ERIK PETERSON
LA VITA
A cura di Barbara Nichtweiß e Andrea Nicolotti
Erik Peterson Grandjean -
i suoi antenati erano di provenienza in parte svedese e in parte francese -
nacque nel 1890 ad Amburgo e morì nella stessa città nel 1960. I suoi saggi più
famosi sono raccolti nei Theologische Traktate [Trattati
teologici] 1951/1994; in essi si concentra in una maniera particolarmente
rilevante e fruttuosa la tensione dialettica tra la teologia e le moderne
scienze umane.
Questo teologo originariamente evangelico, ma convertito nel 1930 alla fede
cattolica, durante la sua vita rimase certamente -nolens volens -
in una posizione marginale, secondo l'esempio di Sören Kierkegaard, e rimase
condannato per un lungo periodo dopo la sua morte ad essere unicamente una
referenza ignota ai più. Solo con il lavoro di recupero del suo ponderoso
lascito, conservato a Torino, si è reso palese il considerevole influsso che
questo pioniere esercitò su teologi come Karl Barth, Ernst Käsemann, Heinrich
Schlier, Joseph Ratzinger e sulla teologia francese (Jean Daniélou, Yves Congar
etc.) Gli scritti di Peterson furono a suo tempo e continuano ad essere
tradotti in italiano, francese, spagnolo e inglese.
Già in qualità di professore (Privatdozent) di archeologia cristiana a
Göttingen a partire dal 1920, Peterson si era in primo luogo sbarazzato sia dei
precedenti vincoli con una religiosità pietista sia dell'influenza della scuola
di storia delle religioni; aveva rapidamente acquisito un largo orizzonte di
conoscenze patristiche e, a partire dal 1924 quando divenne professore a Bonn,
anche esegetiche. In contrasto sia con la teologia liberale (Adolf von Harnack)
sia con la teologia dialettica (Karl Barth), Peterson provoca molto scalpore
con i suoi brillanti trattati Was ist Theologie? [Che cos'è
la teologia?] nel 1925 e Die Kirche [La Chiesa] nel 1928/29. La sua argomentazione difende il recupero dell'autorità dogmatica
e dell'ambito pubblico tipicamente ecclesiale, attraverso il quale egli si
avvicina sempre più al concetto cattolico di Chiesa. Per la sua metodologia
fenomenologica e l'orientamento dei suoi contenuti verso l'escatologia
protocristiana, gli scritti di Peterson certamente precorrono assai anche la
teologia cattolica del suo tempo. Impossibilitato ad esercitare la docenza in
Germania, Peterson si reca a Roma, dove vive dal 1933 fino a poco prima della
sua morte, e costituisce una famiglia con cinque figli tra enormi difficoltà
economiche; ottiene un piccolo posto nell'ambito della storia della Chiesa
presso il Pontificio Istituto di archeologia cristiana (1937), incarico che nel
1947 è trasformato in cattedra. Peterson continua i suoi studi specialistici
sull'antichità cristiana che aveva iniziato nel 1926 con Heis Theos e fornisce
un importante impulso sia alla comprensione della gnosi, dell'ascesi e
dell'apocalittica antica, sia allo studio delle relazioni tra giudaismo e
cristianesimo (Frühkirche, Judentum und Gnosis, 1959 [Chiesa
antica, giudaismo e gnosi]). In qualità di teologo si dedica a cicli di
conferenze e a pubblicazioni soprattutto nell'ambito germanofono con sublimi
esposizioni di carattere critico di fronte alle ideologie, in forma di
interpretazioni della Scrittura e della storia (Die Kirche aus Juden und
Heiden, 1933 [Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa]; Zeuge
der Wahrheit, 1937 [I testimoni della verità]). Nel 1935 appare lo
studio Der Monotheismus als politisches Problem [Il
monoteismo come problema politico] discusso fino ai giorni nostri
nell'ambito della teologia politica, il quale rappresenta altresì la rottura
spirituale con il suo amico Carl Schmitt. Nel medesimo anno il libretto Von
den Engeln (1935) [Il libro degli angeli] fonde lucidamente le
dimensioni ecclesiali, politiche e mistiche della teologia di Peterson. Nel
1951 gli studi dell'anteguerra appaiono raccolti nei Theologische
Traktate, mentre gli scritti meditativi e parzialmente enigmatici diMarginalien
zur Theologie (1956) [In margine alla teologia] si addentrano
maggiormente nella profondità spirituale di un pensatore per il quale un esilio
cristianamente motivato, nel mezzo del capitalismo e della tecnologizzazione, è
infine divenuto l'unico modo di esistenza possibile.
LA CRITICA DELLA TEOLOGIA POLITICA DI SCHMITT
“Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti”. È questo il celebre “teorema della secolarizzazione” quale viene formulato da Carl Schmitt in Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität del 1922. Una formulazione certo drastica, ma non peregrina, se si considera non solo lo sviluppo decisivo che a questo problema ha dato, seppur da una diversa prospettiva, Karl Löwith (Significato e fine della storia, 1949), ma anche il fatto che già Leibnitz, nella Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, del 1667, afferma di avere trasferito il modello della ripartizione dell’opera “dalla teologia al diritto poiché l’analogia delle due discipline è straordinaria”. Ma anche se si considera che una puntuale esposizione delle analogie di questo tipo si trova nella gius-filosofia della controrivoluzione, nelle opere di de Bonald, De Maistre e Donoso Cortés, e che Max Weber, il quale riconosce al diritto della Chiesa romana d’aver creato “come nessun altro diritto sacro un canone razionale”, afferma incontestabile “il fatto che il diritto canonico sia divenuto per il diritto profano addirittura una delle guide sulle vie della razionalità”. Ora, se i concetti del moderno diritto pubblico sono concetti teologici secolarizzati, se il diritto laico ha seguito come modello sulla via della razionalità il diritto sacro, non sarà strano che in una Scuola di diritto, laico e moderno, ci si interessi di teologia e di teologia del diritto in particolare. Ma non è questa se non una ragione accidentale della decisione che sta alla base della nostra iniziativa. Anche perché dalla polemica seguita alla prima pubblicazione della schmittiana Teologia politica, ad opera del teologo Erick Peterson, con il saggio Der Monoteismus als politiches Problem, del 1935, ma che poi si è andata arricchendo di nuovi interventi tanto da divenire una “leggenda scientifica” sino alla Politische Theologie II di Schmitt, del 1970, dalla polemica nessuna delle parti è uscita con argomenti del tutto convincenti: né quella che ritiene del tutto liquidata la teologia politica sulla base dell’assunto, questo certamente plausibile, che non sia possibile giustificare un regime politico con il dogma cristiano; né quella che ritiene plausibile una dottrina politica fondata sulla Rivelazione in base all’assunto, questo certamente plausibile, che “la Chiesa di Cristo non è di questo mondo e della sua storia, ma è in questo mondo”. A prescindere da tutti questi motivi – e senza alcuna pretesa di risolvere in via definitiva la questione –, va comunque detto che è merito di Peterson aver posto in dubbio il dispositivo della secolarizzazione quale viene attivato da Schmitt. In sostanza, riducendolo all’osso, l’argomento di Peterson può così essere compendiato: la teologia politica schmittiana è inaccettabile perché – da un punto di vista strettamente teologico, quale è quello di Peterson – la teologia non è politica. L’argomento del teologo di Amburgo si muove tutto nell’ambito della teologia: è il carattere eminentemente non-politico a rendere vano, in partenza, ogni tentativo di formulare una “teologia politica”. Argomento al quale Schmitt risponderà che se politica e teologia sono grandezze diverse e tra loro inaccostabili – come appunto sostiene Peterson –, com’è possibile che il teologo pretenda di liquidare la politica con argomenti teologici? Come può Peterson mettere in congedo la “teologia politica” se, dal suo punto di vista, politica e teologia sono ambiti inaccostabili?