BERECCHE E LA
GUERRA
I
La birreria
Fuori,
un altro sole. Strade del mezzogiorno, sotto l'ardente azzurro del cielo,
tagliate da violente ombre violacee. E la gente vi passa, pur così carica
di vita e di colori, ariosa e leggera. Voci nel sole e selciati sonori.
Dentro, il buon
tedescone spatriato s'è fatta un po' di patria attorno, tra le quattro
pareti vestite di legno della sua birreria; e ne respira l'aria nel tanfo
dei fusti che viene dalla cantina accanto, nell'odor grasso dei würstel
ammontati sul banco, in quello acre delle scatole di droghe stuzzicanti,
tutti con l'etichetta in duri e dritti caratteri tedeschi. Son anche nei
lucidi e vivaci manifesti turchini, gialli e rossi appesi alle pareti - piú
grossi, piú duri, piú dritti - quei cari suoi caratteri tedeschi. E i
boccali, i krügel istoriati, gli sciop, disposti in bell'ordine
nelle scansie, gli fan da sentinelle a guardia dell'illusione.
Qual voce remota e
angosciosa, di tanto in tanto, quando la birreria è vuota e in ombra, gli
canta in fondo all'anima la canzone:
Nur in Deutschland, nur in
Deutschland
Da will ich sterben...?
Atteggiato
il fulvo faccione d'un largo sorriso cordiale, salutava fino a jeri con
festosi gargarismi i suoi fedeli avventori romani. Ora sta aggrondato e
immobile dietro il banco e non saluta piú nessuno.
Sempre il primo ad
arrivare alla birreria, Berecche lo guarda commosso dal tavolino in fondo
alla sala, col suo bravo krügel davanti. La commozione gli dà
un'aria truce, perché anche la sua condizione s'è fatta da un momento
all'altro difficile.
Vantava Federico
Berecche, fino a pochi giorni fa, la sua origine tedesca, chiaramente
dimostrata, oltre che dalla quadrata corporatura, dal pelame rossiccia e
dagli occhi ceruli, anche dal cognome Berecche, corrotta pronunzia, a suo
credere, d'un nome prettamente tedesco. E tutti i beneficii vantava
derivati all'Italia dalla lunga alleanza con quelli che erano allora
gl'imperi centrali, non che le virtú piú perspicue della gente
germanica, che lui da tant'anni si sforzava d'attuare rigorosamente in sé
e nell'ordinamento della sua vita e della sua casa; sopra tutto il metodo.
Il metodo, il metodo.
In quella birreria,
sul marmo d'un tavolino, gli fanno la caricatura: una scacchiera, e
Berecche che vi passeggia sopra con la gamba levata a modo dei fantaccini
tedeschi e un elmetto puntuto, a chiodo, sul testone.
La caricatura è
nella scacchiera: per dire che Berecche vede il mondo così, a scacchi, e
vi cammina alla tedesca con mosse ponderate e regolari, da onesta pedina
appoggiata al re, alle torri, agli alfieri.
Sotto a quella
caricatura un bello spirito ha scritto: Medio - evo, con un gran
punto esclamativo.
- La Germania, Medio
- evo? - domandò sdegnato Federico Berecche quando vide sul marmo del
tavolino quel disegno, non riconoscendosi naturalmente nella caricatura,
ma riconoscendo l'elmetto a chiodo germanico. - Medio - evo, la Germania?
Cari miei! Primato nella cultura, primato nelle industrie, primato nella
musica, e l'esercito piú formidabile del mondo. -
In prova di che,
tratta di tasca la scatoletta di legno turchina e gialla, aveva acceso la
pipa con uno streichholtz, perché Berecche sdegna come molle l'uso
e l'industria dei cerini italiani.
Al
primo annunzio della neutralità dichiarata dall'Italia nel conflitto
europeo ebbe perciò un fremito d'ira contro il governo italiano.
- E il patto
d'alleanza? L'Italia si tira indietro? E chi potrà piú d'ora in poi
fidarsi di lei? Neutrali? Ma è tempo questo di stare affacciati alla
finestra, mentre tutti si muovono? Bisogna prender subito posto, perdio! E
il nostro posto... -
Non lo han lasciato
finire. Un coro di fierissime proteste, d'invettive, d'ingiurie, l'ha
assalito da ogni parte e sopraffatto. - Il patto d'alleanza? dopo che
l'Austria l'ha strappato aggredendo? dopo che la Germania, impazzita,
dichiara guerra a destra, guerra a sinistra, guerra finanche alle stelle,
senza darcene avviso, senza tener conto delle nostre condizioni?
Ignorante! imbecille! Che parola e parola! Combattere ai nostri danni?
Ajutare l'Austria a vincere? noi? E le nostre terre irredente? E le nostre
coste e le nostre isole, con la flotta inglese e francese contro di noi?
Possiamo essere contro l'Inghilterra, noi? Ignorante! imbecille! -
Federico Berecche ha
tentato in prima di tener testa, rinfacciando ai furibondi avversarii i
torti e le offese della Francia.
- Tunisi! Vi siete
così subito dimenticati della ragione della triplice alleanza, Ma or ora,
durante la guerra libica, i contrabbandi ai turchi? E domani ignoranti e
imbecilli voialtri! - domani ci rivedremmo a Campoformio o a Villafranca!
-
Poi, interrotto
quasi a ogni parola, s'è provato a dimostrare che, in ogni caso... -
scusate, scusate... neutrali? ma che neutrali! di nome, non di fatto!
perché in realtà, piú atto ostile di questo? Vantaggio inestimabile
sopratutto per la Francia. Pecoroni... neutralità... Ma Niccolò
Machiavelli... (avevano il coraggio di dare dell'ignorante a lui
professore di storia in ritiro), sicuro, Machiavelli, Machiavelli, su i
pericoli della neutralità, il formidabile dilemma: Se due potenti tuoi
vicini vengono alle mani...
Un'urlata generale
gli ha troncato in bocca la citazione. Ma se lui stesso diceva di nome e
non di fatto la neutralità, che c'entrava piú Machiavelli col suo
dilemma? Atto ostile, sissignori! Contro l'Austria, sissignori! Perché
l'Austria agisce a nostro danno. Tanto è vero che s'è mossa senza
dircene nulla. E dobbiamo esser grati alla sorte, che lei stessa da sé
con la sua azione inconsulta ci abbia disimpegnati. Domani... che? la
Francia e la Russia, vincendo, non vorranno tener conto dei vantaggi
recati loro dalla nostra astensione? Eh via, ci penserà l'Inghilterra a
salvaguardarci, che non potrà permettere, nel suo stesso interesse, una
diminuzione nostra sul Mediterraneo.
Con tali e simili
argomenti la neutralità dell'Italia è stata difesa; così calorosamente,
che alla fine ha dovuto arrendersi e non ha piú osato fiatare. L'idea che
l'Italia per la sua posizione geografica sarà domani il timone della
situazione l'ha impressionato moltissimo. Il timone della situazione! Vuol
dire che la fortuna volgerà da qual parte noi, al momento opportuno, ci
gireremo. E la rotta non potrà esser dubbia.
- Ma almeno
armiamoci, perdio! - ha tonato Berecche esasperatamente, levando le pugna
pelose.
E, così tonando, in
questo grido - è inutile - Federico Berecche s'è sentito, in fondo al
cuore, tedesco.
Tuttavia,
jersera alla birreria non ha piú osato difendere i Tedeschi dalle
terribili accuse dei suoi amici. Nemmeno uno, nemmeno il buon Fongi
sonnacchioso, sempre d'accordo con lui per amor di pace, favorevole alla
Germania.
Non diceva nulla il
buon Fongi, ma di tratto in tratto si voltava a guardarlo timorosamente
con la coda dell'occhio, forse aspettandosi un suo scatto di ribellione da
un momento all'altro. E Berecche ha avuto quasi la tentazione di
scaraventargli un pugno in faccia. Ha rifiatato quando gli amici,
lasciando da parte i Tedeschi, si sono abbandonati a considerazioni
generali. Una specialmente gli s'è fissata, anche per l'aria cupa e grave
con cui, in un momento di silenzio, l'amico che gli stava di fronte la
enunciava, guardando dentro il piccolo sciop il velo salivoso lasciato
dalla spuma a galla della birra.
- Tutto sommato, per
quanto funesti saranno gli eventi, tremende le conseguenze, possiamo esser
lieti almeno di questo: che ci sia toccato in sorte d'assistere all'alba
di un'altra vita. Abbiamo vissuto quaranta,
cinquanta, sessanta
anni, sentendo che le cose, così com'erano, non potevano durare; che la
tensione degli animi si faceva a mano a mano piú violenta e doveva
spezzarsi; che infine lo scoppio sarebbe venuto. Ed ecco, è venuto.
Tremendo. Ma almeno, vi assistiamo. Le ansie, i disagi, l'angoscia, le
smanie d'una così lunga e insostenibile attesa, avranno una fine e uno
sfogo. Vedremo il domani. Perché tutto muterà per forza, e noi tutti
useremo certamente da questo spaventoso sconquasso con un anima nuova. -
Subito Berecche ha
fissato nella sala un tavolino e tre sedie da cui si levavano gli
avventori. Li ha fissati a lungo, avvertendo di punto in punto sempre piú,
per quelle tre sedie vuote e quel tavolino abbandonato, una strana
malinconica invidia.
Se n'è distratto
con un profondo sospiro, allorché un altro degli amici ha preso a dire:
- E chi sa! pensate
che l'India, la Cina, la Persia, l'Egitto, la Grecia, Roma diedero esse un
tempo il la alla vita, sulla terra. Un lume s'accende e sfavilla
per secoli e secoli in una regione, in un continente; poi, a poco a poco
si smorza, vacilla, si spegne. Chi sa! Forse ora sarà la volta
dell'Europa. Chi può prevedere le conseguenze d'un così inaudito
conflitto? Forse non vincerà nessuno e si distruggerà tutto, ricchezze,
industrie, civiltà. Il la alla vita cominceranno forse a darlo le
Americhe, mentre qua la rovina si farà a mano a mano totale e verrà
tempo che le navi approderanno alle coste d'Europa come si approda a terre
di conquista. -
Dentro un altro piú
profondo sospiro Berecche s'è veduto lontano lontano, con tutta l'Europa,
retro spinto nelle caligini d'una favolosa preistoria. Poco dopo è sorto
in piedi e s'è licenziato bruscamente dagli amici per ritornarsene a
casa.
II
Di sera, per via
Berecche
abita in una traversa remota in fondo a via Nomentana.
In quella traversa
appena appena tracciata e ancor senza fanali sorgono soltanto tre villini,
a manca, costruiti di recente; a destra è una siepe campestre che cinge
terreni ancora da vendere e da cui spira, nell'umidor della sera, un
fresco odore di fieno falciato.
Meno male che uno
dei tre villini è stato acquistato da un vecchio prelato molto ricco che
vi abita con tre nipoti, zitelle appassite, le quali a turno sul far della
sera montano su una scaletta a mano per accendere un lampadina innanzi
alla Madonnina di porcellana azzurra e bianca, collocata da circa un mese
a uno spigolo del villino.
Di notte, quel
lampadina pietoso stenebra la traversa solitaria.
Ci si sta come in
campagna; e come in campagna aperta si sente nel silenzio il fragorio
lontano dei treni notturni. Dietro il cancello dei villini, a ogni rumor
di passi, i cani s'avventano con furibondi latrati. Ma almeno Berecche può
godersi un po' d'aperto, davanti, e la quiete.
Dalle quattro
finestre a pianterreno può vedere in un'ampia plaga di cielo le stelle,
con le quali conversa a lungo le notti nei suoi ozii di tranquillo
pensionato. Le stelle e la luna, quando c'è. E, sotto la luna, i pini e i
cipressi di Villa Torlonia. Ha un pezzo di giardinetto anche lui, di sua
esclusiva pertinenza, con una fontanella, il cui chioccolio nei notturni
silenzii gli è caro.
Ma la moglie, ahimè,
le due figliuole che gli son rimaste in casa, l'unico figlio maschio, già
studente di lettere all'Università, la serva, e ora anche il fidanzato
della maggiore delle figliuole, non sentono affatto la poesia della
solitudine, del cielo stellato, della luna sopra i cipressi e i pini della
villa patrizia, e sbuffano o sbadigliano lamentosamente come cani
affamati, al monotono, perpetuo chioccolio di quella deliziosa fontanella.
Sembra loro di star lì come relegati, in esilio. Ma Berecche - metodo,
metodo, metodo tien duro, e ha rinnovato l'affitto per tre anni.
Ora l'incubo della
distruzione generale, che spegnerà ogni lume di scienza e di civiltà
nella vecchia Europa, gli si fa su l'anima piú grave e opprimente quanto
piú egli s'affonda nel bujo della via remota e deserta, sotto la
quadruplice fila dei grandi alberi immoti.
Come sarà, quale
sarà la nuova vita, quando lo spaventoso scompiglio sarà freddato nelle
rovine? Con quale anima nuova ne uscirà lui, a cinquantatrè anni?
Altri bisogni, altre
speranze, altri pensieri, altri sentimenti. Tutto muterà per forza. Ma
non questi grandi alberi, intanto, che non hanno per loro fortuna né
pensieri né sentimenti! Mutata l'umanità attorno a loro, essi resteranno
gli stessi alberi, tali e quali.
Ahi ahi, ha una gran
paura Federico Berecche che ormai non gli verrà fatto di mutare, neanche
a lui piú, nel fondo del cuore, qualunque cosa sia per accadere nel tempo
che ancora gli avanza. S'è abituato a conversar con le stelle, ogni
notte; e, al freddo lume di esse, i sentimenti terreni gli si sono come
rarefatti dentro. Non si direbbe, perché la volontà di vivere
esteriormente, in quel certo suo modo metodico, tedesco, s'appalesa ancora
in lui tenace. Ma in fondo è stanco e triste, di una tristezza che gli
eventi del mondo difficilmente potranno alterare.
Vincano i Francesi,
i Russi e gl'inglesi, o vincano i Tedeschi e gli Austriaci; sia o no
l'Italia trascinata anch'essa alla guerra, venga la miseria e lo squallore
della sconfitta o tripudii frenetica la vittoria per tutte le città della
penisola; si trasformi la carta geografica dell'Europa; non cangerà mai -
questo è certo - il malanimo, il chiuso rancore di sua moglie contro di
lui, il rammarico della sua vita tramontata senz'alcun ricordo di vera
gioja. E nessuna potenza umana o divina potrà ridar la luce degli occhi
alla sua piú piccola figliuola, da sei anni cieca.
Ora, rientrando in
casa, la ritroverà seduta in un angolo della saletta da pranzo, con le
mani ceree su le gambe, la testina bionda appoggiata al muro, e poiché
dal visino spento non si conoscerà se dorma o sia sveglia, le chiederà
come ogni sera:
- Dormi, Ghetina? -
E Margheritina senza
rimuovere il capo dal muro, gli risponderà:
- No, papà, non
dormo...
Non parla mai, non
si lamenta mai, pare che dorma sempre; forse non dorme mai.
Berecche,
proseguendo la via, sotto i grandi alberi, si raschia la gola, perché, da
uomo forte, educato alla tedesca, non vuol lasciarsela serrare
dall'angoscia. Ma tutti vivono nella luce; lui stesso vive nella luce e può
darsi pace, mentre c'è questa cosa orribile nella vita: che la sua
figliuola vive nel bujo, sempre, e sta lì, in silenzio, con la testina
appoggiata al muro, in attesa di morire: un attesa che durerà chi sa
quanto.
Un'altra vita: altri
pensieri, altri sentimenti. Già, sì! Carlotta, la figliuola maggiore, ha
lasciato da un anno i corsi universitarii perché s'è fidanzata con un
bravo ragazzo della Valle di Non nel Trentino, laureato appena da un anno
in lettere e filosofia all'Università di Roma; bravo ragazzo, di animo
acceso, di nobili sentimenti e pieno di buona volontà; ma ancora senza
stato; e ora piú che mai incerto dell'avvenire. Tre dei suoi fratelli, a
San Zeno, sono stati richiamati sotto le armi. Il padre è capocomune di
San Zeno. Quei tre poveri fratelli non han potuto perciò sottrarsi
all'obbligo odioso di combattere per l'Austria e chi sa, se le cose per
noi si mettono male, fors'anche contro l'Italia, domani. Che orrore! Lui,
intanto, non s'è presentato all'appello, e addio dunque Valle di Non,
addio San Zeno, addio vecchi genitori: disertore di guerra, domani, se
preso, sarebbe impiccato o fucilato alla schiena. Ma spera che l'Italia...
chi sa! Correrebbe volontario, anche a costo di trovarsi a combattere
contro quei suoi disgraziati fratelli. Insieme con Faustino correrebbe.
Berecche torna a
raschiarsi piú forte la gola fino a stracciarsela, al pensiero che
Faustino, il suo unico maschio, il suo prediletto, che per fortuna
quest'anno non è ancora di leva, andrebbe ad arruolarsi volontario
insieme col futuro cognato. Egli non potrebbe piú dirgli di no; ma perdio
- maledetta la gola! maledetto l'umido della notte! - con tutti i suoi
cinquantatrè anni sonati, con tutta quella carnaccia che gli s'è
appesantita addosso, andrebbe ad arruolarsi anche lui, allora, per non
lasciare andar solo Faustino, per non morir di terrore una volta al
giorno, a ogni annunzio di battaglia, sapendo Faustino in mezzo al fuoco:
sissignori, anche lui Berecche andrebbe, volontario col pancione, anche...
anche contro i Tedeschi, sissignori!
Eccola... eh, eccola
subito già, l'altra vita! La guerra, col figliuolo giovinetto da un lato
e, dall'altro lato, l'altro figliuolo nuovo, alla conquista delle terre
irredente. Chi sa? Forse domani.
Berecche è
arrivato; volta a destra; imbocca la traversa solitaria. Ecco nel bujo
fitto il lumino rosso innanzi alla Madonnina. Miracoli dell'altra vita. Si
ferma Berecche innanzi a quel lumino; si scopre, non visto da nessuno, per
dire qualcosa a quella Madonnina.
E abbaino, abbaino
pure, furibondi, dietro i cancelli, i cani.
III
La guerra sulla
carta
Berecche
ricorda. Quarantaquattr'anni fa. Bandierine francesi e bandierine
prussiane - quelle sole, allora - infisse come ora con gli spilli su la
carta geografica distesa su un tavolino della saletta da pranzo. Teatro
della guerra. Che bel giuoco per lui, ragazzo allora di nove anni!
La rivede come in
sogno quella saletta gialla da pranzo della casa paterna, coi lumi a
petrolio, d'ottone, e i paralumi di mantino verde; tante casse in giro
coperte da pancali di drappo a fiorami; un canterano panciuto di qua, una
mensola di là, e due cantoniere agli angoli, con cestelli di frutta di
marmo colorate e fiori di cera sui palchetti; su quella a sinistra, un
orologetto di porcellana che figurava un mulino a vento, suo amore, con
una delle ali rotte.
Attorno a quel
tavolino che ora, unico decrepito superstite, nascosto da un tappetino
nuovo, è in camera del suo figliuolo, rivede suo padre e alcuni amici
discutere sulla guerra franco - prussiana. Farsetti sgarbati, abbottonati
fino al collo e calzoni larghi, a tubo. Baffi insegati e moschetta alla
Napoleone III o barba a collana alla Cavour. Curvi su quella carta
geografica, segnavano col dito la via degli eserciti, secondo le
indicazioni e le previsioni degli scarsi e tardivi giornali d'allora, e
parlavano accesi, e nessuno lasciava quieto su questa o quella traccia il
dito dell'altro. Un altro dito, e poi un altro, e un altro: ciascuno
voleva metterci il suo. E ognuno di quei diti - ricorda - ai suoi occhi
infantili assumeva subito una strana personalità: quello, tozzo e duro,
si piantava ostinato su un punto; l'altro, nervoso e spavaldo, gli fremeva
davanti per passare da quello stesso punto: ed ecco il terzo, un ditino
mignolo storto, sopravveniva di straforo, in ajuto di questo o di quello,
e s'insinuava tra quei due che si scostavano per dargli passo. E che
grida, e che sbuffi, che esclamazioni o stridule risate su tutte quelle
dita, tra una nuvola di fumo! Di tanto in tante, un nome che tonava come
una cannonata:
- Mac Mahon! -
Berecche
sorride al lontano ricordo, poi aggrotta le ciglia e resta assorto, con le
mani a pugno chiuso sui ginocchi discosti. Considera la carta geografica
che gli sta davanti, era, con tante bandierine di tanti colori. Con tutte
queste bandierine variopinte, se potesse venir fuori dal ricordo, lì
nello scrittojo, innanzi a lui vecchio, il ragazzetto di nove anni che
giocava allora alla guerra, chi sa come si divertirebbe al nuovo giuoco piú
grande, piú vario e complicato! Belgio, Francia, Inghilterra, di qua,
contro la Germania; contro la Russia di là, nella Prussia orientale, in
Polonia di giú, contro l'Austria, la Serbia e il Montenegro e contro
l'Austria, ancora, la Russia, piú su, in Galizia.
Che matta voglia
avrebbe il ragazzetto di nove anni di far passare di corsa, sorvolare sul
Belgio quelle bandierine tedesche tra gli inchini ossequiosi delle
bandierine belghe; in quattro salti farle arrivare a Parigi; piantarne lì
un pajo, vittoriose, e in altri quattro salti farle tornare indietro e
avventarle contro la Russia insieme con quelle austriache!
Così, così - è
incredibile - come nel giuoco avrebbe fatto lui ragazzetto di nove anni,
hanno pensato sul serio di poter fare i Tedeschi, ora, dopo
quarantaquattro anni di preparazione militare! Sul serio hanno pensato che
il Belgio neutrale potesse lasciarsi invadere quietamente e lasciarli
passare senza opporre la minima resistenza, a Liegi, a Namur, per dar
tempo alla Francia impreparata di raccogliere gli eserciti e
all'Inghilterra di sbarcare le sue prime milizie ausiliarie: così!
Gli amici della
birreria strillano ogni sera come aquile contro l'iniqua invasione e gli
atti di selvaggia ferocia; lui Berecche non insorge, sta zitto, pur
sentendosi divorare dentro dalla rabbia, perché non può gridar loro in
faccia, come vorrebbe:
- Imbecilli! che
strillate! È la guerra! -
Non insorge, e
ingozza, perché è sbalordito. Sbalordito non di quella invasione, non di
quegli atti di ferocia, ma della colossale bestialità tedesca.
Sbalordito.
Dall'altezza del suo
amore e della sua ammirazione per la Germania, cresciuti smisuratamente
con gli anni, questa colossale bestialità è precipitata come una valanga
a fracassargli tutto: l'anima, il mondo quale se lo era a mano a mano, dai
nove anni in su, tedescamente costruito, con metodo, con disciplina, in
tutto: negli studii, nella vita, nelle abitudini della mente e del corpo.
Ah, che rovina! Il
ragazzetto di nove anni era cresciuto, cresciuto; era il suo amore, era la
sua ammirazione; diventato un gigante florido e prosperoso, che sapeva
tutto meglio degli altri, che faceva tutto meglio degli altri, ecco, dopo
quarantaquattro anni di preparazione, si rivelava un bestione: forzuto, sì,
dalle mani e dalle zampe bene addestrate e poderose; ma che pensava sul
serio di poter giocare alla guerra ancora come un ragazzaccio feroce di
nove anni, o come se al mondo ci fosse lui solo e gli altri non contassero
per nulla: in quattro salti passare a traverso il Belgio e andare a
piantar le bandierine, un pajo, su Parigi, e poi via, di corsa, in altri
quattro salti, su Pietroburgo e su Mosca. E l'Inghilterra?
- Incredibile!
incredibile! -
Nello sbalordimento
Berecche non finisce piú di esclamare così, non trova piú da dir altro:
- Incredibile! -
E con le mani si
gratta la testa e sbuffa, e le bandierine, qualcuna vola, altre si
piegano, altre s'abbattono su la carta geografica.
Lì
tappato nel suo studio, che nessuno lo vede, Berecche si sente voltare il
cuore in petto al ricordo di ciò ch'egli intendeva per metodo tedesco, al
tempo dei suoi studii, al ricordo delle sodisfazioni ineffabili che esso
gli dava quando con gli occhi stanchi della faticosa paziente
interpretazione dei testi e dei documenti, ma con la coscienza tranquilla
e sicura d'aver tenuto conto di tutto, di non essersi lasciato sfuggire
nulla, di non aver trascurato nessuna ricerca utile e necessaria,
palpeggiava, la sera, rincasando dalle biblioteche, là sul tavolino da
studio, il tesoro dei suoi schedarii voluminosi. E tanto piú si sente
sanguinare il cuore, in quanto ora avverte con sordo livore, che per le
sodisfazioni che gli dava quel metodo egli, sotto sotto, commetteva la
vigliaccheria di non dare ascolto a una certa voce segreta della sua
ragione insorgente contro alcune affermazioni tedesche, che offendevano in
lui non soltanto la logica ma anche, in fondo in fondo, il suo sentimento
latino: l'affermazione, per esempio, che ai Romani mancasse il dono della
poesia; e, accanto a questa affermazione, la dimostrazione che poi fosse
leggendaria tutta la prima storia di Roma. Ora, o l'una
cosa o l'altra. Se
leggendaria, cioè finta, quella storia, come negare il dono della poesia?
O poesia o storia. Impossibile negare l'una e l'altra cosa. O storia vera,
e grande; o poesia non meno grande e vera. E con questo, gli tornano ora
alla mente le parole del vecchio Goethe dopo aver letto i due primi volumi
della Storia romana del Niebuhr, fino alla prima guerra punica:
- Finora credevamo
alla grandezza d'una Lucrezia, d'un Muzio Scevola; perché annientare con
piccoli ragionamenti la grandezza di simili figure? Se i Romani furono così
grandi da credersi capaci di tali cose, non dovremmo noi essere almeno così
grandi da prestar loro fede? -
Goethe, Schiller, e
prima Lessing, e poi Kant, Hegel... Ah, quand'era piccola, quando ancora
non era, la Germania, questi giganti! E ora, gigante, ecco qua, s'è
buttata, pancia a terra, con le mani afferrate sotto il petto e un gomito
qua, sul Belgio e in Francia, l'altro là su la Russia in Polonia:
- Smovetemi, se
siete capaci! -
Quanto resisterà il
bestione così piantato?
- Oh bestione, sono
tanti! sono tanti! E tu contavi di sbrigarti in due zampate! Hai
sbagliato! Non hai visto niente; non hai vinto subito; ti sei buttato così
a terra puntando le gomita di qua e di là; potrai resistere a lungo? oggi
o domani ti smoveranno, ti slogheranno, ti faranno a pezzi! -
Berecche balza in
piedi congestionato, ansante, come se avesse fatto lo sforzo di smuovere
da terra il bestione.
IV
La guerra in
famiglia
Che
avviene di là?
Strilli, pianti,
nella saletta da pranzo. Berecche accorre; vi trova il fidanzato della
figliuola maggiore, il dottor Gino Viesi della Valle di Non nel Trentino,
pallido, con gli occhi pieni di lagrime e una lettera in mano.
- Notizie?
- I fratelli! -
grida Carlotta, fremente, guatandolo con occhi rossi di pianto, ma feroci.
Gino Viesi gli
mostra senza guardarlo la lettera che gli trema in mano.
Due dei tre
fratelli, Filippo di 35 anni, padre di quattro bambini, Erminio di 26,
sposo da pochi giorni, richiamati dall'Austria sotto le armi e mandati in
Galizia... Ebbene? - Nessuno risponde.
- Tutti e due?
Morti? -
Il giovane,
riassalito da un impeto di pianto, prima di nascondere il volto, fa cenno
- uno - con un dito.
- Uno è certo, -
dice a Berecche piano, con astio, anzi con rancore, la moglie, mentre
Carlotta si alza per sorreggere il fidanzato e piangere con lui.
- Erminio? -
La moglie, dura,
tozza, scapigliata, scuote il capo: no.
- L'altro? Il padre
di quattro figliuoli? -
Gino Viesi scoppia
in piú forti singhiozzi su la spalla di Carlotta.
- Ed Erminio? -
La moglie soggiunge,
urtata:
- Non si sa:
scomparso! -
Margherita, la
cechina, occhi per vedere come piangano gli altri, con quali aspetti (un
aspetto, quello di Gino, fidanzato della sorella, che chiama anche lei
Gino, non sa neppur come sia), occhi per vedere, no, ma per piangere, sì,
li ha ancora; e piange in silenzio, lagrime che ella non vede, che nessuno
vede, là nel suo cantuccio, appartata.
- E nemmeno uno
grida per noi! - prorompe alla fine Gino Viesi, levando il capo dalla
spalla di Carlotta e facendosi innanzi a Berecche. - Nemmeno uno grida per
noi! Nessuno fa niente! Li hanno mandati tutti al macello, i trentini e i
triestini! E qua tutti voialtri sapete che il sentimento nostro è il
vostro stesso e che là vi si aspetta, lo sapete! Ma nessuno ora prova in
sé lo strazio di vedere strappati a questo stesso vostro sentimento i
fratelli nostri, e mandati là al macello! Nessuno, nessuno... E quei
pochi che siamo qua di Trento e di Trieste, siamo come spatriati in
patria; e per miracolo lei, lealista, non mi grida che il mio posto
sarebbe là, a combattere e a morire per l'Austria con gli altri miei
fratelli!
- Io? - esclama
Berecche, trasecolato.
- Lei, tutti! -
incalza il giovine nella furia del dolore. - Ho veduto, ho sentito; non ve
ne importa nulla; dite che non val la pena che l'Italia si muova per aver
Trento, che forse l'Austria le darà un giorno pacificamente, per aver
Trieste che non vuole essere italiana... Non dite Così? Lo dite e
lo sentite! E perciò ci avete fatto calpestare, sempre; e non siete stati
mai buoni d'ottenerci nulla! -
Gino Viesi è
giovine e addolorato; così, col bel volto in fiamme e il bel ciuffo
biondo scomposto, non può intendere che nulla irrita tanto quanto il
porre innanzi, in certi momenti, e il far gridare un sentimento che è il
nostro stesso in segreto, ma che noi vogliamo tener nascosto dentro,
soffocato ancora da certe ragioni che ci si sono già scoperte false;
queste ragioni allora s infiammano del sentimento che, pur essendo nostro,
ci vediamo opposto come nemico, e ci vediamo tratti a difendere ciò che
in fondo stimiamo falso e ingiusto.
Questo avviene ora a
Berecche. Irritato, grida al giovine:
- Ma che vorresti?
che l'Italia impedisse all'Austria in guerra di mandare contro la Russia e
contro la Serbia i trentini e i triestini? Finché state sotto di lei, è
nel suo diritto!
- Ah, sì! dice
diritto, lei? - grida a sua volta Gino Viesi. - E dunque, se questo è il
diritto dell'Austria legittimo, io, secondo lei, che faccio? manco ai miei
doveri, io, standomene qua? Dobbiamo andar tutti a morire per l'Austria,
è vero? Lo dica! lo dica! Diritto... ma sì, quello del padrone che manda
a scudisciate gli schiavi dove gli pare e piace! Ma chi ha mai
riconosciuto all'Austria il diritto di tenere sotto di sé Trento,
Trieste, l'Istria, la Dalmazia? Se lei stessa, l'Austria, sa di non averlo
questo diritto! Sì, tanto è vero che fa di tutto per sopprimerci, per
cancellare ogni vestigio di italianità da quelle terre nostre! L'Austria,
sì, lo sa; e voi no, voi che la lasciate fare! E ora di fronte a una
guerra che subito, dal principio s'è presentata come volta ai danni
nostri, contro gl'interessi nostri, ora la neutralità, è vero? il
partito da prendere, e non le armi per la liberazione nostra e la difesa
di quegli interessi, là appunto dove prima l'Austria ha cominciato a
minacciarla?
- Ma la neutralità...
- si prova a opporre Berecche.
Gino Viesi non gli
lascia il tempo di proseguire:
- Sì, benissimo,
per voi! - soggiunge. - Perché nessuno poteva venire qua a costringervi a
marciare e a combattere contro il sentimento vostro e i vostri interessi!
Ma avete pensato a noi di là, che dovremmo essere appunto questo
sentimento vostro, che siamo appunto ciò che chiamate «i vostri
interessi»? Noi di là ci avete lasciati prendere, con la vostra
neutralità, e trascinare al macello; e dite ancora ch'era il diritto
dell'Austria, questo; e nessuno grida per il sangue dei miei fratelli
uccisi! Gridano tutti, invece Viva il Belgio! qua, Viva la
Francia! Or ora, venendo, le ho incontrate le colonne dei dimostranti
per le vie di Roma. Un delirio!
- E Faustino? -
domanda a un tratto Berecche rivolto alla moglie.
- Là, pure lui, coi
dimostranti! - risponde subito Gino Viesi. - Viva il Belgio, viva la
Francia! -
Berecche, furibondo,
appunta minacciosamente l'indice contro la moglie:
- E tu me lo lasci
scappare di casa? E non me ne dici niente? Ma che sono diventato io qua?
Si rispettano così, adesso, le mie idee, i miei sentimenti? Lo dico a te
e lo dico a tutti! Ah sì? Viva il Belgio, viva la Francia...
Ma la vorrò vedere io, domani, la Francia quando con l'ajuto degli altri
avrà vinto! Domani addosso a noi di nuovo, il galletto, quando avrà
rialzato la cresta vittoriosa, con l'ajuto degli altri... Imbecilli!
imbecilli! imbecilli! -
E Berecche, dopo
questa sfuriata, scappa a rinchiudersi nel suo studio, tutto sconvolto e
tremante della violenza che ha dovuto fare a se stesso.
Ah, che cosa... che
cosa... ah Dio, che cosa...
Crollato
tutto, dentro. Ma può forse permettere che gli altri se n'accorgano? La
Germania, fino a jeri, è stata il suo prestigio, la sua autorità in
casa; è stata tutto per lui, la Germania, fino a jeri. E ora... ecco qua:
ora, ogni mattina, la moglie - anche questo! - appena la serva ritorna
dalla spesa giornaliera, lo investe, domanda conto e ragione a lui di
tutti i viveri rincarati - di tanto il pane, di tanto la carne, di tanto
le uova - come se la avesse voluta lui, mossa lui, la guerra! Col cuore
esulcerato, con la rovina dentro, gli tocca anche d'affogare in tutte
queste volgarità della moglie, che per miracolo non lo vuole anche
responsabile del pericolo a cui Faustino è esposto, d'esser chiamato
prima del tempo sotto le armi e mandato a combattere, se l'Italia sarà
anch'essa trascinata in guerra! Non rappresenta forse la Germania, lui, in
casa; la Germania che ha voluto la guerra?
E sissignori, per il
suo prestigio in famiglia, deve seguitare ancora a rappresentarla, se no...
Se no, che Cosa? Ecco il bel risultato: il figliuolo che gli scappa di
casa e va a gridare con gli altri imbecilli per le vie di Roma Viva la
Francia; e quell'altro povero giovine di là, a cui hanno ucciso due
fratelli, che lo accusa della neutralità dell'Italia e del macello dei
trentini e dei triestini sotto Leopoli!
Ah, Germania infame,
infame, infame! Non ha previsto neanche male, questa tragedia nel cuore di
tanti e tanti, che in Italia e anche in altri paesi, con così duro sforzo
e amari sacrifizii, soffocando tanti sbadigli, ingozzando tanta roba
indigesta, erudizione, musica, filosofia, s'erano educati ad amarla e a
far professione di questo amore! Germania infame, ecco, così adesso
ripaga le sue vittime, dell'amore e dell'ammirazione professati a lei per
tanti anni.
Berecche, non
potendo far altro, la tempesterebbe di colpi di spillo, là, di nascosto,
su la carta geografica, con tutte le bandierine francesi, inglesi, belghe,
russe, serbe e montenegrine!
V
La guerra nel mondo
S'è
fatto sera. Ma egli resta al bujo nel suo studio e passeggia con una mano
su la bocca, guardando di tanto in tanto l'estremo barlume del crepuscolo
ai vetri delle due finestre. Scorge da una il lampadina rosso già acceso
innanzi alla Madonnina del villino dirimpetto; aggrotta le ciglia e si
appressa alla finestra. Vede allora, al lume della grossa lampada che si
projetta nel vestibolo, uscire di casa e attraversare il giardino sua
moglie con Margheritina per mano.
Va, che non pare, la
piccola cara. Quasi non pare, se non si sapesse. Almeno a guardarla così
di dietro. Forse perché si fida della mano che la guida. Solo, a
osservarla attentamente, tiene la testina un pochino rigida sul collo, e
le spallucce un pochino rialzate. La ghiaja non stride sotto i suoi
piedini, perché l'anima è levata per non toccare quel che non vede, e il
corpicciuolo quasi non pesa.
Ma dove va con la
mamma a quest'ora? E Faustino, come non è ancora rincasato. Sarà andato
via Gino Viesi?
Berecche si reca a
far tutte queste domande a Carlotta. Nella saletta da pranzo non c'è piú
nessuno. Carlotta s'è chiusa nella sua stanza e seguita a piangere,
anch'essa al bujo; risponde alle domande col tono secco e sgarbato della
madre: - Gino? Andato via. - Faustino? Che ne sa lei? - La mamma? Con
Ghetina, da Monsignore, per la novena.
Da tre sere, nel
villino di Monsignore dirimpetto, si fanno preghiere per il Papa che sta
male, per il Papa che muore.
Berecche rientra
nello studio, si riappressa alla finestra e guarda il villino dirimpetto,
con l'animo ora oscurato e compreso di cordoglio per questo Papa, santo
vecchio paesano, cui solo la schiettezza grande della fede fa degno del
gran seggio. Ah, chi piú di lui, Pio veramente, volle richiamar Cristo
nel cuore dei fedeli; E muore in mezzo a tanta guerra, ucciso dal dolore
di tanta guerra. Certo, sul suo letto di morte, egli non dirà, come forse
dice piano qualcuno accanto a lui, che questa guerra è per la Francia la
retribuzione giusta di Dio per i suoi torti verso la Chiesa. Piú nefandi
peccatori per lui sono certo quegli altri che hanno osato chiamar Dio a
proteggere la marcia e la carneficina dei loro eserciti e il segno della
divina protezione hanno osato vedere ed esaltare nelle atrocità delle
loro vittorie Egli non ha detto piú nulla; con orrore ha ritratto la
mano, che altri voleva levata a benedire questa scelleraggine mostruosa; e
s'è chiuso nel dolore che l'uccide.
Lume maledetto della
ragione! Ragione maledetta, che non sa accecarsi nella fede! Lui Berecche
vede, o crede di vedere con questo lume tante cose che gl'impediscono ora
di pregare con la sua piccola figliuola Margherita, cieca nella cieca
fede, per il Papa buono che muore. Ma è contento, sì, ch'ella preghi di
là, la sua Margheritina; è contento che una parte di lui, così
angosciosamente amata, priva di quel suo lume di ragione, cieca preghi di
là per il buon Papa che muore. Gli sembra veramente che con le pallide
gracili mani di quella sua piccola cieca, giunte nella preghiera, egli,
della sua anima che per sé non sa pregare, dia adesso qualcosa quel che
può - in suffragio del buon Papa che muore.
Intanto,
si fanno le otto della sera; poi le nove, poi le dieci, e Faustino ancora
non rincasa.
La madre, ritornata
da un pezzo con Ghetina dal villino di Monsignore e la sorella Carlotta
sono entrate piú volte nello studio a manifestare la loro costernazione,
a scongiurarlo a mani giunte di muoversi, d'andare in cerca di lui, per
sapere almeno se qualche disgrazia, Dio liberi, non sia accaduta con
quelle maledette dimostrazioni.
Berecche le ha
cacciate via, furente, ha gridato loro in faccia di non volersi muovere
perché di quel mascalzoncino là non gliene importa piú nulla, non lo
considera piú come suo figliuolo, e se l'hanno calpestato, ferito,
arrestato, piacere, piacere, piacere.
Finalmente, poco
dopo le dieci e mezzo, Faustino rincasa, con addosso una gran paura del
padre, ma pure acceso e vibrante ancora di quanto gli è accaduto. Lo
hanno arrestato. Ma vibra di sdegno, di nausea, per l'ira dei soldati, ah,
per fortuna pochi, che lo hanno arrestato, malmenandolo e gridandogli:
- Vigliacco, fai così
perché non dovrai andarci tu, domani, alla guerra!
E ora lui vuole
andarci, vuole andarci, vuole andarci alla guerra, per dare a quei soldati
che lo hanno arrestato una degna risposta.
- Zitto! - gli grida
la madre piú scarmigliata che mai. - Se tuo padre ti sente di là! -
Ma Berecche non si
muove dallo studio. Non vuoi vederlo. Alla moglie che viene ad
annunziargli che è ritornato, ordina di dirgli che non s'arrischi a farsi
vedere. Poco dopo, Carlotta sporge il capo dall'uscio:
- La cena è pronta.
Fausto è in camera sua.
- Resto io, qua! Mi
porti qua da cena la serva. Non voglio veder nessuno! -
Ma
non può cenare. Ha un nodo alla gola, piú di rabbia che d'angoscia. A
poco a poco però comincia a calmarsi, a cadere quasi in un letargo grave,
attonito, a lui ben noto. È la ragione filosofica, che pian piano, come
si fa sera, riprende in lui il predominio.
Berecche si alza,
s'appressa alla finestra piú vicina, siede e si mette a guardare le
stelle.
Le vede per gli
spazii senza fine, come forse nessuna o appena forse qualcuna di quelle
stelle la può vedere, questa piccola Terra che va e va, senza un fine che
si sappia, per quegli spazii di cui non si sa la fine. Va granellino
infimo, gocciolina d'acqua nera, e il vento della corsa cancella in uno
striscio violento di tenue barlume i segni accesi dell'abitazione degli
uomini in quella poca parte in cui il granellino non è liquido. Se nei
cieli si sapesse che in quello striscio di tenue barlume son milioni e
milioni d'esseri irrequieti, che da quel granellino lì credono sul serio
di potere dettar legge a tutto quanto l'universo, imporgli la loro
ragione, il loro sentimento, il loro Dio, il piccolo Dio nato nelle
animucce loro e ch'essi credono creatore di quei cieli, di tutte quelle
stelle: ed ecco, se lo pigliano, questo Dio che ha creato i cieli e tutte
le stelle, e se lo adorano e se lo vestono a modo loro e gli chiedono
conto delle loro piccole miserie e protezione anche nei loro affari piú
tristi, nelle loro stolide guerre. Se nei cieli si sapesse, che in
quest'ora del tempo che non ha fine questi milioni e milioni d'esseri
impercettibili, in questo striscio di tenne barlume, sono tutti quanti tra
loro in furibonda zuffa per ragioni che credono supreme per la loro
esistenza e di cui i cieli, le stelle, il Dio creatore di questi cieli, di
tutte queste stelle, debbano occuparsi minuto per minuto, seriamente
impegnati in favore degli uni o degli altri. C'è qualcuno che pensi che
nei cieli non c'è tempo? che tutto s'inabissa e vanisce in questo vuoto
tenebroso senza fine, e che su questo stesso granellino, domani, tra mille
anni, non sarà piú nulla o ben poco si dirà di questa guerra ch'era ci
sembra immane e formidabile?
Ricorda Berecche
com'egli insegnava, or son pochi anni, la storia ai suoi alunni di liceo:
- Intorno al 950, ridotti in obbedienza i Danesi che gli si erano
ribellati, passò Ottone in Boemia a combattere il duca Bodeslao, ch'erasi
costituito indipendente, e spintosi fin davanti a Praga costrinse quel
duca a ritornare vassallo del germanico regno. Nel tempo stesso il fratel
suo Enrico usciva in campo contro gli Ungari e li cacciava oltre la Theiss
togliendo loro le conquiste fatte sotto il regno di Lodovico il Bimbo...
Domani, tra mille
anni, un altro Berecche professore di storia dirà ai suoi alunni, che
intorno al 1914 c'erano ancora potenti e fiorenti nel centro d'Europa due
imperi: uno detto di Germania, su cui sedeva un Guglielmo II d'una
dinastia scomparsa, che pare fosse detta degli Hohenzollern; e detto,
l'altro, impero d'Austria, su cui sedeva vecchissimo un Francesco Giuseppe
della dinastia degli Absburgo. Erano questi due imperatori tra loro
alleati e forse entrambi, almeno a quanto si suppone per certi dati, benché
a lume di logica non paja verosimile, alleati anche col re d'Italia, un
Vittorio Emanuele Terzo della dinastia di Savoia, il quale però, almeno
in principio, mancò alla guerra che quell'imperatore di Germania,
togliendo - pare - a pretesto l'uccisione per mano dei Serbi di un tal
Francesco Ferdinando arciduca ereditario d'Austria, stupidamente mosse
contro la Russia, la Francia e l'Inghilterra, allora anche esse alleate
tra loro e potentissime, una segnatamente, l'Inghilterra, padrona in quel
tempo dei mari e d'innumerevoli colonie.
Così, tra mille
anni - pensa Berecche - questa atrocissima guerra, che ora riempie
d'orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande
storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste
migliaja e migliaja di esseri oscuri, che ora scompajono travolti in essa,
ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e
sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e
questo cielo sfavillante di stelle nell'anima e la propria casetta lontana
lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in
lagrime e, forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli
figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve,
nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi a sé
con occhi pietosi e vani, e piú non sanno vedere la ragione della ferocia
che ha spezzato sul meglio, d'un tratto, la loro giovinezza, i loro
affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno saprà. Chi
le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie, una in ogni
anima dei milioni e milioni di uomini di fronte gli uni agli altri per
uccidersi? Anche adesso, poche righe nei bollettini degli Stati Maggiori:
- s'è progredito, s'è indietreggiato; tre, quattro mila tra morti,
feriti e scomparsi. E basta.
Che resterà domani
dei diarii della guerra su per i giornali, ove una minima parte di queste
piccole innumerevoli storie sono appena, in brevi tratti, accennate
Quei galletti, quei
galletti che all'alba cantavano a Belgrado deserta e bombardata dai
cannoni austriaci, al principio della guerra... Oh, cari galletti, ecco,
di qui a mill'anni Berecche, se potesse ritornare al mondo a insegnare la
storia di mill'anni addietro, quando ogni memoria dei fatti che ora ci
sembrano enormi sarà cancellata e tutta questa immane guerra sarà per
gli uomini venturi ristretta in poche righe, ecco, di voi, cari galletti,
vorrebbe ricordarsi Berecche e dire che voi cantavate all'alba, a
Belgrado, come se nulla fosse, tra le bombe che scoppiavano su le case
deserte, fumanti.
No: questa non è
una grande guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perché
nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di
mercato: guerra d'un popolo bestione, troppo presto cresciuto e troppo
faccente e saccente, che ha voluto aggredire per imporre a tutti la sua
merce e, bene armata e azzampata, la sua saccenteria.
Con quest'ultima
considerazione Berecche si leva; passeggia, aggrondato, ancora un po' per
lo studio; poi esce sul corridojo; vede accostato l'uscio della camera del
suo figliuolo; stende una mano e pian piano lo schiude. Faustino è a
letto, con le coperte tirate fin sotto il naso; ma ha gli occhi sbarrati
nel bujo della cameretta, accesi ancora e brillanti di sdegno. Subito,
vedendo entrare il padre, li chiude e finge di dormire placidamente.
Berecche lo guata,
accigliato; tentenna il capo, vedendo in giro la cameretta in disordine;
poi, con le mani in tasca, avviandosi per uscire, dice piano, strascicato,
con un tono apparentemente di derisione per il figliuolo, ma che in realtà
esprime il suo sentimento cangiato:
- Viva... già! viva
il Belgio... viva la Francia... -
VI
Il
signor Livo Truppel
Teutonia,
la primogenita, che la madre finché la ebbe con sé chiamò sempre Tonia,
come del resto lei stessa ha voluto sempre esser chiamata dalle due
sorelle piú piccole e dal fratello e poi anche dal marito, è da tre anni
fuori di casa, sposa del signor Livo Truppel, ottima pasta d'uomo, alieno
dalla politica, oriundo svizzero tedesco, ma ormai non piú svizzero e
tanto meno tedesco.
Non se l'è mica
dato né scelto da sé, il signor Truppel, quel cognome; gli è venuto da
suo padre, morto a Zurigo da tanti anni; e non ci tiene.
Forse lì a Zurigo,
chiamarsi Truppel voleva dire qualche cosa; ma fuori del paese natale, cioè
fuori delle relazioni, parentele e conoscenze, che cos'è piú un cognome?
Per uno sconosciuto, tanto vale chiamarsi Truppel quanto chiamarsi in un
altro modo qualsiasi. Se non fosse per aver le carte in regola...
Il signor Livo, per
conto suo, dentro di sé, si conosce un'anima pacifica, senza cognome,
senza stato civile, né nazionalità; un'anima per due occhi aperta qua,
come altrove, all'inganno delle cose che certamente non sono come appajono,
se un po' si vedono in un modo e un po' in un altro, a seconda dell'animo
e degli umori. Egli fa di tutto per non alterarselo mai, il suo modo, e si
contenta di poco, perché quel poco sa gustarselo in pace e con saggezza,
come gli innocenti piaceri della natura, la quale, a dir vero, è una di
tutti e non sa né di patrie né di confini.
Candido com'è, e di
tenero cuore, al signor Truppel piacciono specialmente le giornate di
nuvole chiare, quelle dopo le piogge, quando c'è sapore di terra bagnata
e nell'umida luce l'illusione delle piante e degli insetti, che sia di
nuovo primavera. Di notte, guarda quelle nuvole che dilagano su le stelle
e le annegano per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure
d'azzurro. Guarda anche lui, come il suocero, quelle stelle; sogna senza
sogni, e sospira.
Di giorno, il signor
Truppel si considera un bravo uomo nella vita. Un brav'uomo, così, e
basta. Non già a Roma, cioè in Italia, o altrove: no, nella vita. Così,
e basta. Anzi, propriamente, un bravo orologiajo, nella vita.
Tutto circoscritto
nei limiti del suo banco ricoperto di candida tela cerata dietro la
vetrina della sua bottega in via Condotti, s'incastra nell'occhio destro
il monocolo a cannoncino e, curvo su la pinzetta fissata al banco, prova e
riprova con inesauribile pazienza sul pezzo da accomodare i tanti piccoli
attrezzi del suo pazientissimo mestiere, lime, seghe e calibri, nel
silenzio trapunto dall'assiduo acuto sottile pulsare dei cento orologi.
Non gli passa
minimamente per il capo, nell'adoperare con infinita delicatezza quegli
esili strumentini sul fragile congegno complicato degli orologi, che in
quello stesso momento, altrove, per tanta parte d'Europa, uomini come lui
a milioni ben altri istrumenti adoperano, fucili, cannoni, bajonette,
bombe a mano, per un lavoro ben diverso di questo suo, d'accomodare
orologi; e che il silenzio vibrante qua attorno a lui dall'acuzie di quel
ticchettio continuo, appena percettibile, è straziato altrove
dall'orrendo rimbombo d'obici e di mortai.
Il suo mondo, la sua
vita son concentrati lì, di giorno, in una calotta d'orologio; come, di
notte, sciolta ormai da quasi tutte le passioni terrene, la vita del suo
spirito è assorbita nella contemplazione dell'armonia di ben altre sfere:
quelle celesti.
Benché il signor
Truppel paja uno stupido, si può giurare dal modo come sorride
voltandosi, a richiamarlo da quelle sue celesti contemplazioni, ch'egli
non considera il firmamento come un sistema d'orologeria.
E rimasto perciò
propriamente come uno che caschi dalle nuvole, l'altra sera, allorché,
uscito sulla strada per abbassare la saracinesca, s'è vista addosso una
grossa frotta di dimostranti, la quale, passando come un uragano, s'è
avventata contro la sua bottega di orologiajo e gli ha fracassato in un
batter d'occhio insegna, sporti, vetrina, ogni cosa.
Passato
il primo sbalordimento per il fracasso dei vetri rotti, il signor Livo
Truppel non temette tanto per sì, quanto per il fratello, suo socio
nell'orologeria e di natura ben altra dalla sua: ispido, cupo e bestiale.
Tondo tondo, biondo
biondo, il signor Livo si buttò avanti, parando con le manine bianche
grassocce, con gli occhi pieni di lagrime, quegli occhi che di solito
hanno la limpida chiarità ridente dello zaffiro, a gridare a quei
dimostranti ch'egli era svizzero e non tedesco, svizzero e non tedesco,
svizzero, svizzero, da piú di venticinque anni in Italia, e genero di un
italiano, il signor professor Berecche. Sì, a chi lo gridò? ai suoi
vicini di bottega che lo conoscevano bene e sanno tutti che perla d'uomo
sia. I dimostranti, fatto il danno, si erano già allontanati da un pezzo,
sicurissimi d'aver compiuto un atto, se non proprio eroico, certo molto
patriottico. Ma il danno, anche quello, via, roba da poco. Il guajo, il
vero guajo, è stato per il fratello, che il signor Truppel credeva ancora
dentro la bottega, e invece no, non c'era piú. Terteuffel!, corso
dietro a quei dimostranti, imbestialito.
Orbene, questo
fatto, che per il pacifico signor Truppel ha avuto l'importanza di un
semplice malinteso tra lui e la popolazione romana, a causa del suo
cognome tedesco (malinteso deplorevole, sì, ma da non farne poi un gran
caso), certamente non sarebbe stato cagione di gravi dispiaceri in
famiglia, se il fratello non avesse riconosciuto tra quella frotta di
dimostranti Faustino, il suo piccolo cognato.
Il fratello, bisogna
dire la verità, non gli ha imposto d'abbandonare la moglie e il tetto
coniugale per seguitare a convivere con lui in una casa a parte. No, ma ha
preteso e si è fatto promettere e giurare che almeno non avrebbe rimesso
piede mai piú nella casa del suocero e che se il suocero verrà qualche
sera da lui a visitare la figliuola egli, ove non riesca lì per lì a
trovare una scusa per andarsene fuori di casa, oltre il saluto non gli
rivolgerà la parola e, dopo il saluto, sputerà in terra: così!
Sputare in terra?
Sì, sputare in
terra; così!
Il signor Truppel ha
guardato afflittissimo per terra lo sputo del fratello, ed è stato lì lì
per cavare di tasca un fazzoletto per andare a pulire.
- No! no! sputare in
terra - gli ha gridato il fratello, - sputare in terra. Così! -
E ha sputato di
nuovo.
Santo nome di Dio
benedetto! Se non sa sputare, lui, se non sputa mai neppure nel
fazzoletto, da quella brava persona che è! Sì, sì, va bene: il signor
Truppel ha promesso, giurato, per placare il fratello; ma, passato il
primo momento, si sa che valore hanno certe promesse e certi giuramenti
anche per coloro a cui sono fatti.
Il signor Livo
Truppel, intanto, per ogni buon fine si propone d'andar di nascosto in
casa del suocero per scongiurarlo di non venire da lui almeno per qualche
tempo.
Ma il giorno ci va,
trova nella casa del suocero un tale scompiglio, e per una ragione così
inopinata, che il signor Livo Truppel stima prudente tornarsene indietro
senza farsi vedere da nessuno.
VII
Berecche ragiona
Partito,
partiti entrambi, scomparsi da sei giorni, Faustino e l'altro, Gino Viesi
- scomparsi.
Il quartierino nella
villetta fuorimano, la pace sognata per gli ultimi anni in quel ritiro
quasi campestre, con la villa patrizia davanti - quella cortina di
cipressi là, maledetti dalle donne come un tristo presagio di morte - ma
pur belli quei cipressi a vedere, che non sanno del funebre ufficio a cui
l'uomo li destina e si indorano al sole, al bel sole che entra per le
quattro finestre sul giardino e si stende nelle stanze; e pur belli sotto
la luna, la sera, mentre la fontanella chioccola vicino... - ah la
fontanella, sì; ma chi l'ascolta più? e c'è il sole? chi lo vede? chi
bada alla luna? Solo quei cipressi là maledetti, ora, si parano davanti,
saltano agli occhi, ispidi, lugubri, appena la ghiaja si sente
scricchiolare nel giardino sotto i passi di qualcuno.
- No... no... Il
guardiano... -
E pianti, strilli,
strepiti, che s'odono da lontano; fin dalla via Nomentana, s'odono - e
perdio, di questi tempi il cuore d'un galantuomo!... se questa è vita! Il
passante irascibile, col giornale aperto in mano, da cima a fondo occupato
dalle notizie della guerra, si ferma e altri passanti fa fermare.
- Sarà una rissa?
che diavolo? S'ammazzano anche per niente? -
Due, tre, non
reggono alla curiosità, imboccano di corsa la traversa appena tracciata,
altri due, tre, li seguono, ma perplessi; si voltano a guardare quelli
rimasti su la via, meno curiosi o piú prudenti; guardano intorno (che
buon odore di fieno! pare in campagna!); si risolvono, accorrono
anch'essi: davanti al cancello guardano inquieti alle quattro finestre da
cui quei pianti, quegli strilli, quegli strepiti s avventano. Che avviene?
Nessuno si muove. Strepitano lì dentro; ma intorno tutto è tranquillo, e
il guardiano della villetta, oh eccolo là, pacifico, sta a mangiare. Ma
niente, dunque! Qualche disgrazia, una morte, forse?
- Ah, non si sa
neppure, e strillano così?
- Scomparsi, come?
- Alla guerra? dove,
alla guerra? in Francia?
Bello, quel villino!
s'affitta? sei quartierini? Non sarà mica tanto alta la pigione. Ah, sì,
tanto? Per questo è tutto sfitto... Bello, sì, al sole... un bel
giardino... troppo lontano però... quasi in campagna...
Dio, ma strillare
così, poi... Sarà la madre, è vero?
- La fidanzata?
- No, questa è la
madre... -
Il guardiano fa un
cenno come per dire: - «Impazzita...» - e se ne torna a mangiare. Se ci
son pazzi al mondo, perdio, con la guerra che pende sul capo di tutti,
volerci andar prima, come fosso una festa a cui non sembri l'ora
d'arrivare...
- No, per questo,
ecco, se sono andati in Francia...
- Ma che Francia, mi
faccia il piacere! La Francia, caro signore....
- Si difende,
aggredita! Il pericolo vero, per noi...
- Ma lasci stare,
via, che o di qua o di là...
- Siamo neutrali,
siamo neutrali...
- E se n'annamo a
magnà, - conclude filosoficamente un operajo: - romano.
Poterlo
fare! Da sei giorni, non si mangia, non si dorme in casa Berecche.
Due furie scatenate,
la moglie e la figliuola Carlotta. Specialmente la moglie. Scarduffata,
strozzata dagli strilli, dal continuo mugolare, corre per casa annaspando,
come se cercasse una via di scampo al suo folle dolore. Le corre appresso
Carlotta; appresso, le tre povere zitellone sorelle di Monsignore, venute
dal villino dirimpetto: magre tutt'e tre allo stesso modo; pettinate e
vestite allo stesso modo tutt'e tre, di grigio, con uno scialletto nero
sul seno per la morte del Santo Padre; appresso, una dietro l'altra, con
la bocca appuntita, gli occhi sbarrati e pietosi, accomodandosi lo
scialletto sul seno con le mani inquiete, in un dito il ditale tutt'e tre,
perché sono accorse agli strilli mentre stavano a cucire e non sanno come
confortare quella madre.
- Signora... - dice
una.
E l'altra dice:
- Ma signora... -
E la terza:
- Ma signora mia...
-
Non può sentirsi
dir nulla la madre disperata: grida, grida fino a stracciarsi la gola,
levando le braccia e scotendo le mani, frenetica, appena qualcuno accenni
di volgerle una parola. Oh benedetto il nome di Dio, benedetto il nome di
Dio! Anche Monsignore, venuto jeri, è stato accolto così.
La serva...
spazzare? Le ha strappato di mano la scopa e l'ha inseguita per dargliela
in testa! Ha lanciato per aria guanciali, coperte, lenzuola dai letti che
quella s'era messa a rifare; dalla tavola da pranzo ha strappato la
tovaglia con tutto il vasellame apparecchiato: un fracasso di piatti
bicchieri bottiglie, in frantumi, giú a terra... Vedesse almeno il
terrore della povera Margheritina, che al fracasso è balzata dal pianto
silenzioso nel suo solito cantuccio, con le manine aggricchiate e tremanti
innanzi al petto! Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto
s'avventa contro l'uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di
spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para
davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli
urla, feroce:
- Voglio mio figlio!
Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio! -
Berecche, piú
vecchio di vent'anni in sei giorni, non dice nulla: per quanto offeso in
fondo dalla volgarità della manifestazione, rispetta lo strazio di quella
madre, che è lo strazio suo stesso. Vederlo però con tal furia volgare
ritorto contro di lui gli provoca sdegno, e per poco lo strazio accenna
d'arrabbiarsi anche in lui e d'insorgere allo stesso modo feroce. Ma lo
frena e guarda con così acuto spasimo negli occhi la moglie, che questa
in prima sbarra i suoi da folle, poi disperatamente rompendo in un pianto
che spezza il cuore, gli s'aggrappa al petto, sul petto gli fruga con la
testa scarmigliata e geme:
- Dammi mio figlio!
Dammi mio figlio! -
E allora Berecche,
dapprima con un muto sussultare del petto e delle spalle, poi con un fitto
singultio nel naso, si piega a piangere anche lui sul grigio capo
scarmigliato della vecchia compagna non amata.
Tutto
il primo giorno - sei giorni addietro - passato in un'ansia crescente
d'ora in ora, tra un'oscura costernazione e un'irritazione sorda man mano
anche esse crescenti, per il ritardo del figliuolo a rincasare; ritardo
sempre piú inescusabile e inesplicabile, perché non c'erano piú
dimostrazioni per Roma che potessero far pensare a un arresto, come
l'altra volta; - poi, la sera, le corse affannose di qua e di là in cerca
di lui, dove si fosse potuto attardare tanto, nei caffè, in casa di
qualche amico, nella camera mobiliata di Gino Viesi - e la sorpresa, qui,
nel sapere che anche lui, Gino Viesi, uscito dalla mattina alle sette, non
s'era piú fatto vedere; poi, la notte, quella prima notte senza il
figliuolo in casa, con la casa che sembrava vuota e paurosa, come vuoto e
pauroso l'animo di lui; e le ore che passavano a una a una lente, eterne,
su la sua ansia pure angosciata dallo sgomento di vederle passare, così,
a una a una, nella vana attesa alla finestra, con l'ossessione delle vie
per cui il figliuolo poteva essersi incamminato, per cui torse camminava
ancora nella notte, per allontanarsi sempre piú, sempre piú dalla sua
casa, sciagurato! ingrato! ma dove? dove diretto? - e poi l'alba e il
silenzio di tutta la casa, orribile, con le donne cedute al sonno tra il
pianto, là su le seggiole, col capo su la tavola, sotto il lume ancora
acceso - ah, quel lume giallo nell'alba, e quei corpi là, che da sé a
poco a poco s'erano composti in atteggiamenti pietosi, rassettati per non
soffrir tanto, per trovare un po' di requie essi almeno, se l'anima nel
sonno angoscioso non poteva trovarne! - e poi, al mattino e durante tutto
il giorno seguente, le altre corse, tre, quattro, alla Questura, prima per
denunziare la scomparsa del figliuolo e di quell'altro là, perché fosse
spiccato subito e diramato da per tutto un ordine d'arresto; poi per
sapere se qualche notizia fosse giunta; e mai nessuna! - quei no, quel no
del delegato rosso lentigginoso, che pure la mattina pareva avesse preso
con impegno la cosa nel sentire che forse si trattava di due giovanotti
che tentavano di passare in Francia per arruolarsi nella legione
garibaldina; e ora piú niente, tutto intento ad altro ora, come se non si
ricordasse piú neanche dell'ordine dato; - e le invettive, le aggressioni
d'ora in ora piú violente della moglie e della figlia Carlotta, perché
erano sicure che Faustino e quell'altro erano scappati via per lui, ma sì,
per lui, per lui che aveva fin dall'infanzia oppresso quel figliuolo col
metodo tedesco, con la disciplina tedesca, con la coltura tedesca, fino a
fargli concepire un odio indomabile, inestinguibile per la Germania, che
Dio la danni in eterno! e - ultimamente, in faccia all'altro che piangeva
due fratelli uccisi, non aveva forse avuto il coraggio di gridare che
l'Austria aveva tutto il diritto di mandarglieli al macello quei due
fratelli? - lui! lui! - per questo erano scappati, per dargli una giusta
risposta, per fare una giusta vendetta dei sentimenti da lui offesi
nell'uno e oppressi nell'altro fin dall'infanzia: ebbene, non basta tutto
questo? Ce n'è anche d'avanzo per spiegare come Berecche si sia in sei
giorni invecchiato di venti anni.
Ma no, non basta
invecchiato.
Berecche ora
sostiene che non soffre piú nulla, proprio piú nulla. Al massimo, ecco,
può ammettere, ammette d'avere l'idea astratta del suo dolore. L'idea
astratta, forse sì. Ma non del suo dolore propriamente. Del dolore d'un
padre, così in genere, a cui sia accaduto quello che è accaduto a lui.
In realtà però non sente nulla. Piange, sì... forse, ma come un
commediante, come un commediante su la scena, per l'idea soltanto del suo
dolore, non perché lo senta. Si figura di sentirlo e lo dà a vedere. Che
c'è da spaventarsi, se dice così? La prova piú convincente è questa:
che egli ragiona, ra-gio-na; è in grado di ragionare perfettamente,
perfettissimamente.
-
Ti dico, perdio, che ragiono! - grida al buon Fongi sonnacchioso, che è
venuto dalla birreria a fargli visita. - Ragiono! -
Come se il buon
Fongi sonnacchioso sostenesse che non è vero.
- E guai se non
ragionassi almeno io, qua dentro! Le hai vedute, le hai sentite, quelle
due furie? La colpa è mia! Via, dimmi anche tu, dimmi anche tu che la
colpa è mia! Mi faresti piacere, sai? Mi rialzerei di piú in mezzo a
tutti questi pianti, in mezzo a tutti questi strilli, con l'orgoglio
d'esser certo che io solo ho la mia ragione ancora qua! qua! qua! -
E si picchia forte
su la fronte.
- Qua per compatire
chi m'accusa! qua per compiangere con quelle due disgraziate anche questa
miserabile Italia, dorma come loro, che non avrà mai ciò che si chiama
DISCIPLINA DELLA VITA! Ma non vedi, non vedi che avviene in questa
miserabile Italia, perché si è presa una misura di tremenda disciplina -
la neutralità? I figli che ti scappano! le madri che urlano! Ti sembra
che io non ragioni? -
Il buon Fongi, dal
gran naso cornuto, tiene la testa bassa e lo guarda come impaurito di sui
cerchietti di platino degli occhiali a staffa. Medico in ritiro, forse
pensa, entro di sé, che nessun segno piú manifesto di pazzia che il
ragionare, o il credere di ragionare, in certi momenti. A ogni modo, se
non proprio impaurito, si mostra per lo meno sbalordito, il buon Fongi, e
non risponde né no né sì, quantunque Berecche lo miri con certi occhi
che aspettano irosi una risposta affermativa.
- No? dici di no?
- Io? io,
veramente...
- Pensi forse che al
primo annunzio della dichiarazione di neutralità da parte dell'Italia io
mi scagliai contro il governo?
- No, non penso...
- Ma devi pensare,
devi pensare, perdio! Io ho bisogno di pensare in questo momento! Mi stai
davanti come una marmotta! -
Il buon Fongi si
scuote un poh, s'affretta a dirgli:
- Ma sì, pensa...,
se ti fa bene...
- Tu devi pensare
con me! - gli grida Berecche. - Devi pensare che io obbedivo allora, di
primo lancio, a un sentimento di lealtà, capisci? A un sentimento di
lealtà verso quella nazione che m'aveva insegnato LA DISCIPLINA, la
quale... - sai che vuoi dire? - vuoi dire frenare, frenare, soffocare, se
occorre, i sentimenti naturali, di padre, di figlio, tutti i sentimenti
naturali, che non vogliono aver legge! Hai capito? Frenare la natura che
insorge contro la ragione. Hai capito? Ma mi sono ravveduto subito; ho
compreso che la vera disciplina per noi doveva consistere nel soffocare
anche questo sentimento di lealtà; e l'ho soffocato! E sono arrivato
anche a riconoscere che la Germania ha agito sconsideratamente, capisci,
che la Germania ha sbagliato, che la Germania ha perduto la testa... A
questo, a questo sono arrivato! -
Si fa sempre piú
piccolo il buon Fongi, e pare che il naso gli diventi sempre piú grande.
Glielo guarda Berecche, quel naso, e a mano a mano si sente crescere
contro di esso un'irritazione ingiustificabile. Che naso è quello! che
insopportabile realtà, quel naso! Gli scaglia addosso una confessione così
grave, e niente, ecco, niente: resta lì, immobile; non si commuove.
Pacifico, per quanto voluminoso. Non si commuove. Naso romano!
- Sono arrivato a
questo! - urla Berecche. - E ad ammettere anche, se vuoi, che s'è messa
contro di noi, la Germania, aiutando, per puro pretesto, l'Austria in una
guerra offensiva che, rompendo i patti di alleanza, doveva renderci per
forza l'Austria nemica. Era disciplina per noi l'alleanza con l'Austria!
La Germania l'ha spezzata, perché, dichiarando una guerra, doveva capirlo
che noi, con l'Austria, non potevamo essere piú; non solo, ma dovevamo
per forza esser contro l'Austria! A questo ero arrivato! E anche a pensare
che se ci saremmo mossi anche noi, e il mio figliuolo, o perché chiamato
prima del tempo sotto le armi o perché spinto da un sentimento, a cui io
allora non avrei saputo oppormi, sarebbe andato volontario alla guerra, ci
sarei andato anch'io, anch'io così come mi vedi, volontario, a
cinquantatrè anni e con questa pancia, ci sarei andato anch'io! Ma ora,
questo figlio, eccolo qua, vedi? s'è voluto mettere contro di me! ha
inteso di mettersi contro di me! E perché? Perché, come tutti gli altri,
non conosce la disciplina della vita! E contro di me ha messo questa
povera madre e la sorella; e spaventati, Fongi, ora sì, spaventati:
contro di me ha messo anche me stesso! sì, perché c'è anche un padre in
me che piange, e a cui io, che conosco la disciplina della vita, sono
costretto a gridare: - «Va' là, buffone, non piangere, perché tu hai
torto di piangere!» - Piangano gli altri! io non piango, non piango piú,
neanche se m'arriva la notizia, vedi, che è morto! Non solo; ma ti dico
questo, e te lo dico forte, perché lo sentano anche di là, quelle due
furie che vorrebbero impedirmi di ragionare, venendo qua a gridarmi che
vogliono da me il fratello, il fidanzato, come se io fossi pazzo come
loro; ti dico questo: che adesso io sono di nuovo per la Germania, sì, sì,
te lo dico forte, per la Germania, per la Germania, che avrà commesso una
pazzia, anzi l'ha commessa di certo, ma vedi che spettacolo offre ancora a
tutto il mondo? Se l'è concitato contro e lo tiene a bada tutto il mondo!
Impotenti tutti contro lei potente! Che spettacolo è questo! E volete
abbatterla? distruggerla? Chi? La Francia, fradicia, la Russia coi piedi
di creta, l'Inghilterra? E valgono forse piú di lei? Che valgono di
fronte a lei? Niente! Niente! Non la vince nessuno! -
Ah, finalmente!
dalla sua balordaggine, così battuta, così pestata, così accoppata
dalla fiera invettiva, sorge tutt'a un tratto il buon Fongi col suo gran
naso. Per protestare? No. Ha una notizia con sé, una notizia che si tiene
in corpo fin dal suo arrivo e che, assalito da tanti pianti, da tanti
strilli, non ha trovato ancor modo di metter fuori.
- Io - dice - ho qua
una lettera di Faustino. -
Per miracolo
Berecche non trabocca giú, tutt'in un fascio. Diventa pallidissimo, poi,
tutt'a un tratto, paonazzo; si scaglia addosso al Fongi, come se Fongi se
ne volesse scappare:
- Tu? - gli grida. -
Una lettera? di Faustino? -
E piange e ride e
trema tutto e col passo legato corre a gridar nel corridojo:
- Una lettera... una
lettera di Faustino!... subito!... Margheritina, Margheritina, conducete
anche Margheritina! -
E mentre la moglie e
Carlotta con Margheritina per mano irrompono nello studio, ansanti,
frementi d'impazienza, strappa con le mani che gli ballano dalle mani del
Fongi la lettera e si prova a leggerla forte. Diretta a lui.
A lei? Già...
- Caro...
ecco... Caro signor... oh Dio... caro signor Fongi... -
Non può. La vista,
la voce, il fiato, anche le gambe gli mancano. S'abbandona su una seggiola
e cede a Carlotta la lettera, perché la legga lei.
La lettera è datata
da Nizza e dice così:
Caro
signor Fongi,
So l'affetto
che Ella ha per mio padre e mi rivolgo a Lei per pregarla di recarsi da
lui, appena riceverà questa mia, ad annunziargli ciò che del resto
forse a quest'ora avrà indovinato, e lascio immaginare a Lei con quale
sdegno e con quanto dolore.
Ma gli dica,
signor Fongi, che io non sono venuto qua a combattere per la Francia. Ne
sarà contento! Sono venuto qua, perché convinto (e Dio volesse a
torto!) che l'Italia, «ancella» come sempre e ora senza padroni, non
farà nulla. I due che aveva - l'uno cattivo, che l'ha sempre angariata;
l'altro che s'è dato sempre l'aria di proteggerla, piccola vecchia
signora decaduta, tutt'a un tratto; senza neppur licenziarla, senza
neppur dirle che potevano anche fare a meno dei suoi servizii, l'hanno
lasciata sola e si sono messi a sbrigare da sé le loro faccende. Ora la
povera Italia, neppur certa d'essere stata licenziata, non sa che fare né
dove andare. Ha paura degli antichi padroni, e ha paura di mettersi a
servizio di nuovi che dalle agenzie di collocamento, dette Ambasciate,
la richiedono e le fanno pressanti esibizioni. Da che parte voltarsi,
tra chi le dice di stender questo o quel braccio per riprendersi di qua
o di là quello che era suo e che tutti le hanno preso? Star sola, da sé,
la povera signora decaduta non sa e non può, avvezza come è ormai da
tanto tempo a servire padroni per poca mercede negli appartamenti della
sua casa antica, magnifica, ariosa, piena di sole, in luogo ridente e
fiorito. Molte cose belle, lo so, e molte cose grandi e gloriose sono in
questa casa antica, di cui la povera signora decaduta ha fatto una
locanda; ma vi son pure cose tristi e una grande miseria, specialmente
nell'anima dei figli di questa signora, nati servitori. La mamma li ha
educati alla prudenza, alla tolleranza, a far le viste di non capire, di
non sentire; a prendersi anche in santa pace, se capita, uno schiaffo
per mancia, rispondendo con un bell'inchino; - Grazie, signore! - ; li
ha educati a portare con disinvoltura tutte le livree come l'abito a
loro piú proprio, a spazzolare con disinvoltura dalle falde di ciascuna
l'impronta dei calci ricevuti, e a star bene attenti nel fare i conti,
che spesso, ahimè, povera mamma, le sono venuti sbagliati a suo danno.
Ebbene, signor Fongi, dica a mio padre che io sono qua in Francia, non
per la Francia, con altri miei compagni - non molti, oh non molti! - ma
soltanto per dimostrare che tra tanta prudenza, tra tanta tolleranza,
tra tanta accortezza per non sbagliare i conti e tanta perplessità nel
decidere quale livrea convenga meglio indossare in questo momento, c'è
pure in Italia... niente, un po' di gioventú sprecata, anche un po' di
gioventú che non sa fare i conti e non sa essere accorta e prudente, un
po' di gioventú, ecco. Alla nostra madre Italia non serve, forse non
servirà; anzi le farà danno dentro; siamo venuti a gettarla qua fuori
per lei. La mia mamma piccola dirà: - Ma come? e non c'ero io, che sono
pur mamma? a me sì, tu mi servi! - È vero, mamma, ma pensa che questo
è un momento che tutte le piccole mamme, come i loro figli, bisogna che
si sentano figlie piccole anche esse d'una mamma piú grande. Io sono
qua per te, se sono venuto per questa grande mamma comune, benché tu
forse ora creda il contrario!
Le baci per me
la mano, signor Fongi, e la assicuri che io le darò frequenti notizie
di me; conforti mio padre, che forse soffre tanto di non potermi
perdonare; baci le mie sorelle e dica a Carlotta che Gino è qua con me
e che questa notte le scriverà a lungo. A Lei, signor Fongi, i miei piú
vivi ringraziamenti e un rispettoso e cordiale saluto.
Suo dev.mo FAUSTO BERECCHE
Piangono
tutti.
Hanno pianto,
durante la lettura, piano, per non perdere una sillaba. Ora che la lettura
è finita, seguitano a piangere piano, ancora per poco, come per non
sperdere l'eco d'una voce lontana.
Fongi mormora,
piano, quasi tra sé:
- Nobilissimo...
nobilissimo... -
Berecche alla fine
balza in piedi, soffocato, e si butta arrangolando sulla moglie; se la
stringe tra le braccia, china di nuovo il viso sul capo di lei, e tutt'e
due ora così stretti piangono forte, sussultando. Carlotta abbraccia
Margheritina e piangono forte anch'esse. Il buon Fongi, dal canto suo, si
torce per cavare dalla tasca di dietro della lunga finanziera il
fazzoletto. Il gran naso pacifico gli s'è proprio commosso alla fine, e
se lo soffia a piú riprese, forte, ripetendo a ogni ripresa con un moto
del capo di profonda convinzione:
- Nobilissimo...
nobilissimo... -
VIII
Nel
bujo
La
sera, quando il guardiano della villetta ha spento la luce della scala e
il giardino resta al bujo, Berecche, guardingo, rabbuffato, col capo
insaccato nelle spalle, riapre il portone, che quello ha chiuso or ora, c
lo chiama:
- Pst! pst! -
Il guardiano, che
non se l'aspetta, si volta quasi impaurito; Berecche gli fa cenno con le
mani d'accostarsi in silenzio, senza far troppo stridere la ghiaja, e si
mette a confabulare con lui in gran mistero.
- Eh, per meno di
seicento... - dice quello a un certo punto.
- Piano, piano!
- Perché il Governo
ha fatto già presso tutti i mercanti la requisizione... almeno dicono...
Sa, com'è, in questi momenti...
- Sì, si; ma per
seicento lire...
- Ah, un cavalluccio
buono, sì... anche da sella...
- Ma io dico da
sella!
- Le serve per?...
- Piano, piano!
- Da sella,
sicuro... per seicento lire lo trova...
- Da accaparrare,
per ora, versando una somma... duecento... che so? duecento cinquanta
lire... così... Perché, io lo spero, ma se in caso non mi dovesse
servire... ecco, perderei soltanto la caparra... Ma, oh! vi prego, di
nascosto... silenzio con tutti... Ve n'occupate voi. -
E Berecche,
rabbuffato, col capo insaccato nelle spalle, in punta di piedi, rientra
nella villetta e lascia lì, nel giardino bujo, il guardiano inchiodato
dallo sbalordimento per quel misterioso acquisto d'un cavallo commessogli
così di nascosto, al bujo, dall'unico inquilino della villetta,
brav'uomo, serio, di studio... uhm! Un cavallo da sella... che nessuno lo
sappia...
Richiuso pian piano
il portone e rientrato nel suo appartamento, Berecche, sempre in punta di
piedi, attraversa il corridoio, si chiude nello studio, siede al tavolino,
trae dalla cartella un foglio di carta, vi scrive su:
A S. E. il
Ministro della Guerra - Roma; solleva l'indice della mano che regge la
penna, e se lo applica sulle labbra. Medita a lungo.
Ciò che vuol
chiedere a S. E. il Ministro della Guerra gli è chiaro in mente; ma è in
dubbio dell'esattezza dei termini militari. Si dice Corpo guide
volontarii a cavallo, o in altro modo? Sarà meglio informarsi, prima,
al Ministero della Guerra. E poi, dovendo dichiarare gli anni -
cinquantatrè - non converrà unire alla domanda un attestato medico di
sana e robusta costituzione fisica? Potrà averlo da Fongi, domani.
- Da Fongi, no... da
Fongi, no... - mormora. Dev'essere un segreto per tutti. E poi a Fongi ha
fatto una dimostrazione così lampante di essere nel possesso della sua
ragione e gli ha gridato con tanta violenza ch'egli è di nuovo, tutto,
per la Germania...
- No: da Fongi, no...
Se non che, a
rivolgersi a un medico qualunque, non amico, potrà esser sicuro d'avere
questo attestato di sana e robusta costituzione fisica? Il cuore... il
cuore da un pezzo non gli batte piú in regola; ha il cuore stanco, e
spesso il capo così greve... Chi sa! Si rivolgerà prima a un medico
qualunque; se non potrà averne l'attestato, ricorrerà al Fongi,
raccomandandogli il segreto. Berecche vuole andare in guerra anche lui.
Rimette il foglio
intestato dentro la cartella, si alza e va a uno degli scaffali; ne cava
un manuale Hoepli su l'Equitazione; ritorna a sedere innanzi al
tavolino, vi appoggia i gomiti, si prende il capo tra le mani, e si
sprofonda nella lettura preparatoria:
CAPITOLO PRIMO
Storia ed accenni preliminari dell'equitazione
Il
giorno appresso, alla Cavallerizza, in via Po.
Un involto sotto il
braccio (i gambali di cuoio e un frustino, comperati or ora) - un altro
involto più piccolo in mano - (gli speroni) - Berecche si presenta al
signor Felder, maestro di maneggio.
- Corso accelerato?
Ma, scusi, il signore ha già una certa pratica del cavallo?
Berecche scuote il
capo:
- No.
- E allora? -
esclama con un sorriso di pietosa meraviglia il signor Felder.
Contempla un po'
quel pezzo d'omone grave, dalla quadrata corporatura che gli sta davanti
aggrondato; poi, chiestogliene il permesso, gli tasta i muscoli delle
gambe, veramente un po' fiacche, veramente un po' secche in proporzione
dell'ampio torace; gli prende una mano - (scusi) - e lo invita a piegarsi
su quelle gambe, tenendosi su la punta dei piedi giunti.
- La reggo io.
Berecche, più che
mai aggrondato, scuote di nuovo il capo; rifiuta quella mano: ha fatto in
casa, chiuso a chiave nello studio, quell'esercizio; e lo eseguisce ora da
sé, senza ajuto, una, due, tre volte, elasticamente, con gli occhi
chiusi, innanzi al signor Felder che approva:
- Ah, bene... ah,
bene... benissimo...
Berecche si rialza e
al signor Felder, sempre più stupito dell'aria fosca con cui quel nuovo
cliente gli parla, annunzia di avere studiato tutta la notte e che perciò,
quanto a nozioni teoriche, si può dire già a cavallo. Indica in un punto
della pesta il cavallo ginnastico di legno, e fa il gesto di scartarlo con
la mano, che di quello, cioè, può farne a meno, perché, in teoria,
conosce già tutte le posizioni e le arie e le difese del cavallo,
evoluzione, mezz'aria, parata, passata, piroetta...
- Un po' di pratica,
solo un po' di pratica alla svelta - conclude. - Ecco, ho portato qua
questo pajo di gambali. Me li metto. Mi faccia montare e proviamo subito,
anche su un cavallo un po' cattivo... vivace, intendo. Sarà meglio! Se
casco, non fa nulla.
Il signor Felder si
prova a fare parecchie obiezioni; ma Berecche lo interrompe, ripetendo
ogni volta: - Le dico, che se casco non fa nulla! - con tono così
perentorio, che alla fine alza le spalle e si sottomette a contentare lo
strano cliente.
Non casca, quella
prima volta, Berecche; ma se vuol fare così a modo suo, perché mai è
venuto in una scuderia d'equitazione? Così, prima o poi, si romperà il
collo, non una, ma dieci volte, e basta una. Non glie n'importa? Ma
importa a lui, al signor Felder, che non vuole responsabilità; perché,
nella sua scuola...
- Ecco, guardi, -
soggiunge, - provi piano, prima, all'inglese.
- Vale a dire? -
domanda Berecche col fiato grosso, infiammato in volto, dall'alto del
cavallo.
- Ecco, - ripiglia
il signor Felder, - lei sa: c'è il modo di cavalcare all'italiana, e il
modo all'inglese. Provi piano all'inglese.
Guardi, che si tenga
in sella un po' sospeso su le staffe... così... e che s'alzi e si
abbassi, secondando l'andatura del cavallo... sicuro, inchinando un po' il
capo e la vita... così, avanti, verso il collo della cavalcatura... non
troppo... Dico, sa? per non aver troppe scosse alla testa... Vedo che... sì,
lei si congestiona un poco...
- Ah, non se ne
curi! - esclama Berecche. - Ma proviamo pure all'inglese... Dia, dia...
- Prima piano...
piano...
- Le dico: dia!
Il maestro dà; il
cavallo si lancia al galoppo, e allora Berecche... oh Dio... oh Dio!...
- Si chiuda in
sella!... si chiuda in sella! - gli va urlando dietro per la pésta il
signor Felder.
Rinsacca
maledettamente Berecche, pencola, si storce di qua, di là, e alla fine
patapunfete! rimanendo staffato, così che il cavallo se lo strascina per
un pezzo per la pésta.
Niente! Non s'è
fatto niente... Ma all'inglese, ecco, non va!
- Niente, le dico,
perdio! Sono contentissimo... Niente... un po' qua al piede... ma è già
passato... All'inglese non va! Mi faccia rimontare. Vado meglio
all'italiana, come prima. E mi dia il frustino! -
Il signor Felder si
tira un passo indietro, ponendosi il frustino dietro le spalle.
- Ah, frustino,
niente, caro signore!
- Le dico, mi dia il
frustino!
- Fossi matto!
- Ma lo sa lei che,
se avevo il frustino, non cascavo? -
Ride, ansando,
dall'alto del cavallo, Berecche. È proprio contento, anche della caduta,
sì. È stato un bel momento, una gran gioja è stata per lui: galoppando
e rinsaccando a quel modo: pensava a Faustino, alla guerra, a Faustino che
si lanciava a una carica alla bajonetta contro i Tedeschi, e... via, via,
via di galoppo con lui, così, a occhi chiusi, nella mischia. Vuol
riprovare la stessa gioja, ora.
- Su, mi dia il
frustino, senza storie!
S'avvicina col
cavallo; si protende; strappa al signor Felder di dietro le spalle il
frustino; e via, frustando il cavallo, si lancia di nuovo al galoppo per
la pésta, con gli occhi chiusi, rituffandosi nella violenta visione dei
garibaldini alla carica, con Faustino alla testa. E piú il suo ragazzo
gli corre davanti con la camicia rossa e la bajonetta in canna, e piú lui
frusta il cavallo: avanti! avanti! viva l'Italia! Ah, come son rosse
quelle camicie! Un po' di gioventú... un po' di gioventú sprecata!
Chi grida così
nella pésta?. Ah... che turbine!... Chi corre avanti? Com'è? qua fermo?
Che è stato? Gridano, accorrono.
Berecche è
stramazzato; bocconi, con la fronte spaccata. Ha un ansito tremendo, ma è
pieno di gioja; non soffre nulla; è dolente solo per quel buon signor
Felder che grida su le furie; gli vorrebbe dire che non è niente; che non
si dia pensiero di nulla; che nessuno lo chiamerà responsabile del male
che lui s'è fatto alla testa.
È grave? - domanda
alla gente accorsa a sollevarlo da terra.
Dagli occhi con cui
quella gente lo guarda, comprende che è grave; ma non sa, non può
vedersi la faccia, con quella ferita aperta su la fronte; e ride, con la
faccia così insanguinata, per rassicurare quella gente:
- Eh, - dice - e
allora, alla guerra? -
Lo prendono per le
spalle e per i piedi e lo trasportarlo fuori; lo adagiano su una vettura e
lo conducono al Policlinico.
- Ma allora, alla
guerra? -
Contro
ogni supposizione diversa che altri possa fare, Berecche seguita a
ragionare; e ne dà ancora una prova, la sera, allorquando con un turbante
di bende che gli avvolge non solo tutto il capo ma anche mezza faccia
nascondendogli tutt'e due gli occhi, lo riportano in casa dal Policlinico.
- Una caduta... una
caduta... -
Non dice altro: né
come, né dove sia caduto. Una caduta. Ma ragiona: tanto vero, che subito
comprende che, dicendo così, senza spiegare come e dove sia caduto, la
moglie, la figlia Carlotta possono supporre che egli abbia tentato
d'uccidersi. E allora soggiunge:
- Niente... Per via,
una vertigine... Non vi spaventate... gli occhi sono salvi: solo alla
fronte, su le ciglia, uno spacco... Niente. Passerà. -
Vuol essere condotto
nello studio e posto a sedere al suo solito posto della sera. Vuole solo
con sé Margheritina. Se la fa sedere su un ginocchio; la abbraccia.
Ragiona; ma gli sembra che Margheritina il lampadino rosso innanzi alla
Madonnina del villino dirimpetto - almeno quello solo - sì, possa
vederlo, se è acceso; e glielo domanda.
Margheritina non
risponde. Berecche comprende che no, neanche quello può vedere
Margheritina, la sua animuccia cara; e se la stringe al petto piú forte.
Forse non sa neppure Margheritina che lì dirimpetto c'è un villino con
una Madonnina a uno spigolo e un lampadino rosso acceso. Che è il mondo
per lei? ecco, ora egli può intenderlo bene. Bujo. Questo bujo. Tutto può
cambiare, fuori, diventare un altro, il mondo; un popolo sparire; ordinare
altrimenti un intero continente; passare, anche vicina, una guerra,
abbattere, distruggere... Che importa? Bujo. Questo bujo. Per
Margheritina, sempre questo bujo. E se domani, là in Francia, Faustino
sarà ucciso, Oh, allora anche per lui, senza piú quella benda, con gli
occhi di nuovo aperti alla vista del mondo, sarà tutto bujo, sempre, così,
anche per lui; ma forse peggio, perché condannato a vederla ancora la
vita, questa atrocissima vita degli uomini.
Torna a stringersi
forte al petto la sua cechina sempre chiusa nel suo silenzio nero;
mormora:
- E di questo,
figliuola mia, di tutto questo, siano rese grazie alla Germania! -
Roma, fine del
1914, principio del 1915.
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