A cura di Diego Fusaro e Nicoletta Cieri
"La grand'arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch'egli prosegua ad essere occupato degli oggetti proposti, e terminatane l'azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io osservo che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole e in qualche modo dolorosa. Cosí nella poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto cagionano una sensazione disgustosa, e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori versi […] Bisogna che le cose belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo o di tempo, in guisa tale che abbia luogo fra una sensazione e l'altra d'intromettersi il dolore." (Discorso sull'indole del piacere e del dolore, cap. IX).
Verri sostiene il principio che tutte le sensazioni - piacevoli o dolorose - dipendono dalla speranza e dal timore. La dimostrazione di questa tesi è condotta dapprima per ciò che riguarda il piacere e il dolore morale, riportati ad un impulso dell'anima verso l'avvenire. Il piacere del matematico che ha scoperto un nuovo teorema deriva, per esempio, dalla speranza dei piaceri che lo aspettano in avvenire, dalla stima e dai benefici che la scoperta gli apporterà. Il dolore per una disgrazia è similmente il timore dei dolori e delle difficoltà future. Poiché la speranza è per l'uomo la probabilità di vivere nel futuro meglio che nel presente, essa suppone sempre la mancanza di un bene ed è perciò il risultato di un difetto, di un dolore, di un male. Il piacere morale non è che la rapida cessazione del dolore ed è tanto più intenso quanto maggiore fu il dolore della privazione o del bisogno. Il bene supremo per l'uomo è qui, come nell'Illuminismo, la felicità, una felicità intesa però - come la troviamo in Beccaria e in Bentham - non come individuale, bensì come estesa al maggior numero possibile di persone: riaffiora, in qualche misura. il concetto di eutimia ed atarassia delle filosofie antiche. Questa teoria di Pietro Verri sarà, inoltre, molto apprezzata dallo stesso Kant. Lo scopo della società è quello di favorire la massima utilità possibile per il maggior numero di soggetti: deve cioè accrescere il piacere pubblico e scemare il dolore. In campo economico, Verri scrive le "Meditazioni sull'economia politica" (1771) e si può notare come, in tale ambito, il suo pensiero tenda ad evolversi, sfuggendo a schemi fissi: partito da un iniziale mercantilismo, si avvicinò a moderate posizioni fisiocratiche (particolarmente in voga nell'età dei Lumi), passando anche da un'iniziale fiducia in un governo di stampo assolutistico assistito dai filosofi alla preferenza per la monarchia costituzionale (seguendo il modello dell'Inghilterra). Anche la storia non esulò dai suoi poliedrici interessi: oltre ad una "Storia di Milano" (1783), egli compose le celeberrime "Osservazioni sulla tortura", di carattere storico/giuridico: uscite solo nel 1804, sette anni dopo la morte del grande illuminista milanese, in esse si affronta la riflessione sui fatti milanesi del 1630 che videro torturati e condannati due presunti "untori", del tutto innocenti. Lo scopo, più che l'illustrazione degli effetti reali che la tortura produsse "all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano", era l'ottenimento dell'abolizione della tortura stessa, dopo che Maria Teresa d'Austria l'aveva mantenuta in vita, seppur a livelli minimi, in tutta la Lombardia. Nel pamphlet verriano vengono pertanto riportati gli interrogatori a cui furon sottoposti i presunti untori.
"Da questo esame solo ne ricaverà chi legge l'idea precisa della maniera di pensare e procedere in quei disgraziatissimi tempi...Il metodo col quale si procedette allora fu questo: si suppose di certo che l'uomo in carcere fosse reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l'innocenza loro, ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell'accusatore, e si persisteva nel tormentarli sinché convenissero d'accordo".
La conclusione del Verri sul panorama offerto dalle varie "inquisizioni" è davvero sconsolata e l'atteggiamento di Verri è comprensivo nei confronti dei giudici solo nella misura in cui essi erano costretti, secondo lui, ad attuare delle regole che appartenevano ad un sistema ingiusto di giurisprudenza. Quello della giustizia era un problema particolarmente sentito nell'età dei Lumi: anche Beccaria se ne occupò attentamente e il frutto di tale attenzione è il suo celebre "Dei delitti e delle pene", in cui dimostra come la tortura e la pena di morte siano due pratiche barbariche che si oppongono totalmente ai dettami della ragione, da Beccaria intesa come autentica guida della condotta umana. Attraverso le attente analisi dei processi contro gli untori del 1630, Verri dimostra su quali assurdi pregiudizi (e la critica ai pregiudizi costituisce il cuore della riflessione illuministica) si fondi la pratica della tortura a fini giudiziari, ancora in uso a quei tempi. Smontati gli indizi sulla base dei quali fu pronunciata la terribile condanna degli untori, Verri mette in luce l'inaffidabilità e l'ingiustizia del sistema giudiziario attraverso cui si pervenne alla condanna. Viene abilmente mostrata - con un argomentare da scienziato - l'inefficacia della tortura al fine di scoprire la verità, poiché - egli fa notare - gli "untori" del 1630 confessarono sì le proprie colpe, ma solamente per sottrarsi alle atroci sofferenze fisiche inferte loro dai giudici. Assodata la mancata utilità giudiziaria della tortura, Verri si sofferma anche sull'aspetto etico della questione, cercando di dimostrare che "quand'anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto". Il ragionamento verriano è di una semplicità stupefacente e si basa su due assunti basilari: la tortura è, in ogni caso, una crudeltà, poiché se colpisce un colpevole certo, gli infligge sofferenze non necessarie; e se colpisce un colpevole solo probabile, rischia di abbattersi contro un possibile innocente. E poi la tortura è eticamente inaccettabile e contro natura, poiché costringe gli accusati a rinunciare alla istintiva (naturale e sacrosanta) difesa di sé, facendosi accusatori e traditori di se stessi.
"Se è certo il delitto, i tormenti sono inutili, e la tortura è superfluamente data, quando anche fosse un mezzo per rintracciare la verità, giacché presso di noi un reo si condanna, benché negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perché non è giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. Se il delitto poi è solamente probabile, qualunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a misurarsi, egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l'esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse è innocente; e il porre un uomo innocente fra que' strazj e miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l'innocente dagli oltraggi. La forza di quest'antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poiché fra l'essere e il non essere non vi è punto di mezzo, e laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque l'uso della tortura è intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi, quand'anche fosse egli un mezzo per rinvenire la verità". (cap. XI)
Molti e interessanti sono anche gli scritti di carattere familiare e privato, tra cui spicca un epistolario ricco e appassionante e un "Manoscritto da leggersi alla mia cara figlia Teresa", nel quale l'infanzia viene presentata in termini piuttosto simili a quelli dell' "Emile" di Rousseau, con l'attenzione rivolta alla felicità dei bambini e alla loro innata ricchezza, ma con un maggior senso (rispetto a Rousseau) della responsabilità educativa affidata alla famiglia e alla società, in grado di distruggere o favorire le potenzialità dei ragazzi.