Di Giangiuseppe Pili
Compendio delle sei riflessioni di storia della filosofia cartesiana nel le “Meditazioni Metafisiche.
Il nostro proposito è stato quello di mostrare come la teoria del giudizio sia successiva, in ordine logico e “cronologico” rispetto alla teoria della conoscenza e come questa sia imprescindibile per capire con chiarezza il discorso cartesiano. La “teoria della verità”, quindi dell’errore, è aderente e conseguente alla “teoria della conoscenza adeguata”.
Ciò potrebbe sembrare un’evidenza priva di ragionamento, un’asserzione al limite della gratuità. E sarebbe pure vero se non fosse che non tutti ne hanno tenuto conto, quando si sono trovati a riflettere sulla seguente questione. Infatti, nella metafisica cartesiana, è, sì, chiaramente centrale il ruolo della conoscenza ma, al contempo, è manifesto che al variare dell’interpretazione della teoria della conoscenza varierà anche l’interpretazione della teoria del giudizio. Così, nostro intento è, in primo luogo rintracciare le ragioni e connessioni che determinano la teoria della conoscenza adeguata ne le “Meditazioni” prima ancora di passare a parlare dell’argomento principale.
E’ certo che Cartesio ci dica che il vero e il falso si possono predicare propriamente del giudizio perché le idee prese in sé stesse non sono mai né vere né false. Ma ci sembra che la differenza veramente importante tra la predicazione vera e la conoscenza adeguata sia solo in un certo criterio di verità che restringe il campo della predicazione rispetto a quello della conoscenza. Di tale criterio avremmo da parlare in seguito e qui non lo anticipiamo.
In questa nostra visione è senz’altro centrale l’idea che tutta la questione si risolva nella conoscenza e, a conoscenza, adeguata o meno, corrisponda esattamente verità o errore. In questo senso, intendiamo vedere in che termini la volontà, in tale dimensione, trovi il suo spazio, senz’altro centrale ma, assolutamente, da definirsi.
A questo punto lasciamo andare i preamboli, utili per ricapitolare più che per capire, e andiamo a vedere direttamente quelle questioni, qui solo accennate, che ci stanno a cuore.
Riflessione I: di che cosa si ha ragione di dubitare.
Non c’è alcun dubbio che la nostra conoscenza della filosofia di un autore incominci a partire dall’autore stesso. Sarebbe infatti del tutto fuorviante iniziare la lettura di un testo filosofico da un’introduzione o da una critica del testo. La mente umana tende quasi irrimediabilmente a concedere il vero solo a ciò a cui è abituata, non a ciò che è al di fuori di dubbio: lasciamo che la mente si abitui a quel che il pensatore ha detto, che rappresenta la nostra verità, prima ancora che a quello che altri hanno detto di lui, che rappresenta una certa opinione.
Un’interpretazione è un che di possibile, possiamo anche dire, di probabile, nella misura in cui si attenga al testo. Sarebbe però prematuro associare un valore di verità a ciò che è solo una proprietà non certa di qualcosa. Lo scopo, di queste righe, è quello di cercare di riportare il pensiero di Cartesio, senza prendere, possibilmente, posizione, per nessuna particolare interpretazione suggerita da altri.
Ma ciò sembrerebbe non esaurire il fine di questa breve riflessione: di fronte a tutta la mole di studi, abbiamo il compito anche di comprendere, riferire e integrare il pensiero di altri autori, sull’argomento in questione. Tuttavia, e ciò sarebbe davvero pregiudizievole, non staremmo qui a dire la nostra idea sulle tesi di costoro né cosa dicevano dell’autore, non prima di aver prima cercato di capire cosa diceva il filosofo stesso a partire dal suo stesso testo.
L’altra via ci condurrebbe in un terreno lontano dal nostro intelletto, che necessita di una certa autonomia per poter guardare adeguatamente le cose: se, prima di andare a dormire prendessimo gli occhiali del nostro amico, come potremmo mai leggere il nostro romanzo d’avventure? Anche se amico, ha degli occhiali diversi dai nostri.
In ultima analisi, ci sembra corretto sospendere ogni giudizio sulle idee altrui su Cartesio, delle quali, certamente, s’è debitori. Qui, giusto per dare un assaggio, vogliamo ricordare le tesi principali.
L’argomento è quello del “giudizio”, del quale solo, secondo Cartesio, si può predicare verità e falsità. A seconda di come si interpreta la forma, o l’oggetto, piuttosto che le modalità che l’hanno posto ad essere, il giudizio assume connotati assai diversi e così anche la visione della conoscenza per Cartesio:
1) se si interpreta l’intuizione come condizione necessaria e sufficiente della verità allora il giudizio-vero deve essere scaturito da un punto di partenza che preveda un’intuizione ( tesi Beck )[1].
2) In contrasto con la tesi di Beck, Van De Pitte, propone invece una visione meno esclusiva della verità come oggetto dell’intuizione: l’intuizione è condizione necessaria ma non sufficiente per la predicazione del giudizio vero. Solo l’intuizione e la deduzione sono condizioni di predicazione verace[2], anzi, è propriamente la deduzione ciò che determina la verità in quanto nella deduzione v’è l’ausilio della volontà, necessaria nel giudicare[3].
3) La posizione di Di Bella, nella sua “Introduzione alla lettura delle Meditazioni Metafisiche”, sottolinea maggiormente l’importanza della volontà negli atti di giudizio e, pure, conoscitivi in generale[4].
4) Anche Landucci sembra sostenere la tesi della centralità della volontà nella ricerca della verità, seppure nel senso che essa ci aiuta non nella conoscenza quanto alla sua ricerca[5].
A questo punto però sospendiamo qui l’enunciazione delle tesi altrui per soffermarci su un problema essenziale e preliminare, prima ancora che su quel che Cartesio ci dice.
Riflessione II. Il problema preliminare: ricostruzione generale della problematica.
Metariflessione.
Riflettere a vuoto non va mai bene, né vagare in cerca di qualcosa senza sapere cosa si deve raggiungere, allo stesso modo prima di tutto bisogna cercare di capire, in una prospettiva generale, quale sia il problema che Cartesio deve risolvere, in prima istanza, in un secondo tempo, che carte abbia Cartesio per affrontare il problema.
Il problema della predicazione vera è successivo a quello della conoscenza: come faccio a pronunciare una frase senza sapere se ciò che ho detto è vero oppure no[6]? E, soprattutto, che cosa posso definire come vera conoscenza?
Il problema della conoscenza, come conoscenza-adeguata, è quello di stabilire cosa posso dire di sapere o no. In questo senso, la conoscenza è conoscenza-di qualcosa. Ma la conoscenza è determinata a partire da qualcuno che la pensa[7]. Soggetto e oggetto sono condizioni necessarie ma non sufficienti per definire in generale cosa è una conoscenza vera: bisogna che si definisca in sé stessa la relazione tra il soggetto e l’oggetto. Da un lato il problema riguarda solo l’oggetto della conoscenza: devono esserci una serie di criteri che mi dicano se un oggetto-conosciuto sia vero o no. D’altra parte, il problema si pone dal punto di vista del soggetto: definire la modalità attraverso cui un soggetto pensante può giungere ad avere una conoscenza esatta di qualcosa.
In sintesi estrema, per una teoria della verità, che funzioni: 1) deve essere definito l’oggetto della conoscenza, dunque la verità. 2) Le proprietà formali che questo oggetto-conosciuto possiede, ovvero i criteri di verità. 3) Il soggetto conoscente e 4) il metodo attraverso cui il soggetto può arrivare a conoscere.
Il modello della “vetus opinio”.
Cartesio si trovava in un periodo in cui la scolastica di stampo aristotelico costituiva senz’altro il paradigma filosofico dominante. In questa tradizione, di carattere sostanzialmente empirista, la conoscenza era derivata dai sensi e, per astrazione, si giungeva alla conoscenza delle qualità astratte delle cose. La grandezza e l’estensione non erano qualità proprie degli oggetti, ma delle astrazioni operate dalla mente dalle informazioni tratte dagli oggetti. Il soggetto era semplicemente un “corpo”, dotato, certo, di un’anima razionale, che apprendeva la conoscenza a partire dai sensi.[8]
Questa concezione “esternista” della verità, cioè dove il contenuto delle idee era sostanzialmente recepito dall’esterno, venne rifiutata da Cartesio: egli, nella prima Meditazione, mette in discussione tutte le concezioni empiriste della tradizione scolastica.
Il modello delle conoscenze esatte.
Ma Cartesio non ha solo un punto di riferimento negativo, un esempio da imitare all’incontrario: egli ha in mente come debba procedere. Infatti, la sua finalità è la fondazione della scienza come scienza rigorosa volendo intendere con ciò, una scienza che possa potersi pensare come infallibile. Scienza infallibile che sia conoscenza reale dei corpi esterni: una fisica.
Esisteva già un discreto livello di conoscenza della matematica e della geometria e lo stesso Cartesio è uno dei più geniali matematici di tutti i tempi[9]. E la conoscenza della matematica da parte di Cartesio costituisce senz’altro uno dei punti di partenza anche per la riflessione filosofica[10]. Già nel discorso del metodo, ciò appare piuttosto chiaro e lo stesso metodo ricorda molto i procedimenti che spesso si compiono in matematica.
Il problema nelle Meditazioni era passare da un piano propriamente operativo[11], ad uno propriamente metafisico, capace, cioè, di delucidare con chiarezza ciò che è oggetto di verità e falsità, a prescindere da ogni aspetto particolare e parziale. In questo senso, se il “Discorso del metodo” rappresenta il momento in cui Cartesio descrive un modo utile di operare, solo nelle Meditazioni arriva il passaggio di giustificazione della propria teoria della verità[12].
A questo punto è chiaro il fine: la fondazione della scienza. E’ chiaro il modello positivo: la matematica e la geometria. E’ già pre-definito il metodo attraverso cui giungere alla verità: il metodo cartesiano. Rimane soltanto da eliminare la “vetus opinio” e affermare sistematicamente la teoria positiva alternativa della verità.
Dubbi sistematici: una questione di metodo.
Eccoci giunti alla Meditazione I: a questa operazione di ridefinizione paradigmatica, fa precedere una precisazione metodologica: di tutto ciò di cui si può dubitare, va predicata falsità. Infatti, tutto ciò di cui si può dubitare è solo possibile. Ma se una cosa è possibile, non è certa, cioè può essere e non-essere e noi non sappiamo se sia o non-sia. Così, se semplicemente dicessimo che tutto ciò che è possibile è falso, o determineremmo che non v’è nulla di certo, oppure arriveremmo a scoprire una qualche verità[13].
Il dubbio infatti è l’accostamento di una negazione rispetto ad un’affermazione e se tale operazione è possibile allora scopo che l’affermazione di base non era certa, al di fuori, appunto, di ogni ragionevole dubbio. Se scopro invece che il dubbio implica contraddizione, o non è possibile, allora mi renderò conto di aver scoperto una nuova verità.
Posso dubitare di ciò che vedo e sento: i miei sensi mi hanno ingannato a volte e non posso fidarmi di ciò che mi ha ingannato anche solo una volta[14].
Posso dubitare di ciò che credo esistere fuori di me: su cosa fondo la mia credenza dell’esistenza di ciò che esiste fuori di me? Sul fatto che mi sembra che le cose siano effettivamente a me esterne. Tuttavia anche quando sogno vedo piccioni nella mia stanza e scompaiono quando mi sveglio. E il guaio è che io non ho affatto alcuna capacità di distinguere il sonno dalla veglia[15].
Sembrerebbe che debba concedere l’esistenza dell’estensione e dei colori: infatti per quanto mi inganni sulle cose al di fuori di me e su ciò che predico di loro, ciò nonostante non posso ingannarmi sulle qualità generali delle sensazioni che ricevo ( posso pensare benissimo ingannarmi sul colore del mio corpo, ovvero dell’attribuzione che io faccio a quell’oggetto che io concepisco come “mio corpo”, ma non mi dovrei sbagliare su quella qualità “colore” concepita almeno sotto un aspetto soggettivo ). Ma non è nemmeno vero questo, nella misura in cui un genio maligno potrebbe indurmi in inganno ogni volta che sento e immagino qualche cosa.
Qualcuno però direbbe che, nonostante possa effettivamente dubitare di tutte queste cose, non possa dubitare che due e due facciano quattro: che dorma o sia sveglio, che il mio daltonismo mi faccia vedere viola anziché verde o la mia immaginazione mi faccia vedere cose che non ci sono, se penso due più due non posso non far seguire il quattro e ciò è indipendente da tutti gli inganni possibili e precedenti. Eppure potrei esser fatto molto male, come un computer progettato dalla mente di uno scarso ingegnere, cosicché ogni qual volta compia un’operazione, una qualunque, a partire dal mio intelletto, mi sbagli sistematicamente[16]. Se il computer è fatto da un ingegnere, io da Dio: Dio potrebbe avermi creato male.
Tutto ciò è il risultato della Meditazione I che ci mette in guardia su tutto ciò su cui siamo soliti considerare come vero. Esso non è al di fuori di dubbio e, per ciò, dobbiamo per il momento considerarlo falso. In effetti, già dalla Meditazione abbiamo un solido criterio di falsità, quindi di verità: ciò che è vero è fuori di dubbio, mentre ciò che è falso è possibile. Il dubbio infatti non arriva mai a dare una risposta definitiva: esso può arrivare a farci scoprire una verità. Esso, dunque, può, al più, essere d’aiuto. Così, su tutti i dubbi esposti sopra, va tenuto presente che le possibilità messe in discussione non sono passate attraverso una sorta di “rasoio” di Occam a partire dal quale tutto ciò che è nel dubbio è rigettato[17]. Per il momento, semplicemente, si deve mettere tra parentesi.
Il principio primo: l’affermazione della verità non-inferenziale.
Per giungere alla prima certezza bisogna aspettare alle prime pagine della Meditazione II, dove viene precisata la natura indiscutibile del cogito: « Suppongo dunque che tutto quel che vedo ora sia falso, e anche la memoria mi inganni, ossia che non sia mai esistito niente di quel che essa mi rappresenta; e cioè suppongo di non avere affatto i sensi, e che siano chimere il corpo, la figura, l’estensione, il movimento e il luogo. Allora, che cosa sarà vero? Forse –dicevo- soltanto che non c’è niente di certo. (…) Non vedo proprio perché mai dovrei crederlo, dal momento che potrebbe pur darsi che a produrli sia io stesso. Ma, allora, non sarà qualcosa almeno io? E’ a questo punto che rimando incerto, perché è vero che ho supposto di non avere affatto sensi né corpo, e tuttavia –mi chiedo- sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non esistere senza di essi? (…) No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! Ma se ci fosse un non so quale ingannatore, quanto mai potente ed astuto, che si dia da gare ad ingannarmi sempre? Ebbene, nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io; (…) l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero, ogniqualvolta io lo pronunci o lo concepisca mentalmente »[18].
La conoscenza dell’Io penso è al di fuori di dubbio prima di tutto perché anche negando la mia esistenza, la affermo ( « Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! », posso infatti anche ingannarmi su tutto, anche sul fatto che io abbia un corpo, ma non posso negare di star pensando nel momento in cui dubito ), in secondo luogo perché è una conoscenza a me innata: la conoscenza innata è una conoscenza che non è determinata dall’esterno ( i corpi sono messi in dubbio e tutto ciò che è legato alla percezione dell’estraneità da me ) e che è il principio dal quale si parte e al quale non si perviene attraverso inferenza[19].
Che l’esistenza del cogito sia al di fuori di ogni possibile inferenza è mostrato dal fatto che essa è già implicita nel dubbio: non posso dubitare senza esistere ma posso esistere senza dubitare. Inoltre, il dubbio non è propriamente una forma dalla quale possa trarre inferenze, ma è una attività del pensiero che mi consente di scoprire delle evidenze, ovvero delle idee chiare e distinte. Ciò è possibile ammesso che al dubbio segua pure un’adeguata riflessione, altrimenti il dubbio non ha alcun senso. Dalla sola asserzione “può essere e non essere che domani pioverà” non traggo nessuna conseguenza se non escludo prima una delle due possibilità opposte, nel dubbio non c’è ancora contraddizione reale, essa è solo possibile: solo da una delle due ramificazioni posso trarre inferenze, da una possibilità presa per vera, non dal dubbio in quanto tale.
Inoltre va tenuto conto che Cartesio nelle Meditazioni, compie oltre ad un’opera filosofica, anche un’opera letteraria in cui le singole parti di ciascuna Meditazione ( per non dire, quasi, ogni frase ) svolge un ruolo sia filosofico sia di struttura rispetto all’unica costruzione generale. In questo senso non deve trarre in inganno che la presentazione del dubbio sistematico, operata nella Meditazione I[20], sia posta prima dell’esistenza del cogito per ragioni utili alla ricezione dell’opera, che è certo una parte della sua stessa finalità: per capire il nuovo, elimina prima il vecchio. Quindi, non va creduto che sia il dubbio a far seguire la certezza dell’Io.
Una volta chiarito che non si può prestare fede al complesso della vecchia opinione, possiamo iniziare a cercare di trovare una qualche verità, un’idea a cui possa appigliarmi. Ma come potrebbe essere una tale idea a sua volta determinata da un’inferenza? Ammettiamolo pure: e sia l’Io penso un’inferenza. Ma una qualsiasi inferenza è preceduta da un’altra e così come possiamo avere un punto d’appoggio se questo scivola via sempre all’indietro? Quindi ci serve un principio primo dal quale poter prendere le mosse, non ulteriormente definibile, principio che ci faccia da “regola guida” e, allo stesso tempo, da norma-logica su cui fondare eventualmente altre verità. Insomma, questa verità primordiale deve essere principio secondo tutti i significati impegnativi che implica tale parola.
Ma l’Io penso è posto proprio come questo principio primo, nel senso che è l’incipit di ogni conoscenza successiva, funge quindi da punto-partenza nel senso che, se si prescindesse da questa prima cognizione non potrebbe seguire nessuna idea che non sia anche partecipe del dubbio, ma ( e ciò è evidente dall’asserzione posta nella Meditazione III ) tale conoscenza funge anche da “regola formale” per la determinazione delle altre verità[21].
A questo punto, bisogna far attenzione che l’Io penso non implica affatto alcuna conoscenza ulteriore rispetto all’asserzione di “conoscenza di sé in quanto cosa pensante”. In quanto pensiero io sono sicuro di esistere, non in quanto corpo[22].
Il criterio d’esistenza della conoscenza.
La definizione dell’Io penso però non è sufficiente per farci pervenire ad una conoscenza reale delle altre cose. Infatti, il dubbio più arduo da risolvere non è tanto quello dell’esistenza dei corpi esterni, ma è dimostrare che io, ogni qual volta utilizzi la ragione, non mi inganni. In altre paro, la questione nel Dio non ingannatore è la questione centrale, subito successiva a quella dell’io.
Seppure non siamo ancora riusciti ad andare oltre la verità del cogito, possiamo però spingerci più in là. Possiamo infatti definire le proprietà della mente a partire da ciò che sappiamo di dubitare: « So dunque che cosa sono: una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente »[23]. Posso infatti dubitare su ciascun risultato della mia attività intellettuale, ma non posso dubitare, una volta ammesso che Io sono in quanto penso, che quei dubbi mi mostrino delle attività del pensare. In questo passo vengono messe in luce tutte quelle facoltà di cui s’è messo in dubbio la bontà dei risultati.
A questo punto, il passaggio successivo, quello che qualcuno ha definito come il “valico” delle meditazioni, è dunque quello di dimostrare che la mia natura non è fatta in maniera fallace, nel senso che io sia condotto a sbagliare tanto che immagini o intenda con l’intelletto. Ciò rappresenta un ostacolo per la teoria della verità perché, se si dimostrasse che ogni volta pensi a qualcosa io sia indotto in inganno, non potrei che esprimermi per probabilità che, per quanto utili, non rappresentano una conoscenza vera[24].
Dio, dunque, è il criterio di esistenza della verità sia perché esso fa sì che il soggetto non sia fallace, sia perché, come arriverà a concludere, è colui che può creare tutto ciò che io penso chiaramente e distintamente[25]. Se Dio mi avesse creato male, la strada della verità sarebbe come un tunnel senza uscita: impraticabile.
Cartesio, prima di dimostrare l’esistenza di Dio, guarda se già nella conoscenza che abbiamo della mente non possa trovarsi nulla che possa garantirmi una conoscenza certa. Ma questa strada non è percorribile perché quell’unica possibilità, per il momento, sembrerebbe quella offerta dalla vecchia opinione che prende per vere le idee “avventizie” ovvero ottenute a partire dalla mia sensibilità.
D’altra parte è evidente che io ho una certa idea di Dio. Come tutte le idee, quest’idea ha una realtà formale e una oggettiva[26]. Di Dio ho un’idea che mi supera enormemente, ovvero ha un contenuto di molto maggiore a quello che io posso farmi di me stesso. Ma come fa una cosa così imperfetta e limitata, cioè l’Io, a farsi un’idea di una cosa molto più perfetta di lei? E’ dunque chiaro che Dio deve avermi impresso in me l’idea di se stesso[27][28].
Dimostrata la natura di Dio, si pongono una serie di altri problemi, per esempio la definizione dell’infinito come idea inderivabile dalla mente finita, se non a partire dal fatto che è in essa innata, oppure la sollevazione e la risposta all’obiezione dell’attribuzione antropologica di Dio ( potrei predicare di Dio ciò che sono io ). Ma qui ci interessa piuttosto notare che Cartesio propone delle dimostrazioni fondate soprattutto sull’impossibilità di rifiutare le ipotesi, quindi, di conseguenza, anche le tesi, dei suoi ragionamenti. In questo si dimostrerebbe anche coerente con se stesso: « E le verità di questo genere sono tanto palesi ed in accordo con la mia natura che, quando le scopro per la prima volta, ho l’impressione, più che di imparare qualcosa di nuovo di ricordarmi di qualcosa che conoscevo già, ossia di prestare attenzione per la prima volta a quel che pure era già in me, anche se per l’innanzi non vi avevo ancora rivolto lo sguardo della mente… »[29].
A questo proposito ci sembrerebbe che le cose stiano così: che per ragionare bisogna pensare idee chiare e distinte, che gli stessi ragionamenti non sono altro che connessioni di idee delle quali potremmo predicare di per loro l’esistenza, chiara e distinta, anche senza vederle connesse con le altre. Sia per il fatto che la teoria del giudizio è posta alla fine della metafisica-della verità, se così si può dire, ovvero di tutta quella serie di criteri che rendono possibile una predicazione vera; sia per il fatto che al giudizio concorrono diverse facoltà, sembra che la questione fondamentale nella teoria della conoscenza e del giudizio, in generale, sia piuttosto quella riguardante le idee e non la volontà in senso stretto.
In questo senso, acquisirebbe anche un senso lo “stile” stesso delle Meditazioni: esse sono volte senz’altro a dimostrare la teoria metafisica della verità ( della fisica ), ma sono scritte come delle proposte di ragionamento, suggestioni per chi sia disposto a conoscere da sé e pervenire ad una conoscenza adeguata delle cose. Esse si presentano come riflessioni di un “Io” che si vede allo specchio. E in questa “specularità-riflessiva” ciò che viene “dimostrato” è, soprattutto, mostrato. Infatti, la volontà non determina alcuna conoscenza, piuttosto può assecondare alla conoscenza.
Riflessione III. Le facoltà della mente.
La strada che ci ha condotto sin qui non è stata percorsa invano: ci è servita per delineare gli estremi della teoria della verità del giudizio. Infatti, Cartesio concede che è vero o falso solo il giudizio. Le idee, se prese in loro stesse non sono mai errate.
Ma i criteri per definire la verità li abbiamo indicati più sopra e la strada sin qui condotta da Cartesio è stata proprio indirizzata per risolvere la delicata questione: 1) ha definito l’oggetto della conoscenza: le idee. 2) Le proprietà formali che questo oggetto-conosciuto possiede, ovvero i criteri di verità: le idee vere sono anche chiare e distinte, e/( dunque ) indubitabili. 3) Il soggetto conoscente: l’Io penso. 4) il metodo attraverso cui il soggetto può arrivare a conoscere: il dubbio iperbolico e la conoscenza immediata di idee chiare e distinte.
A questo punto non siamo poi così lontani dalla questione che ci siamo proposti di risolvere. Ma dobbiamo prima soffermarci sulle proprietà della mente.
All’inizio della Meditazione IV, quella che riguarda più propriamente il nostro argomento, Cartesio finalmente giunge alla definizione del Dio non ingannatore: « Per cominciare, dunque, riconosco che non può accadere che Dio mi inganni mai; ché in ogni frode o inganno si trova un qualche genere di imperfezione… »[30]. Soluzione questa a cui il filosofo premeva ad arrivare perché su questa, come s’è detto, si giocava la stessa possibilità che la nostra natura fosse fallace. E così non è.
Abbiamo ottenuto molto: la conoscenza esatta è possibile, la conoscenza è la conoscenza delle idee e a partire dalle caratteristiche formali di queste si può risalire alla loro veracità. Le conseguenze di questa concezione è soprattutto posta nella Meditazione V, dove si esplicita la veracità della conoscenza matematica e, soprattutto, nella Meditazione VI, dove si arriverà addirittura a conoscere le cose esterne. Ma, in quanto la Meditazione IV rappresenta un po’ una parentesi nella strada, appunto, della conoscenza[31], possiamo dare, per ottenuti i risultati delle altre meditazioni successive: infatti nella teoria del giudizio, non è interessata, propriamente alla questione delle cose esterne e dei dubbi rimanenti, per la sua esistenza e definizione bastava che si abbia la possibilità di predicare la verità ovvero di poter distinguere un giudizio vero da uno falso e attraverso quale modo noi giungiamo a predicare cioè quali sono le facoltà che concorrono nella produzione dei giudizi. La prima questione, si può dire, è già risolvibile alla luce del precedente, vediamo di affrontare la seconda questione.
Bisogna parlare un attimo delle facoltà della mente in generale: la mente è una cosa che pensa e ciò lo sappiamo già dalla Meditazione II: « So dunque che cosa sono: una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole non vuole, e anche immagina e sente »[32] e: « …io concepisco bensì sempre qualcosa come oggetto del mio pensiero, ma, oltre a questa rappresentazione di qualcosa, nel mio pensiero è compreso anche altro; e questi altri pensieri sono chiamati, rispettivamente, volontà, affetti e giudizi »[33].
Quindi il cogito è fondamentalmente intelletto, volontà, immaginazione e sensibilità.
La sensibilità « …non appare affatto evidente che in più essa insegni di concludere alcunché, da queste percezioni dei sensi, relativamente alle cose fuori di noi, senza un esame preventivo da parte dell’intelletto, per il buon motivo che di conoscere la verità su di esse sembra competere esclusivamente alla mente, e non al composto di mente e corpo »[34].
In questo senso, la sensibilità ci avverte della presenza di cose fuori di noi, ma non è mai in grado di pervenire ad una definizione degli oggetti: l’esempio del Sole e della cera, giocati da Cartesio su un terreno squisitamente empirista, sono molto convincenti in tal senso. Ma questo cosa ci dice: che la mente si inganna senza dubbio su tutto ciò che giudica a partire dalla sensibilità[35]. Se un oggetto è definito dalle sue proprietà, se la sensibilità ci avvisa di alcune qualità inessenziali all’oggetto stesso, cioè, se tolte, non tolgono l’oggetto, allora la sensibilità non ci informa delle cose fuori di noi[36].
L’immaginazione è definita nella seconda meditazione: « … immaginare non è che la contemplare la figura, o, appunto, l’immagine di qualcosa di corporeo ».
In questo senso, dell’immaginazione si può predicare la stessa erroneità della sensibilità. Infatti l’immaginare qualcosa è successivo al momento della percezione: seppure posso creare delle immagini di cose del tutto inesistenti, dunque impercepibili, ciò non toglie che tali figure sono sempre delle associazioni di idee parziali. Come un quadro è fatto da “pezzi”, immagini esperite, allo stesso modo opera l’immaginazione. Quindi anche l’immaginazione non ha un valore positivo nella conoscenza delle essenze delle cose.
La ragione, cioè la capacità di comprendere, è competenza dell’intelletto. L’intelletto è una facoltà finita della mente che tende ad avere una conoscenza infinita ma che mai la raggiungerà in atto. Cartesio sottolinea più volte che sin tanto che seguiamo l’intelletto, siamo incapaci di sbagliarci[37]. E lo sforzo della dimostrazione di Dio, e della sua veracità, sta proprio in questo: che l’intelletto possa dirsi ben fatto. Se la conoscenza è conoscenza a partire da idee innate, se le idee innate non si determinano dalla somma di idee più semplici[38] allora l’intelletto è quella facoltà della mente capace di “intuire” le idee innate. Non a caso, quando Cartesio descrive la conoscenza intellettuale non la pone come un che di “discorsivo” ma, semplicemente, come una serie di “scoperte”. E non si può scoprire ciò che si crea dal nulla[39].
La volontà è quella facoltà della mente capace di asserire o negare, di fare e non-fare. Cartesio non limita la mente alle sue pure funzioni conoscitive, sensibilità-immaginazione e intelletto, ma mantiene una certa indipendenza alla facoltà decisionale umana. La volontà infatti si configura indipendente dal suo oggetto, ma non è indifferente, in tutto, alla conoscenza. In questo senso, la volontà si qualifica in relazione alla sua conoscenza che, non a caso, ne determina anche la definizione in termini di libertà. Così si può dire che la conoscenza definisca la volontà[40] e non viceversa.
La volontà è sempre libera, mai coatta, in un certo senso. E ciò non sarebbe possibile se non fosse in una certa misura indipendente dall’oggetto. D’altra parte, bisogna vedere in che senso la volontà si dica “libera”. Se la volontà non indifferente alla conoscenza dell’oggetto con cui si trova a che fare, se la conoscenza, in senso lato, o dipende dall’intelletto o dalla sensibilità-immaginazione allora risulta chiaro come la volontà libera si configura in modo diverso a seconda che l’oggetto sia posto dalla sensibilità o dall’intelletto.
Partiamo da ciò che sappiamo: la sensibilità determina una conoscenza oscura e parziale delle cose fuori di noi, nel senso che è incapace di mostrare le proprietà degli oggetti. Nonostante ci sia molto preziosa in linea pratica, e nonostante ci illustri moltissime proprietà inessenziali degli oggetti, tale “inessenzialità” mostra anche la sua stessa imperfezione epistemologica. Dunque, se mi formerò un’idea di una cosa a partire da ciò che percepisco in prima istanza, senza riflettere adeguatamente su ciò che vedo, allora la mia conoscenza sarà, come dimostra la stessa esperienza quotidiana, abbastanza manchevole. La sensibilità mostra, come Cartesio si è prodigato di dimostrare, solo cose possibili, non necessarie. In questo senso, la conoscenza della sensibilità è legata al dubbio e alla dubitabilità.
D’altra parte nel momento in cui conosco per via intellettuale mi rendo conto che le idee che scopro sono chiare e distinte e, particolare affatto inessenziale, sono mie: esse, cioè, fanno parte della mia stessa natura.
Riflessione IV. La giudizio vero e falso: due modi di dire.
Buone ragioni per concepire il giudizio parzialmente indipendente dalla facoltà conoscitiva.
Fin qui abbiamo mostrato la teoria della verità di Cartesio, ovvero cosa il soggetto conosca e quale sia il modo attraverso cui giunge ad una conoscenza coerente ed adeguata delle cose.
Dobbiamo innanzitutto notare come ci sia una separazione sostanziale tra due sfere: quella epistemologica, in senso proprio, e quella della predicazione ( che è, in un certo senso, un’azione ). Ciò è mostrato da diversi punti: 1) intanto, Cartesio non si pone il problema del giudizio che alla Meditazione IV. Se stessimo solo ai sottotitoli ci renderemo meglio del percorso che egli stesso ha seguito: Meditazione I: Di che cosa si ha ragione di dubitare; Meditazione II: La mente umana, e come la si conosca meglio che i corpi; Meditazione III: Esistenza di Dio; finalmente la Meditazione IV: il vero e il falso. Dunque la teoria del giudizio arriva solo dopo aver dimostrato l’esistenza dell’Io penso e delle sue facoltà ( Meditazione II ), dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio ( Meditazione III ) e la sua conseguente veracità ( esplicitata al principio della Meditazione IV, ma che, proprio perché, quasi come incipit[41], si può dare per conseguente sin dal momento in cui di Dio si è predicata la perfezione e l’infinità ); e dopo aver illustrato prima di tutto da dove giungano le idee confuse ( Meditazione I ) e, in secondo luogo, da dove può provenire la nostra conoscenza ( infatti, dopo aver dimostrato che la nostra natura non è fatta in modo fallace, mentre la nostra sensibilità ci conduce irrimediabilmente ad una conoscenza assai parziale delle cose, è evidente che la nostra conoscenza non può che derivare dall’intelletto )[42].
2) Se qualcuno dicesse che, però, delle idee innate, esplicitamente, Cartesio parla solo nella Meditazione V, potremmo rispondere semplicemente che, come detto sopra, ciò non costituisce una ragione sufficiente per escludere che già dalla dimostrazione del Dio non ingannatore non si possa già implicitamente pensare alla veracità delle idee innate. Anzi, questa tesi sembrerebbe essere più che accettabile.
3) E’ da notare poi che del giudizio Cartesio ha già, in alcuni punti, accennato ovvero quando ha definito la mente!: « So dunque che cosa sono: una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente »[43]. Qui viene presentato in termini generali come “proprietà della mente” e poi, come abbiamo già ricordato, viene detto che: « Invece, altri pensieri hanno in più anche forme ulteriori: quando per esempio voglio, o temo, o affermo, oppure nego, io concepisco bensì sempre qualcosa come oggetto del mio pensiero, ma, oltre a questa rappresentazione di qualcosa, nel mio pensiero è compreso anche altro; e questi altri pensieri sono chiamati, rispettivamente, volontà, affetti e giudizi »[44]. Possiamo affermare che Cartesio assuma come distinto il livello della predicazione ( del giudizio ) da quello della conoscenza, per quanto le due sfere, chiaramente, sono connesse.
4) Nella stessa enunciazione della teoria dell’errore si dà chiaramente questa separazione tra volontà ed intelletto o, se vogliamo parlare in termini più generali, delle facoltà conoscitive della mente ( intelletto, sensibilità-immaginazione ): « …dal solo fatto che, dato che la volontà è più ampia dell’intelletto, io non la trattengo nei medesimi limiti di questo, bensì la estendo anche a quel che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente, facilmente deflette dal vero e dal buono, ed è così che io mi inganno o pecco »[45]. Volontà e intelletto-immaginazione-sensibilità sono due facoltà diverse. Chiaramente, in quanto modi della mente, essi costituiscono dei modi-d’essere di un’unica cosa, ma, in quanto proprietà, dissimili l’una dall’altra.
5) In fine, si può notare come la volontà ( facoltà imprescindibile nel giudizio ) sia del tutto scissa dalle facoltà conoscitiva, cioè indipendente, in quanto essa non ha potere sul suo oggetto né può modificarlo in alcun modo: la presentazione stessa della conoscenza inadeguata della sensibilità mostra che essa è involontaria e nemmeno correggibile[46]. D’altra parte, nemmeno si può dire che io capisca qualcosa in virtù della volontà.
Ci pare di aver sufficientemente mostrato come la volontà e le facoltà conoscitive della mente siano degli attributi diversi di una stessa cosa, la res cogitans. Ciò è centrale perché nella facoltà del giudicare concorrono entrambe le due facoltà. Così il giudizio è possibile se e solo se volontà e facoltà conoscitive concorrono entrambe e non l’una per sé. La facoltà conoscitiva è il criterio necessario, in quanto, se tolto, è tolto anche il “materiale informativo” da cui trarre il giudizio stesso; ma non sufficiente, in quanto il giudicare non è implicato dall’atto conoscitivo stesso ( e in ciò, se vogliamo, possiamo anche dare ragione in virtù della stessa esperienza quotidiana ). D’altra parte, abbiamo bisogno della volontà senza cui non ci sarebbe alcun giudizio. Così arriviamo a questa soluzione: la facoltà conoscitiva è condizione necessaria e la volontà la sufficiente.
Il criterio di distinzione e verità del giudizio.
Nella predicazione, per Cartesio, concorrono così due facoltà distinte: volontà e facoltà conoscitiva, in generale. Il giudizio è, propriamente, la capacità di espressione intorno alle cose, il linguaggio, genericamente inteso.
Nella teoria del linguaggio cartesiana, se così si può dire, il senso e il significato[47] sono offerti dalla stessa facoltà conoscitiva. D’altra parte, per un atto linguistico, come abbiamo detto, non è sufficiente la conoscenza, abbiamo bisogno anche della volontà. Così, vediamo subito che l’atto di giudizio, in Cartesio, è un atto sempre volontario.
La verità dell’atto linguistico è garantita dalla stessa conoscenza che abbiamo. In questo senso, se abbiamo una conoscenza chiara e distinta delle cose, non potremmo certo formulare un giudizio falso: « … poiché egli non mi ha dato una facoltà di giudicare tale che possa darsi che io erri finché ne faccio un uso corretto »[48]. Dunque, sin tanto che sono all’interno della conoscenza delle idee chiare e distinte non posso sbagliarmi, nel senso che non posso nemmeno esprimere dei giudizi privi di valore di verità, o falsi. Possiamo concludere che, sin tanto che uso il mio intelletto per formulare giudizi, non posso sbagliarmi[49].
In questo senso, sembrerebbe che il problema della verità e della falsità dei giudizi si risolva esclusivamente in questo. Ma non è così. La questione, ora, non è stabilire da dove venga l’autorità delle idee chiare e distinte, ma stabilire quando i giudizi sono veri. Dunque, sino ad ora abbiamo detto solo la provenienza del senso-significato dei giudizi, ma non il criterio di verità in senso proprio: ciò che distingue propriamente la teoria della conoscenza dalla teoria del linguaggio.
Abbiamo detto che il giudizio trae il suo materiale dalla conoscenza, ma che in essa non si esaurisce. E questo perché, nella sua formulazione, concorre anche un’altra facoltà: la volontà. A questo punto, possiamo esplicitare il criterio di verità del linguaggio: il giudizio è vero se e solo se è vero per tutti i soggetti conoscenti.
In questo sta la sostanziale differenza tra idee e giudizi. Infatti le idee, se prese per sé stesse, non sono mai né vere né false per la semplice ragione che sono sempre interne ad un soggetto: « Per tanto, non è necessario, sicuramente che a idee di questa natura io assegni altro autore che me stesso (…) »[50]. In una certa misura anche le idee provenienti dai sensi non possono essere del tutto considerate errate.
Un’idea parziale e inadeguata, per quanto sia confusa e oscura, ha in sé qualcosa di vero. L’idea materialmente falsa è quell’idea che, comunque venga predicata, è sempre falsa: « Infatti, ho bensì notato sopra che la falsità, intesa in senso proprio, o formale, non si può trovare che nei giudizi; e tuttavia nelle idee c’è di certo un’altra falsità, che si potrebbe dire materiale, allorché esse rappresentino una non-cosa come se fosse una cosa (…)»[51]. Si noti che, in questo caso, la falsità materiale è introdotta da un condizionale “si potrebbe dire” che potremmo anche interpretare come un che di convenzionale. Ed in questo potremmo vedere non la natura degli errori delle idee, ma dei giudizi: se non ci esprimessimo su tali idee, non sbaglieremmo comunque.
A questo punto potremmo esprimere in questo modo la teoria dei giudizi veri: è vero quel giudizio che, determinato da una conoscenza adeguata della cosa di cui si sta predicando, è vero per tutti i soggetti linguistici possibili. In questo senso, la verità del giudizio attinge direttamente dalla “fonte” della verità e contemporaneamente non si riduce a questo perché necessita di un criterio di verità ulteriore che è propriamente quello linguistico.
Questa serie di criteri, sia dell’ordine precedente a quello del giudizio vero e proprio ( ordine epistemico ) sia dell’ordine del giudizio per sé preso ( ordine linguistico ) riescono a determinare una possibilità: quello di non poter sbagliare mai. Se, infatti, si riuscisse sempre a pensare a partire dal proprio intelletto e se si potesse far aderire sempre la nostra volontà a quello non saremmo in grado di sbagliare. Così è pienamente giustificata l’asserzione di Cartesio secondo cui: « … poiché egli [ Dio ] non mi ha dato una facoltà di giudicare tale che possa darsi che io erri finché ne faccio un uso corretto »[52].
Forse sarebbe ardita questa possibile tesi: che Cartesio è riuscito nell’intento di fondare la scienza intesa come “buon linguaggio”. Essa infatti è capace di essere pensata come “descrizione-infallibile” nella misura in cui noi stessi potremmo far uso di un linguaggio epurato da qualsiasi tipo di errore. Se questa operazione, quella della possibile creazione di un linguaggio “perfetto”[53], non era stata prevista da Cartesio, potremmo però dire che in questo già potrebbe vedersi quella volontà di “creazione” di un linguaggio-formale privo di ambiguità che per tanto tempo e che per tanti pensatori rappresenterà l’ideale della loro ricerca logica-filosofica.
Di una cosa è certa, già in quelle pagine delle Meditazioni è chiaro come la fondazione della scienza sia messa a punto sotto ogni profilo che quella forma di conoscenza che si svilupperà anche molto dopo la morte di Cartesio e che ancora oggi vive di “cartesianesimo”.
La teoria dell’errore.
Ma noi diciamo spessissimo cose che non stanno né in cielo né in terra e di ciò Cartesio deve tenere conto. In questo delicato problema, quello dell’errore, che è uno dei temi trasversali più importanti e ricorrenti di tutte le Meditazioni Metafisiche[54], si gioca il valore dell’intero sforzo di Cartesio. L’ombra dell’impossibilità di rimozione dei dubbi, anche di quelli nuovi e delle singole obiezioni, è sempre dietro l'angolo.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la natura dell’errore è da ricercarsi a due livelli diversi: a livello conoscitivo e a livello propriamente linguistico. Abbiamo già detto, infatti, che le idee, di per loro, non possono essere né vere né false, solo dei giudizi si può dire che siano veri o falsi.
Sappiamo bene che le proprietà della mente sono diverse: intelletto, sensibilità, immaginazione e volontà. E sappiamo che le idee dell’intelletto, essendo questo ben fatto dall’artefice, non può condurci all’errore. A questo punto non rimane che concludere che solo delle idee che ci giungono dalla sensibilità possiamo derivare delle nozioni confuse ed oscure tali che potrebbero essere anche sbagliate[55].
“Potrebbero essere anche sbagliate” non significa che lo siano necessariamente, infatti potrebbe anche darsi che “indoviniamo” la risposta giusta, pur avendo in noi un’idea del tutto confusa della faccenda[56]. Il fatto è che la conoscenza confusa e parziale non determina in noi nessuna necessaria conclusione: ciò è mostrato in modo evidente dal dubbio. Come avevamo detto, da un dubbio possono essere determinate più risposte, nella misura in cui si ignori una delle due possibilità che il dubbio mette in luce. Prendiamo a questo punto un dubbio di matrice cartesiana: il dubbio sulla percezione delle cose esterne. Sin tanto che non conosco le cose a partire dall’intelletto, posso dire che il sole è piccolo quando è enorme. Ma, se ci faccio caso, dalla sola percezione non è escluso che il sole sia effettivamente enorme. Ciò perché una conoscenza riconosciuta sol come possibile non implica in alcun modo l’esclusione dell’opposta.
In questa “duplicità” della conoscenza oscura e confusa sta l’indecisione della volontà. La volontà, quando si trova di fronte ad una conoscenza meramente intellettuale, non può sottrarsi dall’assentire in quanto non si trova di fronte a nessuna possibilità alternativa né, d’altra parte, si trova a diffidare da quel che l’intelletto propone. Il caso opposto si da nel caso inverso: se la conoscenza è solo possibile, anche se probabile ( come nel caso del dubbio dell’esistenza delle cose esterne ) non delinea di per sé alcuna ragione che faccia propendere più per una possibilità piuttosto che per un’altra.
Quindi abbiamo da un lato la conoscenza delle idee chiare e distinte e, dall’altra, la conoscenza di idee oscure e parziali, da un lato una sola possibilità, che è pure necessaria, e dall’altra due possibilità almeno, certamente non fuori di dubbio.
La volontà gioca a questo punto un ruolo importante: la volontà attinge, per il suo oggetto, tanto dalle idee chiare e distinte che dalle idee oscure e parziali. In questo sta l’infinità della volontà: l’immaginazione, cioè la capacità di porre figure nuove, non percepite immediatamente dai sensi, pone un’infinita possibilità di combinazione[57] e, allo stesso tempo, essa attinge anche dall’intelletto. L’intelletto sappiamo che è una facoltà finita, mentre la volontà no. Se la volontà fosse aderente solo all’intelletto allora sarebbe anche incapace di sbagliarsi: « … dal solo fatto che, dato che la volontà è più ampia dell’intelletto, io non la trattengo nei medesimi limiti di questo, bensì la estendo anche a quel che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente, facilmente deflette dal vero e dal buono, ed è così che io mi inganno o pecco ». Come ci dice Cartesio stesso, la vita spesso ci costringe a dire e agire anche senza che abbiamo conosciuto le cose come stanno con la sufficiente chiarezza: così spesso siamo portati a sbagliare[58].
E da questa considerazione possiamo adesso descrivere, qualificare, la volontà nei termini della sua libertà: se la volontà è determinata da una conoscenza adeguata allora sarà libera nel senso che svolgerà se stessa non costretta da nulla. E in questa volontà-liberà sta un valore positivo perché essa avrà delle valide ragioni per agire e, quelle stesse, saranno anche le stesse della natura umana, determinata solo da se stessa. Se invece la volontà sarà determinata dalle idee oscure e parziali allora la volontà sarà indecisa e non sarà capace di discernere il meglio dal peggio nella misura in cui le due possibilità per lei saranno di valore identico[59]. In questa “indecisione”-“indecidibilità” della volontà sta pure un che di negativo in quanto, secondo Cartesio, la volontà non afferma nulla ma mostra solo una sua negazione nella conoscenza: se avesse avuto una conoscenza adeguata dell’oggetto, non avrebbe avuto “l’imbarazzo” della scelta.
Da una parte dunque la liberà è assenza di costrizione e, in ciò, c’è un che di ottimo, mentre da un’altra parte la libertà è libero arbitrio, possibilità di scelta e, in ciò, c’è un che di negativo[60]. Rimane solo da definire l’errore del giudizio: se il giudizio è scaturito dalla volontà, costretta ad agire, o per propria superficialità o dalle cose della vita, privata delle informazioni sufficienti, è facile che dirà cose errate. L’errore nasce dal fatto che, avendo idee confuse e parziali, derivate da una sbagliata contemplazione della sensibilità[61] la volontà associa una cosa che è solo nella mente ad una cosa che è anche al di fuori. Il giudizio risultante non sarà intersoggettivo e, dunque, risulterà falso.
Conclusioni finali sulla teoria del giudizio.
In conclusione, l’errore nasce da un cattivo uso della volontà che, se fosse sempre ben guidata, potrebbe anche non sbagliarsi mai. D’altra parte, Cartesio suggerisce che, nel caso di dubbio e di manchevole conoscenza, si sospenda il giudizio: se hai una conoscenza chiara e distinta ( intellettuale ) allora di pure quello che pensi; se hai una conoscenza inadeguata e oscura ( sensibile-immaginativa ) allora sospendi il tuo giudizio così che non ti ritrovi a dire cose insensate.
Per citare le sue stesse parole: « Quando, dunque, io non percepisca con sufficiente chiarezza e distinzione che cosa sia vero, se mi astengo dal dare un giudizio, è chiaro che allora agisco correttamente e non mi inganno… »[62].
Riflessione V. Implicazioni della teoria del giudizio.
Prima di ritornare alla prima questione, assolvendo i nostri compiti dettati dal nostro dovere nei confronti della conoscenza nonché i nostri dubbi sulle tesi esposte da altri, esplicitiamo le conseguenze della dottrina del giudizio che Cartesio propone.
« … dal solo fatto che, dato che la volontà è più ampia dell’intelletto, io non la trattengo nei medesimi limiti di questo, bensì la estendo anche a quel che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente, facilmente deflette dal vero e dal buono, ed è così che io mi inganno o pecco ». Nella ragione dell’errore risiede tanto la causa dell’errore che quella del peccato. Così è molto forte l’impegno dell’uomo nei confronti della verità in quanto la verità stessa è bene mentre il male è causato per lo più dall’ignoranza. Il male è conseguenza di una conoscenza oscura, da una parte, ma anche di un atto volontario: se io sospendessi il giudizio o mi trattenessi dall’agire in assenza della verità non potrei né sbagliarmi in senso epistemologico né in senso morale.
Nel valore morale dell’atto è più chiaro il peso della responsabilità dell’uomo di fronte alla verità: l’uomo ha il dovere-morale, se così si può dire, di conoscere al fine di non fare il male e, conseguentemente, di fare il bene. Se, infatti, dalla decisione arbitraria può scaturire il bene, necessariamente si farà seguendo il vero.
« … poiché egli [ Dio ] non mi ha dato una facoltà di giudicare tale che possa darsi che io erri finché ne faccio un uso corretto ».
Citazione che ci consente di non ripetere quanto già si è detto, ma solo di ricordarlo: tale teoria del giudizio consente la fondazione di una scienza esatta, impeccabile nella formulazione dei suoi giudizi.
Riflessione VI. Rimozione dei dubbi posti nella Riflessione I.
Dopo aver provato a capire cosa Cartesio volesse proporci nella teoria del giudizio possiamo, a questo punto, vedere se le tesi che avevamo lasciato come suggerimento nella Riflessione I, hanno una loro validità. Le ripetiamo così la rendere più agevole la lettura:
1) se si interpreta l’intuizione come condizione necessaria e sufficiente della verità allora il giudizio-vero deve essere scaturito da un punto di partenza che preveda un’intuizione ( tesi Beck ).
2) In contrasto con la tesi di Beck, Van De Pitte, propone invece una visione meno esclusiva della verità come oggetto dell’intuizione: l’intuizione è condizione necessaria ma non sufficiente per la predicazione del giudizio vero. Solo l’intuizione e la deduzione sono condizioni di predicazione verace, anzi, è propriamente la deduzione ciò che determina la verità in quanto nella deduzione v’è l’ausilio della volontà, necessaria nel giudicare.
3) La posizione di Di Bella, nella sua “Introduzione alla lettura delle Meditazioni Metafisiche”, sottolinea maggiormente l’importanza della volontà negli atti di giudizio e, pure, conoscitivi in generale.
4) 4) Anche Landucci sembra sostenere la tesi della centralità della volontà nella ricerca della verità, seppure nel senso che essa ci aiuta non nella conoscenza quanto alla sua ricerca.
La prima tesi sarebbe vera e accettabile se non fosse che chi la propone la sostiene criticamente nei confronti della filosofia cartesiana: egli sostiene che non è comprensibile il termine “intuizione” ovvero che è un che di oscuro e inintelligibile. « “The most simple and elementary truths, the primary data, as also the most complex tissue of truths, the object grasped by systematic reasoning, all owe their certainty to the characteristic mark of self-evidence which they possess for the knowing mind and, al self-evident truths, they are the objects of intuitus or intellectual intuition »[63][64].
Alla luce dei fatti, ci sembra che la nozione di “intuito” non sia un che di così oscuro come potrebbe apparire. La questione infatti, per Cartesio, è capire e cosa capire e quali sono i criteri per sapere se si è, o no, capito bene. Ora, il “come” sembra essere una questione individuale: l’importante è avere le idee chiare. In questo senso, l’intuizione sarebbe semplicemente un atto cognitivo cosciente nel quale il soggetto è in grado di dare una definizione valida di ciò che egli stesso ha pensato.
Il linguaggio, in questo caso, potrebbe addirittura servire da “cartina di tornasole”: se il giudizio è formulato a seguito di una conoscenza chiara e distinta allora risulterà vero, viceversa risulterà falso.
In questo caso, infatti, non bisogna interpretare “intuito” come “apprensione mistica” di un’idea che è al di fuori di me, ma “atto di evidenza” di ciò che trovo in me. Solo interpretando l’atto intuitivo come qualcosa che rimanda ad una dimensione ulteriore rispetto al soggetto si può capire perché tale parola designi qualcosa di “oscuro” o, addirittura di “magic-word”, cosa che Cartesio mai sostiene, giacché la “source” di ogni conoscenza adeguata è già nel soggetto più che fuori di lui.
La seconda tesi è quella di Van de Pitte che, in un certo senso, accetta la tesi di Beck e certa di riabilitare la visione cartesiana dopo l’attacco alla nozione di “intuito”. Van de Pitte ha sicuramente ragione quando sostiene che per le deduzioni non basti l’atto dell’intuizione, ma abbisogni di qualcos’altro.
Intanto, è evidente che Van de Pitte accetti la tesi di Beck: il suo stesso intento farà diventare l’intuìto come conseguenza del dedotto. Se non accettasse la tesi che l’“intuito non è la risorsa della conoscenza in Cartesio” non avrebbe nemmeno senso la sua analisi.
Da una parte Van de Pitte ha sicuramente ragione: la deduzione è un’attività linguistica che segue da un lato le conoscenze ideali, variamente intese, d’altra parte però deve tenere conto della logica del linguaggio e dell’ulteriore criterio: “verità come intersoggettività”. Ma è più discutibile che Cartesio volesse effettivamente indicare alla conoscenza deduttiva come la conoscenza più solida di tutte: la stessa analisi della conoscenza dell’Io non sembra suggerire tale interpretazione mentre, invece, sembrerebbe piuttosto il contrario. E, ancora una volta, non si comprenderebbe perché Cartesio ci ricorda puntualmente come si tratti di “scoperte” e non di “invenzioni” quelle che noi traiamo dalle nostre idee innate.
Forse la posizione di Van de Pitte potrebbe essere influenzata dall’idea tipica di una certa filosofia, che vuole che ogni atto cognitivo sia anche un atto inferenziale. E con ciò vorrebbe anche cercare di riabilitare la conoscenza sensibile.
D’altra parte anche per Cartesio ogni atto cognitivo è anche un atto inferenziale, ma non prima di tutto. La validità dell’inferenza ( almeno nelle Meditazioni ) è sempre posta dopo una presa di coscienza della verità.
Per quel che riguarda la tesi di Di Bella, essa risulta plausibile, nella misura in cui l’atto assertivo è sempre atto volitivo, ma non l’atto conoscitivo è atto volitivo.
Così, anche nella teoria del giudizio sembrerebbe essere centrale l’atto conoscitivo e la relativa facoltà coinvolta. La volontà non produce alcuna nuova conoscenza, né può correggere gli errori. Insomma, la volontà è una facoltà pratica non teoretica, per Cartesio.
In fine, la tesi di Landucci sembra essere accettabile: la volontà, come mostra il dubbio sistematico, può condurci praticamente alla scoperta della verità. Infatti, senza volontà, come potremmo continuamente sostenere lo sforzo di “epoché” nei confronti della conoscenza derivata dai sensi e dall’immaginazione? Senza volontà, come potremmo esprimerci positivamente e agire in modo conseguente alla nostra conoscenza?
La volontà ha certamente un importanza centrale, certo, nel senso pratico del termine, però. Non è certo desiderando “follemente” di trovare la legge di gravitazione che Newton riuscì a scoprirla, né è facile immaginare che solo uno dei due giocatori di scacchi voglia vincere e trovare le soluzioni ai problemi della partita, mentre l’altro, pur pensandoci e frustrandosi non lo desidera e, per ciò, rimane cieco nel suo capire! Quante volte si è scoperto involontariamente quel che si stava cercando o non si stava cercando proprio. La volontà può essere di grande aiuto all’intelletto, ma mai si potrà sostituire la ragione nella strada della conoscenza.
Ci pare che questa importante considerazione Cartesio la dica chiaramente e distintamente.
[1] « There is a very strong tradition which maintains that, for Cartesio, truth is to be found essentially in self-evident intuition. Perhaps the most direct statement of this position is provided by L. J. Beck: “The most simple and elementary truths, the primary data, as also the most complex tissue of truths, the object grasped by systematic reasoning, all owe their certainty to the characteristic mark of self-evidence which they possess for the knowing mind and, al self-evident truths, they are the objects of intuitus or intellectual intuition ».
Da Intuition and Judgment in Descartes’ Theory of Truth. Van De Pitte, F., in Journal of the History of Philosophy, 26, 1988, P. 453.
[2] « The following pages are intended to establish that intuition is not the source of truth for Descartes, i.e., that while aintuition is certainly a necessary condition for truth, it is not, both the necessary and sufficient condition for truth. “Source”, hereafter, will mean the latter; and truth is intended to mean scientia, or knowledge in the strong sense » Ivi. P. 454.
[3]« (…) both intuition and deduction are simply necessary conditions for truth. That is, no truth is possible without both components; yet something more is still required. This reading would completely eliminate the facile “magic word” conception, that truth is dependent upon intuition alone. (…). For, since an intuition is sometimes simply the awareness of the result of a formal judgment, it could on those occasions legitimately be said to afford us an awareness of truth; but this would not all imply that intuition was the sufficient condition of truth » Ivi. P. 467.
Sulla deduzione: « Deduction, therefore, covers those things which are know with certainty [ certo sciuntur ], but which are not themselves evident: rather, they are “only deduced from true and cognized elements [ veris cognitisque principiis ] by a continuous and uninterrupted movement of thought, clearly intuiting each element” –Meditation V lines 22-26-. The essential difference between intuition and deduction, therefore, consists precisely in the fact that the latter involves a certain movement of succession which is not to be found in intuition. Thus deduction is an active process, and belongs not to the intellect alone, but also to the will: that is, deduction is a form of judgement. Descartes concludes by observing that those proposals [ propositiones ] which are immediately inferred from primary elements can be said to be grasped sometimes by intuition, sometimes by deduction, according to the way we consider the matter. Still, the primary elements themselves are grasped only by intuition, and the remote conclusions only by deduction ». Ivi. P 464.
[4] « La prima classificazione delle cogitationes nella III Meditazione opponeva asserzione e negazione all’apprensione di un’idea, ma le distingueva ancora da altri atteggiamenti preposizionali di carattere affettivo, riconducibili alla volizione. Ma nella successiva critica delle idee avventizie l’asserzione era risultata elemento non solo distinto ma arbitrariamente aggiunto al puro dato del contenuto mentale, in quanto ad esso non riducibile né fenomenologicamente né logicamente; e al tempo stesso elemento revocabile, perché era stata corretta, o quantomeno sospesa. Se questa è l’analisi cui implicitamente si richiama, comincia a diventare plausibile la novità, senza precedenti nella tradizione, che la IV Meditazione apporta alla teoria del giudizio: l’assimilazione dell’atto assertivo alla volizione ». Di Bella S., Meditazioni Metafisiche, Introduzione alla lettura, La nuova Italia Scientifica.1997. Pp. 125-126. Corsivo mio.
[5] « Ai giudizi l’intelletto fornisce (…) solo i materiali bruti, che naturalmente non sono delle idee isolate, bensì vere e proprie “conoscenze”, di come stiano le cose (…); ma per parte sua, senza alcuna affermazione o negazione. L’intelletto è cioè una facoltà passiva [ DA NOTA: Naturalmente, già la conoscenza è per lo più acquisita con la nostra ricerca, e quindi anch’essa con un impegno volontario, non foss’altro che per la fatica dell’attenzione, che può essere anche alquanto dura, ma, una volta comunque la si sia acquisita, non dipende più dalla volontà, che di suo non può mutarvi alcunché. ]; e perciò l’errore non è mai imputabile ad esso ». Meditazioni Metafisiche, Descartes, R. Introduzione e traduzione di Landucci, Laterza, S., P. XLV.
[6] Cartesio stesso affronta il problema del giudizio solo nella IV Meditazione, solo dopo aver dubitato delle vecchie opinioni, dopo aver chiarito a se stesso che esisteva una verità certa e indubitabile, il cogito, e dopo aver dimostrato che Dio non poteva aver creato la mente umana in modo che sistematicamente ci ingannasse. Così, utilizzando i soli strumenti che Cartesio ci offre, ci sembra giustificare tale affermazione.
[7] In questo senso, anche le idee platoniche non sarebbero conosciute, seppure sarebbero ancora esistenti, se non ci fosse nessuno a conoscerle.
[8] Dunque la teoria della verità era incentrata sulla capacità del soggetto di farsi un’idea a partire dai sensi. Gli oggetti erano quindi l’oggetto della conoscenza sensibile, mentre, a seconda del livello di astrazione si conoscevano le proprietà astratte delle cose. Tali proprietà però non si predicavano degli enti stessi e, in questo senso, la conoscenza della matematica e della geometria era slegata dal mondo in quanto creazione dell’astrazione della mente.
[9] Già solo per il fatto che non riesco proprio ad immaginare tutta la conoscenza della matematica e della fisica senza pensare agli assi cartesiani bisogna ritenere Cartesio uno dei più grandi matematici di sempre. L’invenzione cartesiana ha, quanto meno, consentito a molti di noi di giocare a battaglia navale, sia sulla carta del quadernetto di scuola che sulle carte geografiche dell’aviazione e della marina.
[10] « Al di sopra di tutto mi piacevano le scienze matematiche per la certezza e l’evidenza delle loro ragioni; ma non riuscivo ancora a coglierne il vero uso, e pensando che esse servissero solo alle arti meccaniche, mi meravigliavo del fatto che, essendo i loro fondamenti così stabili e solidi, non si fosse costruito su di essi niente di più elevato » Discorso sul metodo. Descartes, R., Mondadori P. 10.
[11] «… pensai che si doveva cercare qualche altro metodo che, assommando in sé tutti i vantaggi di queste tre scienze, fosse tuttavia esente dai loro difetti (…). La prima regola era di non accogliere nulla come vero che non conoscessi con evidenza esser tale (…) La seconda prescriveva di suddividere ciascuna difficoltà da esaminare in tutte le parti in cui era possibile e necessario dividerla per meglio risolverla. La terza consisteva nel condurre con ordinte i miei pensieri iniziando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per salire progressivamente, come per gradi, fino alla conoscenza di quelli più complessi (…). E infine, l’ultima era di fare ovunque enumerazioni così complete e rassegne così generali, da essere certo di non aver tralasciato nulla ». Ivi. Pp. 21-22.
[12] Non a caso la prima regola del metodo indica di iniziare da ciò che si conosce con chiarezza ( vedi sopra ). Ma la definizione, in questo senso, dell’idea chiara e distinta è rimandata ad altro posto.
[13] « La ragione ci persuade che a quanto non sia del tutto certo e indubitabile si deve rifiutare l’assenso non meno che a quanto è manifestatamene falso, per respingere tutte quelle vecchie opinioni sarà sufficiente che per ognuna di esse io trovi una ragione di metterla in dubbio ». Ivi. Meditazione I, P. 27.
[14] « Ordunque, finora ho ammesso come vero, anzi come vero per eccellenza, tutto quel che ho ricevuto o dai sensi o per mezzo dei sensi. Mi sono però anche reso conto che talora essi ingannano; e prudenza vuole che non ci si fidi mai del tutto di chi ci abbia ingannati anche solo una volta ». Ivi. P. 29.
[15] « Come se non fossi un uomo, e, quando di notte dormo, nei sogni non mi venissero le stesse fantasie che a quei dementi quando sono desti, e talora anche più inverosimili! In effetti, quanto mai spesso nel riposo notturno mi persuado di quel che mi è abituale, e cioè appunto che sono qui, in vestaglia, seduto accanto al fuoco, mente invece sono svestito e disteso sotto le coperte. Però –si insisterà- è di certo con occhi ben svegli che ora guardo questo foglio (…) niente di così distinto potrebbe mai accadere a chi dorma (…) Ma davvero? (…) Così, riflettendoci (…) non è mai dato di distinguere la veglia dal sonno con criteri certi, [ tanto ] da rimaner[n]e attonito; e proprio questo stupore mi porta quasi a credere di star sognando anche ora ». Ivi. Pp. 29-31. Corsivo mio.
[16] « Tuttavia si deve ben riconoscere che quanto si vede nei sogni è simile a delle immagini pittoriche (…) così non saranno immaginarie, ma esisteranno per davvero, almeno delle entità come occhi, testa, mani e l’intero corpo, presi in generale. (…) … devono essere veri, di sicuro, almeno i colori con i quali lo rappresentano; e analogamente –anche nel caso che fossero immaginari enti come occhi, testa, mani e simili, pur se presi in generale- tuttavia non si può non riconoscere che allora sarebbe vero anche qualcos’altro, ancor più semplice e universale, da cui (…) sarebbero formate tutte quelle immagini di cose che –vere o false che siano, tali immagini- si trovano nel nostro pensiero. Di tal genere appaiono essere, in effetti, la natura corporea, considerata in generale, e l’estensione di essa; la figura di quel che è esteso; la quantità, ossia la grandezza e il numero delle cose estese; il luogo in cui esse si trovano; il tempo in cui durano, e così via. (…) … [ qualcosa di ] indubitabile l’hanno l’aritmetica, la geometria e le altre discipline di questo genere (…). In effetti, tanto che io sia desto quanto che dorma, la somma di 2 e 3 sarà sempre 5, e il quadrato non avrà più di quattro lati… (…).
E tuttavia nella mia mente è radicata una vecchia opinione: che c’è un Dio, che può tutto, e che da lui io sono creato quale ora esisto; e, allora, come posso sapere se egli non mi abbia fatto in modo che non ci siano affatto terra, cielo, cose estese, figure, grandezze, luoghi, e non di meno, tutte queste cose mi sembrino esistere non diversamente da come mi sembrano ora? (…) come posso sapere se Dio non abbia fatto in modo che anch’io mi inganni ogni qual volta che sommo 2 e 3, o conto i lati di un quadrato, o , se si riesca a immaginarlo, in qualcosa di ancor più facile? ».
Ivi. Pp. 31-33. ( Corsivo mio ).
[17] Infatti, come è già implicito nel fine delle Meditazioni, ovvero la fondazione di una nuova scienza certa e indubitabile, la riflessione deve giungere sino all’eliminazione del dubbio sull’esistenza delle cose esterne: quell’obbiettivo è il vero banco di prova della teoria cartesiana che, dunque, deve essere all’altezza non solo del compito critico nei confronti della teoria scolastica, ma anche dev’esser capace di rigettare i suoi stessi dubbi!
[18]Ivi. Pp. 39-41 ( corsivo mio ).
[19] « Dalla volontà di presentare il cogito come un primo principio consegue la scelta di insistere sul carattere intuitivo, malgrado alcune formulazioni lo presentino come un ragionamento –penso, dunque sono-: “questa conoscenza ( io penso dunque sono ) non è opera del vostro ragionamento (…) il vostro spirito la vede, la sente, la maneggia” [ al Marchese di Newcastle?; nota 12 ], così si esprimeva Descartes scrivendo ad un corrispondente sconosciuto ». Introduzione alla lettura delle Meditazioni Metafisiche, Scribano E., Laterza, p. 40.
[20] Vedi nota sopra.
[21] « Di sicuro in quella conoscenza, che ho per prima, non c’è altro che una percezione chiara e distinta di quel che affermo (…) mi sembra già di poter stabilire come regola generale che è vero tutto quel che io percepisco molto chiaramente e distintamente ». Ivi. Meditazione III Pp. 57-59.
[22] « Quel che sono venuto a conoscere è che esisto, ora sto ricercando che cosa sia, io che già so di esistere; e non c’è alcun dubbio che la conoscenza di me stesso, considerato così precisamente, non può dipendere da cose che io non sono ancora neppure se esistano o no ». Ivi. Meditazione II. P. 45.
[23] Ivi. Meditazione II, P 47.
[24] Come, di fatto arriverà a dire Hume, non senza ottime ragioni, intorno alla conoscenza scientifica.
[25] « Resta ancora da esaminare se le cose materiali esistano. Ora, che sia possibile, quanto meno, che esse esistano, questo lo so già, perché in quanto esse sono oggetto della matematica pura, io le concepisco chiaramente e distintamente, e d’altra parte non c’è dubbio che Dio è in grado di far essere tutto ciò che io sono capace di concepire chiaramente e distintamente… » Ivi. Meditazione VI, P. 119.
[26] «La realtà o perfezione, poi, può essere “formale” ( o “attuale” ) oppure “oggettiva”. Formale è ogni realtà in se stessa, mentre oggettiva ogni realtà rappresentata, in quanto rappresentata » Ivi. Introduzione Landucci S., P. XXXV.
[27] « E in verità non è affatto strano che a prola iin me sia stato Dio, creandomi, affinché fosse come il marchio dell’artefice impresso nella sua opera… » Ivi. Meditazione III, P. 85.
[28] Ed anche: « … fra le idee di sostanze, a sua volta quella con cui concepisco un Dio sommo (…) di certo ha in sé più realtà “oggettiva” che non le idee che mi rappresentano sostanze finite.
D’altra parte, è manifesto per luce naturale che in una causa efficiente totale ci deve essere almeno tanta realtà quanta ce ne sia in un suo effetto (…) Ne segue che è impossibile che nulla sia prodotto dal nulla, e quindi neppure che quel che sia maggiormente perfetto, e cioè contenga in sé più realtà, sia prodotto da quanto ne contenga di meno. (…) è chiaramente vero (…) anche delle idee, considerando adesso la realtà “oggettiva” contenuta in esse (…). …che vi sia almeno altrettanta realtà “formale” quanta è la realtà “oggettiva” che l’idea stessa contiene; ché, se si supponesse che nell’idea si trovi alcunché che non si trovi già nella sua causa, allora lo avrebbe dal nulla (…). Ma alla fine cosa concluderò? Questo: che, se in qualcuna delle mie idee ci fosse tanta realtà “oggettiva” che io sia certo che non possa darsi che in me ci sia altrettanta realtà né “formalmente” né “eminentemente”, quindi che non può darsi che la causa di tale idea sia io stesso, ne seguirebbe necessariamente che nel mondo non ci sono soltanto io, ma esiste anche qualche altro ente, che è la causa di quell’idea ». Ivi. Meditazione III, Pp. 67-69.
[29] P. 105-107. ( Corsivo mio ).
[30] Ivi. Meditazione IV., P. 89.
[31] « Questa Meditazione ha un andamento più filato delle altre. E può essere considerata una crossa partenesi: dalla 3° si passerebbe bene alla V » Ivi. Introduzione, Landucci S., P. XLII.
[32] Ivi. Meditazione II, P. 47.
[33] Ivi. Meditazione III. P. 61.
[34] Ivi. Meditazione VI. P. 133-137.
[35] « … -mi rendo conto- ho l’abitudine di stravolgere l’ordine della natura, perché le percezioni dei sensi sono state date dalla natura esclusivamente per segnalare alla mente che cosa sia vantaggioso e che cosa dannoso al composto di cui essa è parte… » Ivi. Meditazione VI., P. 137.
[36] Qui stiamo considerando solo il valore epistemologico della sensibilità e sul valore delle idee da essa prodotte nella mente, non a caso, definite come confuse e oscure.
[37] « … poiché egli non mi ha dato una facoltà di giudicare tale che possa darsi che io erri finché ne faccio un uso corretto ». Ivi. Meditazione IV. P. 89.
[38] Giacché le idee chiare e distinte sono già semplici.
[39] « [ in riferimento alle essenze matematiche ] E le verità di questo genere sono tanto palesi ed in accordo con la mia natura che, quando le scopro per la prima volta, ho l’impressione, più che di imparare qualcosa di nuovo di ricordarmi di qualcosa che conoscevo già, ossia di prestare attenzione per la prima volta a quel che pure era già in me, anche se per l’innanzi non vi avevo ancora rivolto lo sguardo della mente ».
Ivi. Meditazione V. Pp. 105-107. ( Corsivo mio ).
[40] Di ciò avremmo modo di parlare sotto lungamente, per ora si prenda tale considerazione come anticipazione.
[41] Si faccia caso di come la Meditazione IV, di fatto, inizi a trattare di “cose nuove” solo dopo un’introduzione, di fatto, riassuntiva, dove viene ribadita l’importanza della sospensione dell’attenzione dalla sensibilità e « …di quanto di più si conosca invece sulla mente umana, e più ancora di Dio » ( Ivi. Meditazione IV, P. 87 ); e della possibilità della conoscenza di tutte le cose che sono chiare e distinte: « Ciò è così chiaro che ne traggo la convinzione che dall’intelletto umano niente può essere conosciuto con maggiore evidenza e maggior certezza; però già mi rendo mi sembra di scorgere anche una strada per arrivare, da questa contemplazione del Dio vero, nel quale cioè sono compresi tutti i tesori delle scienze e della saggezza, alla conoscenza di tutte le altre cose » ( Ivi. Meditazione IV. P. 87 ). Insomma, già sapevamo della necessità della sospensione di ogni giudizio derivato dalla nostra sensibilità e, se vogliamo, era già chiaro ( almeno dal “Compendio delle sei Meditazioni” ) anche il fine, scopo e punto d’approdo, delle Meditazioni, ovvero la possibilità della conoscenza delle essenze delle cose.
[42]Nella Meditazione III viene presentata la distinzione tra i vari tipi di idee e si discute su alcune caratteristiche di quelle. Prima di tutto le idee, considerate per se stesse, vanno distinte da altri tipi di “pensieri”: « …chiamati, rispettivamente, volontà, affetti e giudizi » ( Ivi., P 61 ). Diciamo solo di passaggio che la volontà non ha potenza sulle idee giacché essa non ha controllo sul suo oggetto. In secondo luogo le idee sono definite distinte dagli altri pensieri per la loro proprietà di somigliare alle cose: « Ebbene, alcuni miei pensieri sono paragonabili a immagini di cose (…) e questi pensieri soltanto è appropriato chiamarli idee » ( Ivi., P. 61 ).
[43] Ivi. Meditazione II, P. 47.
[44] Ivi. Meditazione III, P. 61.
[45] Ivi., Meditazione IV. P. 95. ( Corsivo mio ).
[46] Ciò è manifesto dall’esempio del sole dove la mia sensibilità mi mostra un cerchio di piccole dimensioni di colore giallo, mentre l’intelletto dimostra che quello stesso “cerchio” è in realtà una sfera di massa enorme, difficile da immaginarsi. In questo senso, la volontà non entra né nel “cerchio” dell’immaginazione, di cui non su può evitare la percezione ogni qual volta apra gli occhi; né nella “sfera di massa enorme” nella misura in cui alla verità non si può sottrarre l’assenso.
[47] Usiamo questi termini coscientemente, nonostante l’apparente anacronismo, per ragioni di chiarezza.