UNO DI PIU'
A vederlo passare, con quella faccia e quella
furia, la gente si volta, si ferma e gli tien dietro a lungo con gli
occhi. Il cappello che ha in capo non pare il suo, o che gliel'abbia messo
in capo così di traverso un altro. I capelli, come impolverati, gli
scappano da tutte le parti. Non è un pazzo, no. Quando vi va tutto a
traverso, andate a badare come vi siete messo in capo il cappello! Si
chiama Abele Nono; lo conosco bene e so perché va per via così.
Fino a pochi giorni
andava così anche con una piccina per mano, sua figlia; e non pensava
neppure che non poteva, la piccina, con quelle sue gambette, camminargli a
paro e che rischiava perciò da un momento all'altro d'incespicare e
cadere o restargli appesa per il braccino alla mano. Sottile come un
virgulto, troppo cresciuta per i suoi cinque anni, con gli occhi troppo
grandi e serii nel pallido visino irregolare incorniciato da una semplice
cuffietta di lana celeste che, annodata sotto il mento, le disegnava tonda
tonda la testina, quella figlietta quasi gli volava accanto, movendo così
in fretta le gambette da parer tante e non due; e alzava di tratto in
tratto gli occhioni angustiati a sogguardare il padre per scorgergli in
viso se gli fosse già passata la rabbia da cui era preso ogni qual volta
ritornava con lei, così verso sera, dalla visita alla nonna. Quella
rabbia certe volte era tanta ch'egli serrava i denti e li faceva
scricchiare; e allora quasi le stritolava la manina serrata nel pugno; ma
lei non diceva nulla perché capiva che il suo papà non le aveva voluto
far male e che aveva stretto il pugno così per lo spasimo che gli dava ciò
che portava in cuore. Tanto vero che poi, arrivando a casa, prima di
mettersi a salir la scala, gli vedeva cavar di tasca il fazzoletto per
passarselo sugli occhi e sulle guance.
La ragione di quel
soffrire del padre, fino a quegli accessi di rabbia che facevano voltar la
gente per via, certo la piccina non riusciva a comprenderla chiaramente;
ma intuiva bene che il pianto era per la nonna e che la rabbia era contro
la mamma.
La mamma lei la
studiava, per cercar di scoprire che avesse in sé da far tanto arrabbiare
il babbo. Era tanto bella la sua mamma. Rossa, come la fiamma; mentre papà
era verdolino; sì, come un gambo di garofano. Rideva, e mostrava il
ditino.
Per non farsi
accorgere di studiarla la mamma, doveva sempre aspettare ch'ella non le
badasse; perché altrimenti, come se lo sapesse e sospettasse di qualche
segreto accordo tra lei e il babbo, subito vedendosi osservata, scoppiava
a ridere, oh! d'una risata così crudele, quasi da folle, che piú che a
lei era certo rivolta al babbo che se ne stava di là. Stordita e
mortificata, nello sbigottimento che quella risata improvvisa le
cagionava, la piccina appassiva; la camera, la casa, tutto s'allontanava
confusamente come tirato con violenza; e anche la luce pareva s'incupisse.
Con la boccuccia aperta, che le scopriva i denti davanti un po' troppo
grandi, restava così appassita ad ascoltare i rumori della strada che
prima non aveva avvertiti, finché tutt'a un tratto non le riveniva
davanti sanguigna la bocca della madre e gli occhi che, in quel momento,
li aveva proprio di cattiva, di cattiva.
Tutto il segreto,
per cui il padre era pieno di tanta rabbia e la madre di tanto dispetto,
doveva essere in quella risata.
La udiva anche di
notte, talvolta, svegliandosi di soprassalto, nello sconquasso che pareva
n'avesse tutta la casa. La prima volta che l'aveva udita, dormiva ancora
nella stessa camera coi genitori; e s'era messa a piangere atterrita,
perché nel barlume vacillante del lumino da notte s'era vista prima come
assaltata dalla parete da mostruose ombre scomposte, e poi, voltandosi,
aveva sorpreso il babbo e la mamma che, levati in ginocchio sul letto e
azzuffati, cercavano di abbattersi l'un l'altra; e in quegli sforzi, ecco,
la madre rideva, e il padre pareva inferocito. La notte appresso, dopo il
gran pianto che aveva fatto, ch'erano stati fin quasi all'alba a cercar di
quietarla e a dirle che non era vero niente che s'erano azzuffati,
l'avevano messa a dormire nello stanzino accanto. Ma poi la mamma l'aveva
voluta di nuovo con sé, nel letto grande, al posto del babbo, passato a
dormir lui di là, come in castigo, sul lettino di lei; e che gioja per
lei allora nel sentirsi stretta nell'odore caldo del corpo materno!
Senonché, tante mattine, svegliandosi, si ritrovava inaspettatamente di là,
nel suo lettino, tutta avvolta sotto le coperte in uno scialletto di lana;
e la sorpresa che ne provava era piena d'irritazione come per un
tradimento che per lei aveva sapor di beffa, perché sotto a ogni cosa che
non riusciva a spiegarsi della sua mamma ci sentiva sempre la crudeltà di
quella risata.
Ed erano tante
veramente le cose, oltre quella risata e quei passaggi a tradimento da un
letto all'altro, che la piccina non riusciva a spiegarsi.
Non era bello, per
esempio, che venisse ogni mattina col cestino delle uova tra le manine
gonfie quel grosso bamboccione di campagna che non sapeva ancora dir
nulla, le guance pavonazze dal freddo, gli occhi tra i peli e quei due
belli candelotti al naso? E non era da ridere anche la visita giornaliera
di quello spilungone in maniche di camicia, con quel grembiulone di
traliccio a righe bianche e turchine tenuto da una cordellina alle spalle?
Recava al braccio un'altra cesta piú grande quest'altro, con tanti bei
tocchi di carne rossa, tagliata di fresco; e aveva una testa, una testa da
non credersi, di cipolla secca, di quelle col velo dorato. Era proprio da
ridere. Difficile, per una testa di cipolla secca, reggersi ritta; e
difatti quell'uomo la teneva un po' su una spalla e un po' sull'altra; e
parlava sempre con le mani levate davanti la faccia, come a nasconderla,
due manone lunghe lunghe e insanguinate; e la voce miagolante pareva gli
uscisse da quelle mani, perché in tutto quel tondo dorato della testa chi
sa poi se aveva una bocca per parlare quell'uomo. Si ripigliava il tocco
di carne, che aveva posato sulla tavola di cucina, e diceva: «Se debbo
lasciarla, pagare; se no, me la riporto». Se la riportava, perché di là,
invece di ridere come a lei pareva si dovesse fare, tanto per la venuta di
quel ragazzetto di campagna col cestino delle uova quanto di questo
spilungone con la testa di cipolla secca, il babbo e la mamma litigavano,
gridando da far tremare i muri.
La mamma
specialmente, che s'accaniva a ripetere: «Tua madre è di piú! Tua madre
è di piú! Non sono di piú le uova! Non è di piú la carne! Dreina ha
bisogno della carne e delle uova!».
Dreina era lei. La
mamma dunque gridava così per lei, e contro la nonna «che era di piú».
Perché di piú?
Perché il bilancio
d'una famiglia è anch'esso una cosa tra le tante che le piccine non
possono comprendere. Se le entrate son queste, e non possono essere di piú,
giacché tutte provengono da uno stipendio fisso per un impiego che non
consente altre occupazioni, bisogna che le uscite siano anche queste, e
non un soldo di piú; o altrimenti si farà un vuoto che non si saprà poi
come colmare. Ma se le piccine magroline hanno bisogno della carne e delle
uova prescritte dal medico? Le entrate son queste; le uscite debbono esser
queste. Le piccine magroline debbono allora morire? E non deve rubare un
papà, nel vedersele deperire sempre piú, di giorno in giorno? Far
debiti? Eh, i debiti, non basta la volontà di farli; ci vuole anche il
credito da parte degli altri; e se il credito manca, i debiti, anche
volendo, non si possono fare. Abele Nono non ne vuol fare. Lo dice, perché
sa bene di non poterli piú fare. Quelli che ha fatti, forzato da qualche
impellente necessità li ha fatti con la coscienza di non poterli mai
pagare, e ancora se ne sente scottato come dal ricordo d'uno scrocco.
Ora il guajo, almeno
fino a pochi giorni fa, era questo: che su quel bilancio d'Abele Nono, che
non si poteva in nessun modo né allargare né stringere; la madre, la
moglie, la figlia e lui stesso, uno era di piú. E ogni qual volta
Abele Nono sentiva gridare alla moglie che quest'uno di piú era la madre,
aveva la tentazione di scagliarle in faccia ciò che gli veniva sotto
mano. Perché non era vero, no, non era vero che sua madre sarebbe stata
di piú, se avesse potuto vivere insieme con loro.
Ciò che basta per
tre, può anche bastar per quattro, se raccolti sotto lo stesso tetto e
attorno alla stessa tavola. Ma nossignori! Un giorno, al suo ritorno
dall'ufficio, era stato investito dalla moglie, furibonda, mentre la
vecchia madre tremava tutta, riparata in un canto: «O fuori lei, o fuori
io!». Una scenata. E senza nemmeno voler dire che cosa fosse accaduto di
tanto grave da dover prendere lì per lì una così grave decisione, se
n'era andata fuori lei, in casa di una sorella maritata, e v'era rimasta
per tutt'un mese. Abele Nono poteva giurare che mai e poi mai si sarebbe
arreso ad andare in casa di quella sorella a riprendersela mai e poi mai
gliel'avrebbe data vinta, se la bambina, si sa, senza la mamma... e se
anche sua madre stessa, a veder piangere così la nipotina... «Tu sai
com'è, per la piccina, la mamma... e poi anche la casa, così senza di
lei... per quanto io possa fare...» Che cosa fosse propriamente accaduto
quel giorno, non aveva potuto ancora saperlo. La mamma gli assicurava che
non era accaduto nulla. «Solo che, dice, io l'ho guardata... non so,
guardata, dice, quand'è rientrata con la spesa, pochi momenti prima che
tu rincasassi. Ti giuro che non posso nemmeno dire d'averla veramente
guardata; o se l'ho fatto, sarà stato così senza nessuna intenzione. No,
no, che sospetti, figlio? Sta' sicuro che non hai nulla, nulla da
sospettare, come non ho potuto nemmeno io sospettar nulla, mai, sul suo
conto, perché non c'è nulla, proprio nulla da sospettare. È così, di
indole... Ha avuto sempre l'idea ch'io la tenessi d'occhio. E non può piú
sopportare, dice, di vedersi addosso sempre i miei occhi; ne ha l'incubo,
dice... Tu capisci, sono tua madre... è naturale... nuora...»
Per farla rientrare
in casa, aveva dovuto metter la madre a pensione presso una famiglia di
povera gente che abitava in una di quelle ultime casette trascurate là su
lo stradone dove la città smette e comincia la campagna, senza piú
beneficio né d'acqua corrente né di luce. Un lumetto a petrolio, la
sera, in quella stanzuccia nuda, umida, col soffitto a travicelli,
intonacato di calce. Con l'umido, la crosta dell'intonaco su quel soffitto
e a una parete s era tutta raggrinzita e cascava a pezzettini, come se
nevicasse.
- Anche di notte,
sulla faccia, mentre dormo. -
Glielo diceva come
una cosa da ridere, povera mamma, per dargli a divedere che quella sua
relegazione là lei l'aveva pigliata così. E tirava su le spallucce
aggobbite. Ma chi sa come dovevano passarle le giornate là sola, in
quella stanzuccia, con quel lettino di ferro il comodino, un vecchio
canterano, il tavolino sotto la finestra e due sedie!
La finestra dava
sull'aperto della vallata, ma così triste che, a guardarci, prendeva la
malinconia. Sotto c'era la scarpata della ferrovia, e la sera, nel
silenzio si sentiva lo sferragliare dei treni in discesa e l'ansare di
quelli in salita. Il fumo nero di quei treni stava un pezzo a vagar lento
sospeso e poi a sfilacciarsi sul grigio smortume della vallata.
E il silenzio,
dentro, era tanto che s'avvertiva perfino il ronzare del lumetto acceso
sul tavolino.
Star lì, così, su
quella sedia a piè del lettino, o sull'altra davanti al tavolino sotto la
finestra, con quei poveri occhi incavati, immobili nella faccia di cera il
fazzoletto nero in capo, e il pollice e l'indice della mano ischeletrita
che si movevano di continuo sulla cocca di quel fazzoletto che le pendeva
dal mento, come se n'assaggiassero la qualità; lì, che pareva una
mendica all'anticamera della morte, in attesa che un uscio nell'ombra si
aprisse e un dito di là si sporgesse a farle cenno di passare. Ma quel
cenno non veniva mai; e a star lì aspettando, senza piú nulla da fare,
le pareva che il tempo, impedito da tutto quel silenzio d'attesa, si fosse
fermato e non potesse piú trascorrere; e quelle povere cose, nella
stanzuccia, perduto ormai ogni senso, le stessero intorno a guardare in
uno stupore attonito. Lei che aveva dato sempre tutto, senza mai pensare a
sé, lei che era stata nella vita solo a servizio e per utilità degli
altri, essere ora così di peso al figlio, peso inutile; sapersi di piú.
- Se potessi
portarmi almeno un po' di lana, da lavorare... qualche giubbetto per la
piccina... un pajo di gambalini... -
Non gliel'aveva mai
potuta portare.
- Qualche cosa
almeno da rammendare...
Nulla. Era da
impazzire. E anche la festa che sarebbe stata per lei, ogni volta, la
visita della nipotina diventava invece un'afflizione, perché la piccina
restava come trattenuta e sgomenta alla vista di quella stanzuccia così
squallida, quasi che il padre volesse forzarla a entrare in una tana di
scarafaggi. Sulla soglia, si tirava indietro
- Non vuoi piú bene
alla tua nonnina? -
Diceva di sì; ma
era come se, in quella stanzuccia, la sua nonnina non le sembrasse piú
lei. E il bacio che s'induceva a darle era quasi senza convinzione che
fosse dato propriamente alla stessa nonnina di prima. Dandolo, guardava
quel canterano con tutta la impiallacciatura scoppiata e strappata, o quel
tavolino nero sotto la finestra, o quel misero lettino di ferro, e le
sembrava che tutte quelle deturpazioni e quello squallore e quell'angustia
fossero state fatte e si fossero attaccate alla persona della nonna.
Vedeva poi il padre che se ne stava a sedere curvo, con le mani
abbandonate, come ritorte, tra le gambe discoste, e con la fronte
appoggiata allo spigolo del tavolino, a piangere con lo stomaco,
sussultando. Voleva capire; e stringendo con le due manine alla nonna le
cocche del fazzoletto sotto il mento, le domandava:
- Perché la mamma
dice che tu sei di piú? -
Il padre levava
irosamente la fronte dallo spigolo del tavolino.
- Perché? Perché
tu non vuoi stare con la tua nonnina; ecco perché! -
E, a uno sguardo
smarrito della piccina:
- No, non dico qua!
Non dico qua! A casa, con la tua nonnina e il tuo papà. Ti metti a
piangere, che vuoi anche la mamma...
- La mamma, sì!
- E dunque, vedi? Ma
la mamma senza te c'è stata pur tutt'un mese; e dice che potrebbe anche
sempre; perché non ha bisogno di nulla, lei; né di nessuno basta a sé,
provvede a sé: ha le mani d'oro, lei! A casa sta perché la vuoi tu; lei
per sé non ci starebbe! -
La vecchia madre,
benché avesse pietà di quello sfogo che il figlio aveva bisogno di
offrirsi, pregava:
- Non dire così
alla piccina! -
Ma egli,
nell'impeto, gliela levava dalle ginocchia, se l'alzava al petto:
- Guarda, facciamo
allora così, vuoi? Tu con la mamma, sola; e io qua con la nonna!
- No! Tu con me, papà
- gridava subito Dreina, buttandogli le braccia al collo, per tenerselo
stretto.
Egli si chinava per
farle posare a terra i piedini e levarsela dal collo; e, mentre la madre
di nuovo gli faceva cenno di non dir altro, soggiungeva:
- Dunque vedi,
dunque vedi ch'è proprio per te che la nonnina è di piú. E quella
carogna se n'approfitta, perché lo sa bene che se non fosse per te... -
Dreina non ascoltava
piú il padre. Ora stava a riflettere, sorpresa, che la colpa dunque non
era della mamma, ma sua; e sua - possibile? - perché voleva che stessero
con lei la mamma e il papà, tutt'e due.
Ah, quando le
bambine si vogliono sforzare di capir certe cose che non possono né
debbono capire! Ecco che cosa orrenda n'è venuta. Se n'è andata via lei,
la piccina. Lei che non poteva in nessun modo essere di piú. Lei che non
pesava ancora nulla, o certo meno di tutti. Via, in pochi giorni, senza
mettere a posto nulla con la sua morte; perché non se n'è mica andata
per conto suo la mamma; né lui, il suo papà, con la nonnina. La nonnina
è là sola, dove lei l'ha lasciata, in quella stanzuccia, ancora «di piú».
E il suo papà è rimasto qua con la mamma, disperato, e si morde le mani,
dandosi del vigliacco, del vigliacco per aver dato a credere alla sua
piccina quella cosa mostruosa che fosse per colpa di lei; mentre era lui,
era lui che la metteva avanti così, la sua piccina, per riparare dietro a
lei la sua vergogna, la vergogna della sua inconfessabile soggezione alla
moglie. Voleva nasconderla a se stesso e alla madre, quella sua vergogna,
e metteva avanti la piccina, dicendo che non lasciava la moglie per lei.
Ed eccolo ora scoperto. E la moglie, che lo sa, gli grida, selvaggia,
dall'altra stanza:
- Perché non te ne
vai ora da tua madre? Vattene! io non ho bisogno di te! -
E lui non se ne va,
non se ne può andare. Pensa che, se trovasse un momento la forza
d'andarsene, per aver faccia da ricomparire davanti alla madre, poi certo
ritornerebbe qua, e sarebbe peggio. Pensa come un pazzo che, quando si
potrà riaccostare a questa selvaggia, senza piú negli occhi il pensiero
della bambina morta, ella certo lo riaccoglierà con una di quelle sue
orribili risate. E torna a mordersi le mani, vigliacco, mettendo ancora
avanti la piccina, come se ora stesse a mordersele per lo strazio della
morte di lei, mentre non è vero, non è vero: è ancora e sempre quella
sua stessa rabbia, per cui lo vedete andare per via come un pazzo.
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