall’esistenza di concetti chiari, distinti ed inoppugnabili. Infatti, fu Descartes «per cui l’evidenza era il marchio della ragione a non voler tenere per razionale che le dimostrazioni capaci di estendere, a partire da idee chiare e distinte, e mediante prove apodittiche, l’evidenza degli assiomi a tutti i teoremi. Il ragionamento more geometrico fu dunque il modello proposto ai filosofi desiderosi di costruire un sistema di pensiero che potesse avere dignità di scienza» (ibid.). Secondo questa concezione, la scienza razionale deve basarsi sul modello della dimostrazione, la quale porta necessariamente a un consenso unanime. La scienza razionale, secondo questa impostazione, deve dunque configurarsi come «un sistema di proposizioni necessarie che s’imponga a tutti gli esseri ragionevoli, e sulle quali l’accordo sia inevitabile. Ne risulterà che il disaccordo è segno d’errore» (ibid.). Nata con Cartesio, «questa tendenza s’è ulteriormente accentuata da quando, sotto l’influenza dei logici-matematici, la logica è stata limitata alla logica formale, cioè allo studio dei mezzi di prova utilizzati nelle scienze matematiche. Ne risulta che i ragionamenti estranei al campo puramente formale sfuggono alla logica e, per conseguenza, alla ragione stessa» (ibid.).
Questa tendenza ha la colpa di confinare nell’ambito dell’irrazionale, territorio della suggestione o della violenza, tutto ciò che esorbita dagli stretti limiti del razionale puro. «A noi sembra, invece, che si tratti di una limitazione indebita e del tutto ingiustificata del campo in cui interviene la nostra facoltà di ragionare e di provare. […] La concezione post-cartesiana della ragione ci obbliga a far intervenire degli elementi irrazionali ogni volta che l’oggetto della conoscenza non sia evidente» (ibid.). Tale concezione si basa su di una visione dicotomica dell’uomo al quale vengono attribuiti «passioni ed interessi capaci di opporsi alla ragione» (ibid.). Ma tale distinzione «è fondata su un errore e conduce ad un vicolo cieco. L’errore sta nel concepire l’uomo come costituito di facoltà completamente separate; il vicolo cieco consiste nel togliere all’azione fondata sulla scelta ogni giustificazione razionale, rendendo così assurdo l’esercizio della libertà umana» (ibid.).
Al contrario, la teoria dell’argomentazione nasce dalla consapevolezza che, accanto alle dimostrazioni analitiche, esistono le prove dialettiche concernenti il verosimile, il quale si caratterizza così per l’assenza di prove certe ed inoppugnabili. «Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui quest’ultimo sfugge alle certezze del calcolo» (ibid.). È questo il campo del discorso retorico attraverso il quale l’oratore cerca di persuadere l’uditorio all’accettazione di una tesi determinata.
L’oggetto della teoria dell’argomentazione è, dunque, «lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso» (ibid.), studio non limitato, come quello cartesiano ai casi in cui tale consenso è caratterizzato dall’evidenza. Si tratta di un campo molto ampio comprendente le argomentazioni dei filosofi, politici, avvocati, giornalisti.
L’adesione alla retorica che caratterizza la teoria dell’argomentazione «mira a sottolineare il fatto che ogni argomentazione si sviluppa in funzione di un uditorio» (ibid.). A fronte di quest’analogia con la retorica antica, ci sono anche importanti differenze. Infatti, mentre questa era soprattutto l’arte di fare discorsi pronunciati di fronte a un pubblico, la nuova retorica si occupa, invece, della struttura dell’argomentazione, studiando i mezzi discorsivi per ottenere il consenso.
Il Trattato si divide in tre parti:
I. QUADRI DELL’ARGOMENTAZIONE. Specifica gli elementi della teoria dell’argomentazione.
II. BASE DELL’ARGOMENTAZIONE. Si occupa delle formalità e degli elementi utilizzati per predisporre ed argomentare il discorso.
III. TECNICHE ARGOMENTATIVE. È la parte più ampia che illustra alcuni argomenti che possono essere utilizzati nei discorsi persuasivi sulla base di una ricchissima documentazione raccolta dagli autori.
La prima parte si apre con la distinzione tra dimostrazione ed argomentazione. Mentre la prima si caratterizza per il suo carattere necessario, la seconda lascia all’uditore la possibilità del dubbio. «Quando occorre dimostrare una proposizione, è sufficiente indicare in base a quali procedimenti essa possa essere ottenuta come ultima espressione di un seguito di deduzioni, i cui primi elementi sono forniti da chi ha costruito il sistema assiomatico all’interno del quale la dimostrazione viene effettuata. Da dove provengano questi elementi, se siano verità impersonali, pensieri divini, risultati dell’esperienza o postulati dell’autore, è questione che il logico formalista considera come estranea alla sua disciplina. Quando invece si tratta di argomentare, di influire cioè per mezzo del discorso sull’intensità dell’adesione di un uditorio a determinate tesi, non è più possibile trascurare completamente, considerandole irrilevanti, le condizioni psichiche e sociali in mancanza delle quali l’argomentazione rimarrebbe senza oggetto o senza risultato. Ogni argomentazione mira infatti all’adesione delle menti e presuppone perciò l’esistenza di un contatto intellettuale» (ibid.). Per questa ragione, nell’ambito dell’argomentazione gioca un ruolo fondamentale il rapporto con l’uditorio, e questa prima parte dell’opera è quasi interamente dedicata alla sua analisi.
Fase preliminare a qualsiasi argomentazione è dunque la ricerca di una comunanza spirituale con l’uditorio al quale ci si rivolge, contatto delle menti, come lo chiamano gli autori, il quale non è affatto spontaneo.
L’uditorio è definito come «l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione» (ibid.). L’oratore deve sempre avere presente l’uditorio al quale si rivolge, non solo nella predisposizione, ma anche nello svolgimento del discorso, se vuole raggiungere il proprio fine persuasivo. «La conoscenza dell’uditorio che ci si propone di convincere è dunque condizione preliminare di ogni argomentazione efficace» (ibid.).
Tale conoscenza implica, per poter essere efficace, anche quella dei mezzi più idonei per agire sull’uditorio stesso in modo da persuaderlo. Questa azione è definita condizionamento. «Conoscere l’uditorio significa pure sapere, e come il suo condizionamento possa essere assicurato e quale sia, in ogni singolo istante del discorso, il condizionamento attuato» (ibid.).
Le principali forme di condizionamento sono non-linguistiche, tuttavia ve ne è anche una discorsiva che consiste nel «continuo adattamento dell’oratore al proprio uditorio» (ibid.). Ciò implica che è l’uditorio a determinare la qualità dell’argomentazione. «L’importante nell’argomentazione non è sapere che cosa l’oratore consideri vero o probante, ma quale sia l’opinione di coloro ai quali si rivolge. […] Spetta in realtà soprattutto all’uditorio il compito di determinare la qualità dell’argomentazione e il comportamento dell’oratore» (ibid.).
Il convincimento ed il condizionamento potrà riuscire nei confronti di un uditorio particolare od universale. In questa prospettiva, gli autori elaborano la distinzione tra persuasione e convincimento. «Ci proponiamo qui di chiamare persuasiva l’argomentazione che pretende di valere soltanto per un uditorio particolare, e di chiamare invece convincente quella che si ritiene possa ottenere l’adesione di qualunque essere ragionevole» (ibid.). A differenza della concezione tradizionale (propria ad esempio di Blaise Pascal e Immanuel Kant) che vuole basare questa distinzione su basi oggettive e nette, Perelman mostra come questa distinzione dipenda in realtà dall’uditorio, e pertanto deve rimanere imprecisa.
Gli autori distinguono tre diversi tipi di uditorii: l’uditorio universale costituito da tutta l’umanità; l’interlocutore nel caso del dialogo; lo stesso soggetto nel caso del monologo.
L’uditorio universale non ha esistenza oggettiva ma è una costruzione propria di ogni individuo e di ogni cultura. Esso può essere considerato tale quando «chi non ne fa parte potrà, per ragioni legittime, non essere preso in considerazione» (ibid.). L’uditorio universale fornisce all’oratore una importante soluzione nel caso in cui non riesca a suscitare un consenso unanime. «Se l’argomentazione rivolta all’uditorio universale e considerata atta a convincere non convince tutti resta sempre la possibilità di squalificare il recalcitrante, considerandolo stupido o anormale» (ibid.). L’uditorio universale è tale solo per chi gli riconosce il ruolo di modello, per gli altri resterà un uditorio particolare.
Anche la riflessione personale è ricondotta da Perelman all’argomentazione. «Noi siamo del parere che sia preferibile il considerare la deliberazione intima come una specie particolare di argomentazione […] Spesso d’altronde la discussione con altri non è che un mezzo per chiarire meglio a noi stessi le nostre idee. L’accordo con se stessi è un caso particolare dell’accordo con altri» (ibid.).
Nella seconda parte del Trattato, gli autori analizzano le premesse del discorso, necessarie affinché esso riesca a convincere l’uditorio. Le premesse vengono analizzate da tre punti di vista: accordo, scelta, presentazione.
Le premesse oggetto dell’accordo sono raggruppate in due categorie: il reale, comprendente fatti, verità e presunzioni; e il preferibile riguardante i valori, le gerarchie tra valori ed i luoghi comuni (definiti luoghi del preferibile).
Un evento può essere considerato un fatto solo se non è controverso. «Dal punto di vista argomentativo siamo in presenza di un fatto soltanto se possiamo postulare per esso un accordo universale, non controverso» (ibid.). Tuttavia «non esiste enunciato che possa godere, in forma definitiva, di tale condizione, perché l’accordo può sempre essere rimesso in questione e una delle parti può sempre rifiutare la qualità di fatto a ciò che l’avversario afferma» (ibid.). Vi sono, dunque, due modi per squalificare un fatto: quando vi sono dei dubbi nell’uditorio, e quando si dimostra che l’uditorio che ammette il fatto è un uditorio particolare.
Il ragionamento concernente i fatti può essere esteso anche alle verità. Queste si differenziano dai primi poiché rispetto ad essi sono «sistemi più complessi, relativi a legami fra i fatti» (ibid.). Dunque, sia le verità sia i fatti non sono delle realtà oggettive, assolute ed inconfutabili, al contrario possono sempre essere contestate, ed in questo caso l’oratore non può più utilizzarli come premesse.
Le presunzioni «godono ugualmente dell’accordo universale, tuttavia l’adesione alle presunzioni non è massima, ci si aspetta che l’adesione sia rafforzata ad un dato momento da altri elementi» (ibid.). Le presunzioni sono legate a ciò che è considerato dall’uditorio normale e verosimile. Pertanto l’accordo fondato su di esse ha, per l’uditorio, la stessa validità di quello fondato sui fatti e sulle verità.
I valori costituiscono un oggetto d’accordo fondamentale e irrinunciabile, essi però valgono solo per un uditorio particolare, giacché non esistono valori universali (e, anche se esistessero, sarebbero tali solo nella forma: non appena si considera il contenuto, tornano le differenze particolari). «L’accordo a proposito di un valore consiste nell’ammettere che un oggetto, essere concreto o ideale, deve esercitare sull’azione e sulle disposizioni all’azione una determinata influenza, della quale si può fare uso in un’argomentazione, senza per questo ritenere che il corrispondente punto di vista si imponga a tutti» (ibid.). Se in una discussione si desidera contestare un valore occorre necessariamente promuovere altri valori. Come aveva già affermato Dupréel (esplicitamente citato dagli autori), i valori universali sono valori di persuasione. «Il loro compito è dunque quello di giustificare delle scelte sulle quali non esiste un accordo unanime» (ibid.). I valori si distinguono in astratti e concreti, i primi sono utilizzati soprattutto dai rivoluzionari, i secondi (che attribuiscono un valore ad un essere determinato, sia esso un individuo od un gruppo) sono, invece, utilizzati dai conservatori.
Poiché i valori sono conflittuali, e poiché in un’argomentazione possono essere utilizzati più valori, l’oratore deve sempre considerare la gerarchia di valori esistente nell’uditorio. È questa la ragione per la quale «le gerarchie di valori sono più importanti dei valori stessi» (ibid.).
I luoghi comuni «costituiscono un arsenale indispensabile al quale chi vuole persuadere altri dovrà per forza attingere. […] Chiameremo luoghi solo le premesse di ordine generale che permettono di dare un fondamento ai valori e alle gerarchie, e che Aristotele studia fra i luoghi dell’accidente. Questi luoghi costituiscono le premesse più generali, spesso sottintese, che intervengono a giustificare le nostre scelte» (ibid.). I luoghi sono classificabili in sei categorie. Innanzitutto, i luoghi della quantità, i quali attribuiscono ad una cosa un valore maggiore rispetto ad un’altra per ragioni quantitative. Appartengono a questa categoria anche i luoghi comuni basati sul probabile, sull’evidente, sull’abituale. «Ciò che si presenta più spesso, l’abituale, il normale, è oggetto di uno dei luoghi più frequentemente utilizzati, a tal punto che il passaggio tra ciò che si fa a ciò che si deve fare, dal normale alla norma, sembra per molti spontaneo» (ibid.).
In secondo luogo, i luoghi della qualità, i quali costituiscono l’opposto rispetto ai precedenti, giacché valorizzano l’unico, in tutte le sue possibili forme, come ad esempio l’originale, il precario, l’irrimediabile, la norma unica rispetto alla molteplicità del reale.
Le altre categorie sono: i luoghi dell’ordine, i quali affermano la superiorità dell’anteriore sul posteriore; i luoghi dell’esistente, i quali affermano la superiorità del reale sull’eventuale; i luoghi dell’essente, i quali valorizzano gli individui che meglio rappresentano l’essenza; ed, infine, i luoghi della persona, legati alla sua dignità, al suo merito, ed alla sua autonomia.
Costituiscono, infine, oggetti d’accordo valevoli per determinati uditorii: il senso comune, il linguaggio tecnico, le presunzioni legali, gli argomenti ad hominem, e l’inerzia sociale.
La fase successiva all’accordo è la selezione. Poiché i potenziali oggetti d’accordo sono molteplici, l’oratore deve pensare accuratamente a quali scegliere. Tale scelta è un momento fondamentale giacché «riconosce agli elementi una presenza che è un fattore essenziale dell’argomentazione […]. Così una delle preoccupazioni dell’oratore sarà quella di rendere presente, solo grazie alle magie delle sue parole, ciò che è assente […] oppure di valorizzare, rendendoli più presenti, alcuni degli elementi che sono effettivamente offerti alla coscienza» (ibid.). Il fenomeno opposto, consistente nel deliberato occultamento della presenza, è un fenomeno altrettanto degno di nota.
Oltre al riconoscimento della presenza, ci sono anche altri importanti corollari della selezione. I dati, infatti, non vanno solo selezionati, ma occorre anche attribuire loro un senso, ossia vanno interpretati. Poiché le interpretazioni possibili sono molto numerose, l’interpretazione proposta va sempre tenuta distinta dai dati, e può essere loro contrapposta. Sono molto rari (forse inesistenti) i dati aventi un senso univoco, di regola, ogni discorso, ed ogni fatto, può acquisire più significati e pertanto necessita di un’interpretazione, che nel primo caso è definita dagli autori interpretazione dei segni, nel secondo interpretazione degli indizi.
I dati non vanno solo interpretati, ma l’oratore dovrà anche scegliere le qualità degli stessi da mettere in rilievo. Questa funzione è svolta dall’epiteto. Un altro aspetto, all’apparenza neutrale, che consente di raggiungere lo stesso scopo è la classificazione dei dati, mediante la quale si attribuisce loro una particolare qualifica con la quale li si designa.
Un altro mezzo fondamentale, ed all’apparenza ancora più neutrale, rispetto all’epiteto ed alla classificazione è la scelta delle nozioni. «L’utilizzo delle nozioni di una lingua viva si presenta così molto spesso non più come semplice scelta di dati applicabili ad altri dati, ma come costruzione di teorie e interpretazioni del reale, grazie alle nozioni che esse permettono di elaborare. C’è di più, il linguaggio non è solo mezzo di comunicazione: esso è anche strumento di azione sugli spiriti, mezzo di persuasione» (ibid.). Per questa ragione, uno dei mezzi di persuasione utilizzato dagli oratori consiste nell’agire sulle nozioni, ad esempio attribuendo una maggiore fluidità alle proprie, e maggiore rigidità a quelle dell’avversario, ovvero allargando o restringendo il campo di una nozione, per svalutare o valutare idee o situazioni. Tutte queste operazioni influenzano profondamente sul significato di una nozione.
Riassumendo, la fase della selezione comporta il riconoscimento della presenza, l’interpretazione, la scelta di alcuni aspetti dei dati attraverso l’epiteto, la classificazione e l’utilizzo delle nozioni.
Dopo l’accordo e la selezione, la fase successiva nell’elaborazione delle premesse consiste nella presentazione. Essa comprende innanzitutto tutti gli strumenti utilizzati per dare l’impressione della presenza, come ad esempio la ripetizione, l’accumulazione, la descrizione dei particolari, la specificazione (difatti, di regola, anche se non sempre, più un termine è concreto maggiore sarà il suo impatto emotivo).
Inoltre, momento centrale della presentazione è quello della scelta dei termini, e della loro posizione nel contesto. Tale scelta non è mai neutrale, ed anche quando si sceglie uno stile neutrale lo si fa per un fine argomentativo preciso, quello «di suggerire una trasposizione del generale consenso accordato al linguaggio, al consenso delle norme espresse. Non bisogna dimenticare infatti che il linguaggio è, fra gli elementi di accordo, uno dei primi» (ibid.).
Anche la scelta dei tempi verbali ha precisi intenti persuasivi nell’ambito della presentazione. Il passato dà l’idea di un fatto avvenuto e indiscutibile, l’imperfetto di un fatto transitorio, il presente, invece, esprime l’universale, la legge, la norma. La stessa funzione è svolta dalla scelta dei pronomi: il pronome impersonale “si” esprime la norma; la scelta della terza persona o del “si” al posto della prima riduce la responsabilità personale; l’operazione contraria dà un sentimento di presenza; la scelta di un nome singolare per designare un plurale (ad esempio: l’Ebreo), infine, ha un duplice effetto: quello di dare il senso della presenza, e quello di unificazione del punto di vista attraverso una sineddoche (la pars pro toto).
La scelta della forma è un altro momento importante, giacché può essere utilizzata per esprimere comunione con l’uditorio. Funzione argomentativa possono avere anche le figure retoriche. «Consideriamo argomentativa una figura se, comportando un mutamento di prospettiva, il suo uso appare normale in rapporto alla nuova situazione suggerita» (ibid.). Altrimenti si tratterà di una figura di stile. In relazione alla loro funzione argomentativa, le figure retoriche possono essere classificate in tre categorie: figure di scelta (esempi: definizione retorica, perifrasi, antonomasia, correzione, ripresa); figure di presenza, le quali rendono attuale l’oggetto alla coscienza (esempi: ripetizione, conduplicatio, amplificazione, sinonimia, enallage del verbo); figure di comunione (esempi: allusione, citazione, apostrofe, interrogazione retorica, enallage del nome).
Infine, nella presentazione altre astuzie possono essere utilizzate per persuadere l’uditorio. Ad esempio, i sentimenti personali possono essere espressi come giudizi di valore, i giudizi di valore come giudizi di fatto, la conclusione di un’argomentazione come un fatto di esperienza.
«Uno degli effetti più importanti della presentazione dei dati è la modifica dello statuto degli elementi del discorso» (ibid.).
Nella terza parte del Trattato, gli autori offrono un’ampia tassonomia relativa all’uso pratico dell’argomentazione. I diversi schemi discorsivi caratterizzanti la struttura argomentativa sono ricondotti a due forme generali: i procedimenti di associazione e i procedimenti di dissociazione. «Intendiamo per procedimenti di associazione degli schemi che avvicinano degli elementi distinti e permettono di stabilire tra loro una solidarietà mirante sia a strutturarli sia a valorizzarli positivamente o negativamente l’uno per mezzo dell’altro. Intendiamo per procedimenti di dissociazione, delle tecniche di rottura aventi lo scopo di dissociare, di separare, di infrangere la solidarietà di elementi considerati come costituenti un tutto o per lo meno una unità solidale in seno a uno stesso sistema di pensiero: la dissociazione avrà l’effetto di modificare il sistema, modificando alcune delle nozioni che ne costituiscono i pilastri» (ibid.). Queste tecniche sono complementari, giacché ogni associazione implica una dissociazione e viceversa; tuttavia, l’argomentazione può mettere l’accento su uno dei due processi, occultando l’altro. Alla categoria dei procedimenti associativi appartengono le argomentazioni quasi-logiche, quelle basate sulla struttura del reale, e le prove tratte da esempi ed analogie, tutte miranti a stabilire una connessione od una generalizzazione. Alla categoria dei procedimenti dissociativi appartengono le argomentazioni basate su coppie oppositive, le quali tendono a modificare o dileguare i sistemi utilizzati per comprendere il reale.
In conclusione, oltre che per l’ampia tassonomia di esempi, l’accurata analisi dei mezzi discorsivi di persuasione, la nuova retorica di Perelman, assume rilevanza per la sua critica del razionalismo dogmatico, in favore della valorizzazione del ragionevole, luogo dell’argomentazione, della retorica e quindi del dialogo. Unica base possibile su cui fondare una società libera, plurale, tollerante.
«Noi combattiamo le opposizioni filosofiche, nette e irriducibili, che ci vengono presentate dagli assolutismi di ogni specie. […] Noi non crediamo a rivelazioni definitive e immutabili, quale che sia la loro natura o la loro origine […] non faremo nostra l’esorbitante pretesa di erigere in dati definitivamente chiari, intoccabili certi elementi della conoscenza. […] Pretendendo che ciò che non è obiettivamente e indiscutibilmente valido dipenda dal soggettivo e dall’arbitrario, si scaverebbe un insuperabile abisso tra la conoscenza teorica, considerata la sola razionale, e l’azione le cui motivazioni sarebbero del tutto irrazionali. […] Se la libertà fosse solo adesione necessaria a un ordine naturale dato precedentemente, esso escluderebbe ogni possibilità di scelta: se l’esercizio della libertà non fosse fondato su delle ragioni, ogni scelta sarebbe irrazionale e si ridurrebbe a una decisione arbitraria che agirebbe in un vuoto intellettuale. Grazie alla possibilità di un’argomentazione che fornisce delle ragioni, ma non delle ragioni cogenti, è possibile sfuggire al dilemma: aderire a una verità obiettivamente e universalmente valida, o ricorso alla suggestione e alla violenza per far accettare le proprie opinioni e decisioni» (ibid.).
La riflessione di Perelman sul diritto e sulla giustizia precede cronologicamente quella sull’argomentazione, ma quest’ultima le fornirà importanti contributi.
La prima opera di Perelman dedicata al diritto è La Giustizia; in essa si cerca di esplicitare la razionalità dell’atto conforme alla giustizia.
Quando un atto è giusto? Secondo Perelman tale conformità si realizza solo quando l’atto corrisponde all’applicazione di una norma. Tuttavia, affinché la norma possa fondare la giustizia, non basta che essa esista: deve anche non essere arbitraria. Ciò si verifica quando essa può essere dedotta dai princìpi generali dell’apparato giuridico di cui fa parte, ossia dai suoi valori. Un atto è giusto nella misura in cui si conforma ad una norma, la quale, a sua volta, è giusta nella misura in cui si conforma al valore. «Siamo condotti a distinguere tre elementi nella giustizia: il valore su cui è fondata, la norma che l’enuncia, l’atto che la realizza» (Perelman, La Giustizia).
Esiste una profonda differenza tra le norme e gli atti da una parte, e il valore dall’altra. Giacché, mentre le norme e gli atti possono essere fondati razionalmente, proprio in relazione alla loro conformità al valore, quest’ultimo, al contrario, «non lo si può sottoporre ad alcun criterio razionale, esso è perfettamente arbitrario e logicamente indeterminato» (ibid.).
Il valore è totalmente arbitrario quindi non-razionale. I princìpi di un ordinamento giuridico rinviano a valori, non solo arbitrari, ma anche conflittuali.
La fondazione razionale di tale ordinamento deve pertanto arrestarsi di fronte ai valori che lo fondano, del tutto sottratti alla logica formale. Questa è, dunque, inadeguata a rendere la logica dei valori. È da questa riflessione che iniziano le perplessità di Perelman sulla concezione filosofica della razionalità che troveranno piena espressione nella teoria dell’argomentazione. Quest’ultima consente a Perelman di fondare il proprio ragionamento sul diritto su basi diverse.
Il motto di questa impostazione sarà: “la logica giuridica non è la logica formale”. Per questo, questa concezione è definita “antiformalista”. Giacché la logica dei valori esula completamente dalla razionalità pura, il ragionamento giuridico potrà trovare attuazione solo nell’ambito dell’argomentazione, nella quale si scontrano dialetticamente visioni diverse. Tale conflitto attinente ai valori mostra come la logica giuridica sia legata alla controversia. «Di fatto il conflitto tra i giudizi di valore è al centro di tutti i problemi di metodo posti dall’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Per questo la logica giuridica è una logica della controversia» (La Logica Giuridica).
Di fronte a tale disaccordo, spetterà al giudice scegliere. Poiché anche tale decisione deve essere argomentata, il giudice dovrà giustificarla, come in ogni buona argomentazione, adattandosi all’uditorio. «Il giudice […] deve conoscere i valori dominanti nella società, le sue tradizioni, la sua storia, la metodologia giuridica, le teorie che vi sono accettate, le conseguenze sociali ed economiche di questa o quella presa di posizione, i meriti rispettivi della certezza del diritto e dell’equità in una data situazione. Una grande sensibilità ai valori, per come essi vivono in una determinata società, è condizione del buon funzionamento della giustizia, per lo meno di una giustizia che miri al consenso, condizione della pace giudiziaria» (ibid.). Naturalmente, in tale adattamento il giudice dovrà sempre rispettare «i limiti posti dal suo sistema di diritto» (ibid.).
L’argomentazione del giudice, quindi, dovrà conciliare le esigenze dell’equità e del diritto, prendendo decisioni giuste e ragionevoli. «Il diritto si sviluppa attraverso l’equilibrio di una duplice esigenza: l’una di ordine sistematico, l’elaborazione di un ordine giuridico coerente; l’altra di ordine pragmatico, la ricerca di soluzioni accettabili da parte dell’ambiente sociale, in quanto conformi a ciò che appare giusto e ragionevole» (ibid.).
Quest’attività fa del giudice qualcosa in più del mero esecutore di leggi: infatti oggi «la legge non rappresenta più tutto il diritto, è solo il principale strumento di orientamento per il giudice nell’adempimento del compito di risolvere i casi concreti» (ibid.). Il giudice diventa così complemento indispensabile del legislatore, non solo nei sistemi di common law ma anche in quelli di civil law.
Mediante l’argomentazione, il giudice ottiene il consenso dei diversi uditorii interessati alle sue decisioni esprimenti una sintesi tra equità e diritto. Per cercare la pace giudiziaria, il giudice dovrà persuadere i destinatari delle sue decisioni della conformità di queste ai valori giuridici e sociali.
È questa ricerca del consenso mediante l’argomentazione finalizzata alla risoluzione delle controversie dialettiche, che fornisce al ragionamento giuridico (a tutti i livelli istituzionali in cui si attua) il suo carattere precipuo. In questo modo, in esso trova espressione la logica dei valori, configgenti ed arbitrari, irriducibile alla logica formale.