CINCI
Un cane, davanti una porta chiusa, s'accula
paziente aspettando che gli s'apra; al piú, alza ogni tanto una zampa e
la gratta, emettendo qualche sommesso guaito.
Cane, sa che non può
fare di piú.
Di ritorno dalle
lezioni del pomeriggio, Cinci, col fagotto dei libri e dei quaderni legati
con la cinghia sotto il braccio, trova il cane lì davanti alla porta e,
irritato da quell'attesa paziente - un calcio; calci anche alla porta, pur
sapendo che è chiusa a chiave e che in casa non c'è nessuno; alla fine,
ciò che gli pesa di piú, quel fagotto di libri, rabbiosamente per
sbarazzarsene lo scaraventa contro la porta, come se attraverso il legno
possa passare e andare a finir dentro casa. La porta, invece, con la
stessa forza glielo rimanda subito sul petto. Cinci ne resta sorpreso,
come d'un bel gioco che la porta gli abbia proposto, e rilancia il
fagotto. Allora, poiché già sono in tre a giocare, Cinci il fagotto e la
porta, ci si mette anche il cane e springa a ogni lancio, a ogni rimbalzo,
abbajando. Qualche passante si ferma a guardare: chi sorride, quasi
avvilito della sciocchezza di quel gioco e del cane che ci si diverte; chi
s'indigna per quei poveri libri; costano danari; non dovrebbe esser lecito
trattarli con tanto disprezzo. Cinci leva lo spettacolo; a terra il
fagotto e, strisciando con la schiena sul muro, ci si cala a sedere; ma il
fagotto gli sguscia di sotto e lui sbatte a sedere in terra; fa un sorriso
balordo e si guarda attorno, mentre il cane salta indietro e lo mira.
Tutte le diavolerie
che gli passano per il capo Cinci le dà quasi a vedere in quei ciuffi
scompigliati dei suoi capelli di stoppa e negli occhi verdi aguzzi che
sembrano vermicarne. È nell'età sgraziata della crescenza, ispido e
giallo. Tornando a scuola, quel pomeriggio, ha dimenticato a casa il
fazzoletto, per cui ora, di tanto in tanto, lì seduto a terra, sorsa col
naso. Si fa venire quasi sulla faccia le ginocchia enormi delle grosse
gambe scoperte, perché porta ancora, e non dovrebbe piú, i calzoni
corti. Butta sbiechi i piedi, camminando; e non ci sono scarpe che gli
durino; queste che ha ai piedi sono già rotte. Ora, stufo, s'abbraccia le
gambe, sbuffa e si tira su con la schiena contro il muro. Si leva anche il
cane e pare gli domandi dove si vada adesso. Dove? In campagna, a far
merenda, rubando qualche fico o qualche mela. È un'idea; non ne è ancora
ben sicuro.
Il lastricato della
strada finisce lì, dopo la casa; poi comincia la via sterrata del
sobborgo che conduce in fondo in fondo alla campagna. Chi sa che bella
sensazione deve provarsi, andando in carrozza, quando i ferri dei cavalli
e le ruote passano dal duro del lastricato strepitoso al molle silenzioso
dello sterrato. Sarà forse come quando il professore, dopo aver tanto
sgridato perché lui l'ha fatto arrabbiare, tutt'a un tratto si mette a
parlargli con una molle bontà soffusa di rassegnata malinconia, che tanto
piú gli piace quanto piú l'allontana dal temuto castigo. Sì, andare in
campagna; uscire dallo stretto delle ultime case di quel puzzolente
sobborgo, fin dove la via allarga laggiú nella piazzetta all'uscita del
paese. C'è ora l'ospedale nuovo laggiú, i cui muri intonacati di calce
sono ancora così bianchi che al sole bisogna chiudere gli occhi, da come
accecano. Vi hanno trasportato ultimamente tutti gli ammalati che erano
nel vecchio, con le ambulanze e le lettighe; è parsa quasi una festa,
vederne tante in fila; le ambulanze avanti, con tutte le tele svolazzanti
ai finestrini; e, per gli ammalati piú gravi, quelle belle lettighe
traballanti sulle molle, come ragni. Ma ora è tardi; il sole sta per
tramontare, e qua e là ai finestroni non staranno piú affacciati i
convalescenti, in camice grigio e zucchetto bianco, a guardare con
tristezza la chiesina vecchia dirimpetto, che sorge là tra poche altre
case, vecchie anch'esse, e qualche albero. Dopo quella piazzetta la strada
si fa di campagna e monta alla costa del poggio.
Cinci si ferma;
torna a sbuffare. Ci deve andare davvero? Si riavvia svogliato, perché
comincia a sentirsi ribollire nelle viscere tutto il cattivo che gli viene
da tante cose che non sa spiegarsi: sua madre, come viva, di che viva,
sempre fuori di casa, e ostinata a mandarlo ancora a scuola; maledetta,
così lontana: ogni giorno, a volare, almeno tre quarti d'ora, di quaggiú
dove sta, per arrivarci; e poi per tornare a mezzogiorno; e poi di nuovo
per ritornarci, finito che ha di buttar giú due bocconi; come fare a
tempo? e sua madre dice che il tempo gli passa a giocare col cane, e che
è un bighellone, e insomma a sbattergli in faccia sempre le stesse cose:
che non studia, che è sudicio, che se lo manda a comprare qualcosa, la
peggio roba l'appiccicano a lui...
Dov'è Fox?
Eccolo: gli trotta
dietro, povera bestia. Eh, lui almeno lo sa che cosa deve fare: seguire il
suo padrone. Fare qualche cosa: la smania è proprio questa: non sapere
che cosa. Potrebbe pur lasciargliela, sua madre, la chiave, quando va a
cucire a giornata, come gli dà a intendere, nelle case dei signori. Ma
no, dice che non si fida, e che al suo ritorno dalla scuola, se lei non è
rincasata, poco potrà tardare, e che dunque la aspetti. Dove? Li fermo
davanti alla porta? Certe volte ha aspettato perfino due ore, al freddo, e
anche sotto la pioggia; e apposta allora, in luogo di ripararsi, è andato
al cantone a pigliarsi lo sgrondo, per farsi trovare da lei tutto intinto
da strizzare. Vederla alla fine arrivare, affannata, con un ombrello
prestato, il volto in fiamme, gli occhi lustri sfuggenti, e così nervosa
che non trova neanche piú la chiave nella borsetta.
- Ti sei bagnato?
Abbi pazienza, ho dovuto far tardi. -
Cinci aggrotta le
ciglia. A certe cose non vuol pensare. Ma suo padre, lui, non l'ha
conosciuto; gli è stato detto che è morto, prima ancora che lui
nascesse; ma chi era non gli è stato detto; e ora lui non vuole piú né
domandarlo né saperlo. Può essere anche quell'accidentato che si
trascina perso da una parte - sì, bravo - ancora alla taverna. Fox
gli si para davanti e gli abbaja. Gli farà impressione la stampella. Ed
ecco qua tutte queste donne a crocchio, con tanto di pancia senz'esser
gravide; forse una sì; quella con la sottana rizzata davanti un palmo dal
suolo e che dietro spazza la strada; e quest'altra col bambino in braccio
che ora cava dal busto... ah, peuh, che pellàncica! La sua mamma è
bella, ancora tanto giovane, e a lui bambino il latte, così dal seno, lo
diede anche lei, forse in una casa di campagna, in un'aja, al sole. Ha il
ricordo vago d'una casa di campagna, Cinci; dove forse, se non l'ha
sognata, abitò nell'infanzia, o che forse vide allora in qualche parte,
chi sa dove. Certo ora, a guardarle da lontano, le case di campagna, sente
la malinconia che deve invaderle quando comincia a farsi sera, col lume
che vi s'accende a petrolio, di quelli che si portano a mano da questa
stanza a quella, che si vedono scomparire da una finestra e ricomparire
dall'altra. E arrivato alla piazzetta. Ora si vede tutta la cala del cielo
dove il tramonto s'è già ammorzato, e sopra 1 poggio, che pare nero, il
celeste tenero tenero. Sulla terra è già l'ombra della sera, e il grande
muro bianco dell'ospedale è illividito. Qualche vecchia in ritardo
s'affretta alla chiesina per il Vespro. Cinci d'improvviso s'invoglia
d'entrarci anche lui, e Fox si ferma a guardarlo, perché sa bene
che a lui non è permesso. Davanti all'entrata la vecchina in ritardo
s'affanna e pigola alle prese col coltrone di cuojo troppo pesante Cinci
l'ajuta a sollevarlo, ma quella, invece di ringraziarlo, lo guarda male,
perché capisce che non entra in chiesa per divozione. La chiesina ha il
rigido d'una grotta; sull'altare maggiore i guizzi baluginanti di due ceri
e qua e là qualche lampadino smarrito. Ha preso tanta polvere, povera
chiesina, per la vecchiaja; e la polvere sa d'appassito in quella cruda
umidità; il silenzio tenebroso pare che stia con tutti gli echi in
agguato d'ogni minimo rumore. Cinci ha la tentazione di gettare un bercio
per farli tutti sobbalzare. Le beghine si sono infilate nelle panche,
ciascuna al suo posto. Il bercio no, ma gettare a terra quel fagotto di
libri che gli pesa, come se gli cadesse per caso di mano, perché no? Lo
getta, e subito gli echi saltano addosso al colpo che rintrona e lo
schiacciano, quasi con dispetto. Questa dell'eco che salta addosso a un
rumore come un cane infastidito nel sonno e lo schiaccia, è un'esperienza
che Cinci ha fatta con gusto altre volte Non bisogna abusare della
pazienza delle povere beghine scandalizzate. Esce dalla Chiesina; ritrova Fox
pronto a seguirlo e riprende la strada che sale al poggio. Qualche frutto
da addentare bisogna che lo trovi, scavalcando piú là una muriccia e
buttandosi tra gli alberi. Ha lo struggimento; ma non sa propriamente se
per bisogno di mangiare o per quella smania che gli s'è messa allo
stomaco, di fare qualche cosa.
Strada di campagna,
in salita, solitaria; ciottoli che gli asinelli alle volte si prendono tra
gli zoccoli e fanno ruzzolare per un tratto e poi, dove si fermano,
stanno; eccone uno lì: un colpo con la punta della scarpa: godi, vola!
erba che spunta sulle prode o a piè delle muricce, lunghi fili d'avena
impennacchiati che fa piacere brucare: tutti i pennacchietti restano a
mazzo nelle dita; si gettano addosso a qualcuno, e quanti se n'attaccano,
tanti mariti (se è una donna) prenderà, e tante mogli se un uomo. Cinci
vuol far la prova su Fox. Sette mogli, nientemeno. Ma non è prova,
perché sul pelo nero di Fox son rimasti impigliati tutti quanti. E Fox,
vecchio stupido, ha chiuso gli occhi ed è rimasto, senza capir lo
scherzo, con quelle sette mogli addosso.
Non ha piú voglia
d'andare avanti, Cinci. È stanco e seccato. Si tira a sedere sulla
muriccia a manca della strada e di là si mette a guardare nel cielo la
larva della luna che comincia appena appena a ravvivarsi d'un pallido oro
nel verde che s'estenua nel crepuscolo morente. La vede e non la vede;
come le cose che gli vagano nella mente e l'una si cangia nell'altra e
tutte l'allontanano sempre piú dal suo corpo lì seduto inerte, tanto che
non se lo sente piú; la sua stessa mano, se gli s'avvistasse, posata sul
ginocchio, gli sembrerebbe quella d'un estraneo, o quel suo piede
penzoloni nella scarpa rotta, sporca: non è piú nel suo corpo: è nelle
cose che vede e non vede, il cielo morente, la luna che s'accende, e là
quelle masse cupe d'alberi che si stagliano nell'aria fatta vana, e qua la
terra solla, nera, zappata da poco, da cui esala ancora quel senso d'umido
corrotto nell'afa delle ultime giornate d'ottobre, ancora di sole caldo.
A un tratto,
tutt'assorto com'è, chi sa che gli passa per le carni, stolta, e
istintivamente alza la mano a un orecchio. Una risatina stride da sotto la
muriccia. Un ragazzo della sua età, contadinotto, s'è nascosto laggiú,
dalla parte della campagna. Ha strappato e brucato anche lui un lungo filo
d'avena, gli ha fatto un cappio in cima e, zitto zitto, con esso, alzando
il braccio, ha tentato d'accappiare a Cinci l'orecchio. Appena Cinci,
risentito, si volta, subito quello gli fa cenno di tacere e tende il filo
d'avena lungo la muriccia, dove tra una pietra e l'altra spunta il musetto
d'una lucertola, a cui con quel cappio egli dà la caccia da un'ora. Cinci
si sporge a guardare, ansioso. La bestiola, senz'accorgersene, ha infilato
da sé il capo nel cappio lì appostato; ma ancora è poco; bisogna
aspettare che lo sporga un tantino di piú, e può darsi che invece lo
ritragga, se la mano che regge il filo d'avena tremola e le fa avvertire
l'insidia. Forse ora è sul punto d'assaettarsi per evadere da quel
rifugio divenuto una prigione. Sì, sì; ma attenti allora a dare a tempo
la stratta per accappiarla. È un attimo. Eccola! E la lucertola guizza
come un pesciolino in cima a quel filo d'avena. Irresistibilmente Cinci
salta giú dalla muriccia; ma l'altro, forse temendo che voglia
impadronirsi della bestiola, rotea piú volte in aria il braccio e poi la
sbatte con ferocia su un lastrone che si trova lì tra gli sterpi. - No! -
grida Cinci; ma è troppo tardi: la lucertola giace immobile su quel
lastrone col bianco della pancia al lume della luna. Cinci se ne adira. Ha
voluto sì, anche lui, che quella povera bestiola fosse presa, preso lui
stesso per un momento da quell'istinto della caccia che è in tutti
agguattato; ma ucciderla così, senza prima vederla da vicino, negli
occhietti acuti fino allo spasimo, nel palpito dei fianchi, nel fremito di
tutto il verde corpicciuolo; no, è stato stupido e vile. E Cinci avventa
con tutta la forza un pugno in petto a quel ragazzo e lo manda a ruzzolare
in terra tanto piú lontano quanto piú quegli, così tutto squilibrato
indietro, tenta di riprendersi per non cadere. Ma caduto, subito si rizza
inferocito, ghermisce un toffo di terra e lo scaglia in faccia a Cinci,
che ne resta accecato e con quel senso d'umido in bocca che piú gli sa di
sfregio e l'imbestialisce. Prende anche lui di quella terra e la scaglia.
Il duello si fa subito accanito. Ma l'altro è piú svelto e piú bravo;
non fallisce colpo, e gli viene sempre piú addosso, avanzando, con quei
toffi di terra che, se non feriscono, percuotono sordi e duri e,
sgretolandosi, sono come una grandinata da per tutto, in petto e sulla
faccia tra i capelli agli orecchi e fin dentro le scarpe. Soffocato, non
sapendo piú come ripararsi e difendersi, Cinci, furibondo, si volta,
spicca un salto e col braccio alzato strappa una pietra dalla muriccia.
Qualcuno di là si ritrae: sarà Fox. Scagliata la pietra, d'un tratto -
com'è? - da che tutto prima gli si sconvolgeva, balzandogli davanti agli
occhi, quelle masse d'alberi, in cielo la luna come uno striscio di luce,
ora ecco nulla si muove piú, quasi che il tempo stesso e tutte le cose si
siano fermati in uno stupore attonito intorno a quel ragazzo traboccato a
terra. Cinci, ancora ansante e col cuore in gola, mira esterrefatto,
addossato alla muriccia, quell'incredibile immobilità silenziosa della
campagna sotto la luna, quel ragazzo che vi giace con la faccia mezzo
nascosta nella terra, e sente crescere in sé formidabilmente il senso
d'una solitudine eterna, da cui deve subito fuggire. Non è stato lui; lui
non l'ha voluto; non ne sa nulla. E allora, proprio come se non sia stato
lui, proprio come se s'appressi per curiosità, muove un passo e poi un
altro, e si china a guardare. Il ragazzo ha la testa sfragellata, la bocca
nel sangue colato a terra nero, una gamba un po' scoperta, tra il calzone
che s'è ritirato e la calza di cotone. Morto, come da sempre. Tutto resta
lì, come un sogno. Bisogna che lui se ne svegli per andar via in tempo. Lì,
come in un sogno, quella lucertola arrovesciata sul lastrone, con la
pancia alla luna e il filo di avena che pende ancora dal collo. Lui se ne
va, col suo fagotto di libri di nuovo sotto il braccio, e Fox dietro, che
anche lui non sa nulla.
A mano a mano che
s'allontana, discendendo dal poggio, diviene sempre piú così stranamente
sicuro, che non s'affretta nemmeno. Arriva alla piazzetta deserta; c'è
anche qui la luna; ma è un'altra, se ora qui rischiara, senza saper
nulla, la bianca facciata dell'ospedale. Ecco ora la via del sobborgo,
come prima. Arriva a casa: sua madre non è ancora rientrata. Non dovrà
dunque dirle neppure dove è stato. È stato lì ad aspettarla. E questo,
che ora diventa vero per sua madre, diventa subito vero anche per lui;
difatti, eccolo con le spalle appoggiate al muro accanto alla porta.
Basterà che si
faccia trovare così.
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