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Superior stabat lupus »
Corrado Tranzi, fino a ventiquattr'anni disprezzatore
implacabile di tutte le donne, implacabile derisore di tutti gli uomini
che se n'innamoravano, appena presa la laurea di dottore in medicina,
chiamato per un caso d'urgenza mentre di buon mattino stava a concertare
una partita di caccia nella farmacia d'un amico - (il bel cielo ? il
tepore della primavera imminente? qualche sogno della notte?) -
s'innamorò anche lui tutt'a un tratto, proprio in quella sua prima visita
di medico.
Che pregi
straordinarii e doti scoprisse in quella fanciulla che venne ad aprirgli
la porta, spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, lo
avrà saputo lui che li scoperse. Certo è che, fin dal primo vederla,
restò abbagliato a guardarla in bocca, mentr'ella affollatamente gli
parlava della zia trovata a letto, un quarto d'ora addietro, rantolante e
senza conoscenza.
Introdotto nella
camera della colpita, vide accanto al letto un giovinotto che forse, anzi
certo, era il figlio, e un uomo e una donna che forse erano il padre e la
madre della fanciulla. Il Tranzi notò subito che questa, mentr'egli
dichiarava il male (caso indubbio e irrimediabile d'embolia cerebrale),
s'era messa a carezzare i capelli del giovinotto, del cuginetto che
piangeva con la faccia affondata nel guanciale proprio accanto al capo
della madre agonizzante, e se ne stizzì tanto, che improvvisamente
s'interruppe per ordinare che, perdio, quel figliuolo se ne poteva andare
a piangere di là. Aria! aria! un po' d'aria attorno al letto!
L'inferma morì tre
giorni dopo. In quei tre giorni Corrado Tranzi riuscì a sapere tante
cose: che la fanciulla si chiamava Ebe; che era figliuola d'un tal De
Vitti, professore di fisica al Collegio Nautico; che la defunta era
cognata del professore, vedova da tanti anni e accolta in casa col
figliuolo che si chiamava Marco Perla; che questi, già impiegato
modestamente alla Dogana, aveva chiesto col piacere dei parenti la mano
della cuginetta, la quale però aveva rifiutato con molto dolore,
confessando candidamente che le sarebbe stato impossibile sposarlo,
perché, fin da bambina cresciuta con lui, lo amava come fratello, e
solamente come tale e non altrimenti avrebbe potuto amarlo.
Sapute queste cose,
Corrado Tranzi si fece avanti, senza perder tempo. Tra pochi mesi si
sarebbe deciso il concorso a tre posti di assistente nell'ospedale
maggiore della città, a cui egli aveva preso parte: era sicuro di
vincere; sicurissimo; aveva poi qualcosa di suo e la professione di
medico: poteva sposare.
Il professor De
Vitti rimase dapprima costernato di tanta furia e della stranezza dei modi
e del dire del giovine medico, ricciuto e barbuto, tutto scatti e schizzi
tra sprezzature sbrigative; esitò; si provò a prender tempo con la scusa
del lutto recentissimo; ma Corrado Tranzi, che giusto per questo lutto
recentissimo temeva che l'amor fraterno della fanciulla per il cugino
potesse da un momento all'altro cangiar natura col lievito della pietà,
or che lo sapeva orfano anche di madre e bisognoso di conforto, tenne
duro: o sì o no, subito! Ebe accettò e in pochissimo tempo si fecero le
nozze.
Fu una furia, una
frenesia d'amore, che durò appena un anno Ebe morì di parto. La sera
stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la
bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un
pazzo; scomparve. Si venne poi a sapere che, incontrato per caso un
giovane collega, il quale quella sera stessa doveva imbarcarsi come medico
di bordo su un transatlantico, ne aveva preso il posto col piacere di lui,
ed era rimasto in America, senza lasciar tracce di sé.
La
bambina, orfana di madre e abbandonata così dal padre, crebbe in casa dei
nonni, che la chiamarono Ebe come la loro figliuola. E sembrò ad essi che
veramente la loro Ebe ricominciasse a vivere in quella bimba, dapprima tra
le loro braccia, custodita con l'anima e col fiato, poi tra le loro cure
piene di palpiti e di sgomenti.
A mano a mano,
crescendo, Bebè somigliò sempre più alla mamma: ne ripeté tutte
le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore
accorato de' due vecchi che credevano d'assistere a una prodigiosa
resurrezione.
Il nipote, Marco
Perla, nel vederla anche lui crescere così simile in tutto alla cuginetta
ch'egli avrebbe voluto far sua, cominciò a provare di tratto in tratto, o
per il guizzo di uno sguardo o per il suono d'una risata o d'una parola o
per un capriccetto o una bizza della piccina, l'impressione curiosa quasi
d'un arresto in sé, d'un ritorno misterioso a tante cose, non già
riviventi, ma ancor vive dentro di lui; non già ai ricordi della sua
infanzia trascorsa insieme con un'altra bimba, di cui questa era il
ritratto preciso, ma agli stessi sentimenti onde quei ricordi erano
animati e che si rifacevan vivi, della vita stessa della piccina.
La quale, ecco, come
quell'altra, voleva giocare con lui; voleva - senza saperlo - far ripetere
a lui quegli stessi giuochi già fatti con quell'altra se stessa, ch'era
stata la sua mamma piccina.
E lui ripeteva quei
giuochi.
Di ritorno
dall'ufficio, si nascondeva dietro l'uscio dello stanzino buio, ov'erano
due vecchi armadii. L'odore che covava in quel luogo attufato, senz'aria,
senza luce, era come il respiro stesso dell'infanzia lontana. Gridava con
la voce d'allora cu-cu, e stava ad aspettare che quella,
quell'altra, ma viva, viva ancora in questa piccina, venisse a scoprirlo,
a scovar lui anche piccino lì dietro quell'uscio; e, appena dallo
spiraglio la intravedeva tutta ansiosa e vibrante e perplessa, ecco, come
allora, tratteneva il fiato e trepidava e, potendo, scappava via da quel
nascondiglio e si metteva a correre, a girare per non farsi prendere,
attorno alla tavola apparecchiata, e si cacciava tra le seggio]e sotto la
tavola per riuscir dall'altra parte, finché, caduto a sedere per terra,
non si lasciava acchiappare dalla bimba accesa in volto e inferocita.
Ma per dove lo
acchiappava? Oh! per i baffi ch'egli allora non aveva; o gli
ghermiva le lenti, ch'egli allora non portava. E di questo
improvviso ripiombare su se stesso restava in prima sbalordito, a
lisciarsi sul labbro i baffi scomposti, a stropicciarsi gli occhi miopi
smarriti. Qualche volta la zia lo sorprendeva ancor lì seduto per terra e
gli domandava che facesse.
- Niente, - le
rispondeva con un sorriso vano. Giuoco con Bebè.
Tra tutti i ricordi,
più vivo e più preciso aveva quello del giorno e dell'ora che per la
prima volta in un bacio della cuginetta aveva sentito d'improvviso, lui
solo, il sapore e il calore d'un amor nuovo, diverso dal solito, per cui
s'era tutto turbato e acceso, quasi che da quelle rosee e fresche labbra
ignare gli fosse venuto un fuoco delizioso per tutte le vene. Ebe aveva
dodici anni; lui quindici; ed era stato un giorno d'aprile, nelle prime
ore del mattino. Lei si era accorta subito, allora, che egli in quel bacio
aveva colto per la prima volta un sapor nuovo, e se n'era avuta per male e
non aveva più voluto che lui la baciasse a quel modo.
Ma non s'accorgeva,
non si poteva accorgere di nulla, ora, questa piccola Bebè già pervenuta
a quell'età della madre, e ogni giorno, nel vederlo ritornare
dall'ufficio, gli buttava le braccia al collo e lo baciava con ardente
furia infantile.
Lui si restringeva
tutto in sé e strizzava gli occhi e serrava i denti sotto quella furia
per impedire con tutte le forze che anche da queste rosee e fresche labbra
ignare, le quali per lui ancor più che per i vecchi nonni erano pur
quelle medesime della prima Ebe, gli venisse lo stesso fuoco per tutte le
vene.
- Non mi baci? Oh,
come sei buffo! Che hai? gli domandò una volta Bebè, dopo averlo
baciato, guardandolo in faccia e scoppiando a ridere. - Perché ti fai
così brutto? Perché non mi baci?
Lui scappò via e,
davanti allo specchio, si mise a piangere.
La
morte quasi improvvisa del professor De Vitti venne a strappare
violentemente Marco Perla da quell'ibrido e atterrito stato d'animo.
Il professore,
entrato tardi nell'insegnamento, non aveva compiuto gli anni di servizio
per la pensione, sicché alla vedova toccavano poche migliaja di lire:
circa otto, che furono messe da parte per la nipotina.
Restò lui, ora,
Marco Perla, unico sostegno della famigliuola.
Ne fu lieto, da un
canto; ma dall'altro, l'idea che Bebè cominciasse a vedere in lui un
altro, il capo di casa, quasi il padre, e a considerarlo come tale, lo
sconcertò profondamente.
Da un pezzo la zia
notava in lui curiose assenze di memoria, strane smanie, improvvise
tristezze; e lo vedeva dimagrire e fissarsi sempre più in una ispida e
squallida bruttezza. Sospettava che fosse innamorato; che quella morte
dello zio gli avesse troncata la speranza di farsi una casa; che gli
pesasse il debito di gratitudine per i benefizii ricevuti da bambino.
Marco Perla invece,
nel vedere Bebè di giorno in giorno sbocciare come un fiore, era invasato
dalla paura
che un altro d'un
tratto venisse a strappargliela, come già gli era stata strappata la
madre di lei, senza ch'egli potesse opporsi in alcun modo, pur sentendosi
amato. Ma sì! una volta da fratello; ora forse da padre.
E presto venne
infatti il giorno che la zia, tutta esultante, credendo di dargli un gran
piacere, gli confidò che quella mattina stessa aveva ricevuto una lettera
da un giovane, che si vedeva spesso passare per istrada, bello come un
angiolo, diceva, biondo, coi capelli lunghi; un giovine pittore che presto
sarebbe partito per Roma pensionato, e che... Non poté proseguire, la
zia; tanto il volto del nipote s'era alterato.
- Ah, questo per
Roma? come quell'altro per 1'America? - sghignò orribilmente. - Ma non vi
basta una? Due eh? volete buttarne via due, così, al primo che capita ?
Diceva: volete,
come se fosse ancor vivo lo zio e volesse anche lui infliggergli il
supplizio dell'altra volta. Delirando, confondendo il primo strazio con
questo d'ora, il primo amore per la cugina con questo per la figliuola di
lei, ch'era per lui lo stesso amore superstite, lo stesso amore due volte
vivo, egli gridò alla zia tutta la sua passione.
La zia, dapprima
sbalordita, poi quasi atterrita, cercò di calmarlo. Gli disse che mai e
poi mai non avrebbe sospettato ch'egli avesse potuto prendersi così
d'amore per quella piccina. Sì, la ragione c'era; ma difficile farla
intendere a Bebè che non sapeva nulla. Come dirle: «Tu, cara, hai
creduto di vivere per te tutti questi anni, e invece no: tu hai vissuto
per rinnovare a me, nel mio cuore, la passione che io ebbi per tua
madre!».
Oh, lei, la zia,
sarebbe stata felice d'affidare a lui quella piccina sua; proprio felice.
Ma Bebè? Promise ajuto ma non bisognava aver fretta. Prima si doveva
levar via dal cuore di Bebè quell'amoretto fatuo per il giovine pittore,
dimostrandole che costui per l'età, per la professione, per tant'altre
cose, non dava alcun serio affidamento; poi, a poco a poco... chi sa?
Furono
per Marco Perla mesi d'angoscia e di disperazione.
Forse la zia non
aveva saputo parlare. Lo argomentava dal contegno di Bebè verso di lui.
Ma la zia lo assicurava che non le aveva ancor mosso alcun discorso di
lui, neppure un cenno, e che Bebè era così, perché, indotta da lei,
aveva troncato ogni corrispondenza con quel giovine già partito per Roma.
Bisognava ancora aspettare, lasciarla quietare.
Aspettare? fino a
quando? Più tempo passava, e più profondamente vedeva egli radicati nel
cuore di lei il ricordo e il rimpianto di quel giovine già partito per
Roma. O forse la zia non trovava il coraggio di parlare? Deperiva di
giorno in giorno, povera vecchia, quasi rósa da quel segreto che egli le
aveva confidato.
Lo trovò poco prima
di morire, il coraggio di parlare a Bebè, la povera zia. Se la chiamò
accanto al letto, e cominciò a domandarle se ella si rendesse conto della
condizione in cui tra poco si sarebbe trovata: sola in casa, giovinetta,
con un uomo che non le era né padre, né fratello, anche lui quasi
giovane ancora, senz'alcun obbligo veramente verso di lei. Che cosa era
egli per lei? Figlio d'una sorella della nonna. Ed ella per lui? Figlia
d'un uomo, che un giorno era irrotto come una bufera in casa e l'aveva
schiantata. Una pianticella quasi senza radici, era: la madre, morta; il
padre, sparito. Non le restava altro sostegno che lui, Marco, il quale si
era sacrificato per loro. Bisognava dargli un compenso, un premio per i
tanti sacrifizii. Egli era buono e l'amava: le sarebbe stato padre e
marito insieme. Se Bebè voleva ch'ella morisse tranquilla, le doveva dir
sì.
Stupore, dolore,
orrore, vergogna assaltarono e sconvolsero Bebè, a questa rivelazione
inattesa. Si aggrappò al collo della nonna e, rompendo in singhiozzi, la
scongiurò di non morire, per carità di lei. No no; ecco: la avrebbe
tenuta stretta così, per sempre, e non le avrebbe permesso di morire,
ecco, non glielo avrebbe permesso! Ora che sapeva questa cosa orribile,
sola con zio Marco non voleva, non poteva più restare. Per carità! per
carità! Sarebbe morta lei, piuttosto.
Bebè non aveva mai
pensato al padre scomparso: non aveva mai avuto per lui alcun sentimento,
né rancore né curiosità: esso per lei non esisteva, non era mai
esistito. Cominciò a esistere il giorno della morte della nonna,
allorché, ritornata in casa dal camposanto, si vide insieme con Marco
Perla: insieme e divisa, insieme e nemica, conoscendo in lui un sentimento
al quale non sapeva e non voleva rispondere.
Un odio cupo e
feroce s'impossessò di lei per il padre sconosciuto che l'aveva messa al
mondo e abbandonata senza neppure vederla; che dopo averle dato la vita,
le aveva negato ogni diritto di esistere per lui, solo perché lei, senza
sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre; come se questa non fosse stata
una sciagura anche per lei, e anziché odio e orrore, la sua vista, la
vista della figliuola orfana appena nata, non avrebbe dovuto suscitare in
lui una maggiore pietà, il sentimento d'un doppio dovere! Era fuggito,
scomparso, per orrore di lei, sottraendosi a ogni responsabilità per la
vita che le aveva dato, e rovesciando questa responsabilità addosso ai
due poveri vecchi, a cui aveva tolto la figlia, e ora addosso a uno, che
non aveva alcun dovere di assumersela.
Bebè ignorava che
anche a costui il padre aveva tolto qualche cosa; ignorava ch'egli aveva
lasciato a costui il peso della figlia dopo avergli tolto l'amore della
madre.
Dov'era il padre
adesso? Viveva ancora? E come non pensava che, dopo tanti anni, potevano
esser morti, com'erano difatti, i due vecchi, nelle cui mani aveva
abbandonato la figliuola? Come non pensava a tutto ciò che sarebbe potuto
accadere e che già accadeva a lei, così sola e senza ajuto? Forse egli
aveva ora laggiù un'altra famiglia, altri figli, e pensando a questi che
da vicino attendevano da lui amore e cure, si toglieva il rimorso di non
aver mai pensato a lei lontana.
Ed ecco, uno adesso
la raccoglieva, che di quanto aveva fatto per lei voleva esser pagato e in
pagamento esigeva tutta lei stessa, tutta la sua vita che gli apparteneva,
poiché colui, quell'altro, glien'aveva lasciato il peso.
Per
la violenza di questi pensieri e di questi sentimenti, Bebè, affogata di
tristezza, con lo spirito sconvolto dalla iniquità della sua sorte,
ammalò subito e così gravemente, che per parecchi giorni fu in pericolo
di vita.
Lottarono a lungo e
senza tregua la sua volontà di morire e l'amore di Marco Perla, che le si
espandeva attorno, vigile, fervido a trattenerla, a sostenerla, con
insistenti, ininterrotte premure, pronto sempre a darle il proprio alito
per ogni respiro che ella non volesse più trarre, e la propria vita per
nutrire quell'atroce volontà di morte.
E alla fine vinse
l'amore di lui; ed ella nel languido intenerimento e nell'abbandono della
convalescenza, per gratitudine e per pietà, alla fine cedette e s'indusse
a sposarlo.
Guarita, già donna,
mirandosi il corpo fiorente, le carni ancor quasi acerbe e già offese e
condannate a rimanere per sempre ignare d'ogni gioja d'amore, non poté
sottrarsi alla riflessione che la misera, magra bruttezza di lui, già
quasi vecchio, dava un valore inestimabile a quel suo corpo, e che perciò
il pagamento che di esso egli aveva voluto farsi, rappresentava quasi un
patto d'usura, solo in parte mitigato dall'adorazione di cui la
circondava.
Sarebbe stata
quest'adorazione simile in tutto a quella dell'avaro per il suo tesoro, se
egli non si fosse poi dimostrato tanto ingordo di lei; oh sì, come se su
lei volesse saziare una lunghissima fame, di cui ella sentiva orrore,
ripensando ai baci che le aveva dato da bambina. E in quell'ingordigia
s'imbruttiva sempre più, diventava di giorno in giorno più giallo, più
ispido e magro. E anche s'accaniva a lavorare per migliorare le non laute
condizioni finanziarie. Pochi mesi dopo il matrimonio, volle prender parte
a un concorso interno tra gli ufficiali di dogana, e riuscì tra i
vincitori. Doveva ora recarsi a Roma per un corso biennale di
perfezionamento all'Istituto superiore di merceologia. Sperava, dopo i due
anni, di poter rimanere a Roma, al Ministero delle finanze.
Se non che, durante
lo sgombero della casa per la partenza, avvenne a Bebè di scoprire in un
vecchio stipetto della nonna, relegato in soffitta, un fascio di lettere
di quel giovane pittore partito per Roma circa due anni addietro per il
pensionato artistico, lettere che la nonna aveva intercettate e nascoste
intatte, forse perché non aveva osato distruggerle o forse perché fino
all'ultimo s'era ripromessa di darle alla nipote, se Marco si fosse
convinto ch'era vano sperare d'indurla a cedere.
A questa scoperta,
Bebè sentì strapparsi le viscere e il cuore. Allibì dapprima, poi
l'ira, lo sdegno le fecero un tale impeto nello spirito ch'ella, con le
mani tra i capelli e gli occhi sbarrati e ferocemente fissi, si vide quasi
impazzita nello specchio di quello stipetto.
Come, con quelle
lettere sottratte, aveva potuto la nonna assicurarla che quel giovine,
appena arrivato a Roma, s'era dimenticato di lei? Quelle lettere
riboccavano di passione, gridavano e piangevano e scongiuravano. Ed ella
aveva creduto alla nonna! E quel giovine aveva potuto pensar di lei tutto
il male che ella aveva pensato di lui! Ma sì, ecco, nell'ultima lettera
disperata, la dichiarava indegna del suo amore, e fatua e spergiura e
civetta e senza cuore.
Ah, che infamia! che
infamia! Si erano messi dunque d'accordo la nonna e Marco; d'accordo
avevano commesso un tradimento così vile? Ma già! Non doveva pagare? Il
sacrifizio della sua persona non bastava; anche col sacrifizio di
quell'amore doveva pagare le cure, il mantenimento che le avevano dato.
Oh, Dio, Dio, che cosa... oh Dio, che cosa...
Ma a Roma - ah! a
Roma, adesso, si sarebbe vendicata. Avrebbe rintracciato quell'altro, a
ogni costo. Anche a costo di perdersi, si sarebbe vendicata.
A
Roma, tre mesi dopo, una sera d'inverno, alla porta del vecchio
quartierino preso a pigione da Marco Perla in un lugubre casone del viale
solitario di Castro Pretorio al Macao, bussava un vecchietto ferrigno
dalla barba crespa, già molto brizzolata, che si confondeva col grigio
bavero della pelliccia. Corrado Tranzi.
Attendendo che
venissero ad aprirgli, col capo chino, le ciglia aggrottate e gli occhi
torvi che palesavano un'ansia spasimosa, s'affondava le unghie nel palmo
delle mani e stropicciava convulsamente i pollici sul dorso delle altre
dita serrate.
Quando alla fine la
serva venne ad aprirgli, alla vista della casa in cui stava per
introdursi, sentì mancarsi il respiro.
- Il signor Perla?
La serva lo guardò
costernata, e disse esitante:
- Ma non so se il
signore, in questo momento, possa ricevere. Non sta bene, e...
- La signora?
- Anche lei.
- Malata?
- Ha avuto... non
so... aspetti: vado a sentire il padrone.
E la serva scappò
via lasciandolo li, davanti l'entrata, senza neppure invitarlo a varcare
la soglia. Ritornò poco dopo a rispondere che il signor Perla si scusava,
ma proprio non poteva riceverlo perché ammalato e che anche la signora
era indisposta.
- Io sono medico, -
disse allora il visitatore. - Per tutti e due.
Ed entrò.
- Ma signore...
- Dite al signor
Perla che c'è il dottor Corrado Tranzi. Andate.
Marco Perla stava
buttato, dalla sera precedente, su una poltrona in uno stanzino che voleva
essere salotto e studiolo; vi aveva passata la notte; non se n'era levato
neppure per prendere un po' di cibo a mezzogiorno. Solo dalla serva, più
tardi, aveva accettato una tazza di caffè con dentro una buccia di
limone. A1 nome di Tranzi restò come esterrefatto. E due volte tentò di
balzare in piedi, ricascando ogni volta su la poltrona. Ajutato dalla
serva, poté alla fine mettersi in piedi e accorrere nella saletta.
- Corrado?
Restarono per un
momento entrambi, di fronte, come precipitati l'uno verso l'altro a
guardarsi dal tempo remoto, in cui per l'ultima volta si erano veduti. In
un attimo, con tutte le memorie balenanti di quanto era loro accaduto,
dovevano colmare il vuoto di tutto quel tempo per riconoscersi così
cangiati.
Oppresso di stupore,
ansimante, Marco Perla credette di scorgere negli occhi del Tranzi l'animo
con cui questi gli si rifaceva incontro. Non doveva pensare il Tranzi
ch'egli avesse voluto prendersi una rivincita sposando sua figlia, poiché
da lui aveva avuto tolta la madre? E non doveva a un tal pensiero essere
pieno d'odio e d'orrore?
Si sentì mancare,
sprofondare.
Ma si ritrovò
invece tra le braccia di lui, sorretto premurosamente; udí invece la voce
di lui che gli diceva:
- Tu... così... Ma
stai male davvero! Qua... che hai?... Ma tu scotti! Non ti reggi! Hai la
febbre...
E provò un
sollievo, un refrigerio, un conforto, tanto più vivo e dolce, quanto più
inatteso e insperato. Prese a singhiozzare, a gemere tra singhiozzi,
mentre quegli, insieme con la serva, lo riconduceva alla poltrona nello
stanzino:
- Ti manda Iddio! ti
manda Iddio!
- Qua... qua... -
riprese il Tranzi adagiandolo su la poltrona. - Che cos'è? Guardami...
guardami bene in faccia... Vengo da Palermo... Sono sbarcato a Genova.
Corro a Palermo, domando, mi informano di tutto... Tu... tu hai sposato
mia figlia? Dov'è? dov'è?
Il Perla,
accasciato, curvo, con le mani su la faccia, gridò rabbiosamente:
- Non l'avessi mai
fatto!
- Non dovevi farlo,
Marco! - rispose pronto il Tranzi, con una voce strana, che voleva parer
di rimprovero e di rammarico soltanto, ma in cui vibrava un furore a
stento contenuto. - Come, come hai potuto farlo?
- Te la puoi
riprendere, ora! te la puoi riprendere... - disse allora affrettatamente
il Perla, senza togliersi le mani dal volto. - Te la puoi portar via...
via... via...
- Perché? dov'è,
insomma? - domandò il Tranzi guardandosi attorno.
- Di là... S'è
chiusa in camera... - rispose il Perla. - Aspetta... Aspetta...
Si voltò alla
serva:
- Voi! andate ad
avvertire la signora...
Poi, brancicando, si
portò una mano nella tasca interna della giacca: ne trasse un logoro
portafogli, ne cavò una lettera e la porse al Tranzi:
- Leggi prima...
leggi...
- Che cos'è?
- Leggi... È del
suo amante.
Corrado Tranzi
serrò le pugna con la lettera, e, come una belva ferita, s'avventò su la
poltrona, sopra il Perla, ruggendo:
- Ma tu...
- Io? - gridò
allora quello reagendo, e in un furibondo prorompimento di ribellione,
buttò in faccia all'antico rivale tutto il male che da lui aveva
sofferto, tutto il bene che in cambio aveva fatto per riceverne poi in
premio questo tradimento.
Alle grida, si fece
davanti all'uscio, sgomenta, la serva. Appena il Tranzi la scorse, le
gridò:
- Mia figlia?
E a un cenno
accorse.
Ebe, su la soglia
della camera in cui s'era chiusa, lo accolse spettinata, mezzo discinta,
tutta affannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo
aveva accolto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane
medico, era stato chiamato per caso in una farmacia.
Era lei! Era lei! la
sua Ebe che lo riaccoglieva così come si può accogliere un estraneo in
un momento di improvviso, supremo bisogno! E ben chiaramente nello sguardo
ostile le si leggeva, che se ella non si fosse trovata in quel tremendo
frangente, non lo avrebbe accolto, non avrebbe voluto vederlo.
- Ebe mia! Ebe mia!
Conoscendola in sua
madre, egli non poteva comprendere ch'ella, con quegli occhi stessi di sua
madre, non potesse riconoscer lui. Si sentì con una mano respinto al
petto dall'abbraccio.
- Non m'abbracci?...
Oh, figlia mia! Lasciati almeno baciare sui capelli... Tu hai ragione. Ma
tutto il male, tutto il male lo fece tua madre, con la sua morte!
- E chi l'ha
scontato? - disse Ebe, guardandolo con dura freddezza negli occhi.
- Non tu sola! non
tu sola! - replicò egli subito. Che ne sai tu? Sì, sono stato colpevole
verso di te... Ma non credevo... non credevo... Ora che ti vedo, comprendo
tutto!
Ebe vide il volto
del padre, nel proferir queste ulti me parole, scomporsi d'improvviso in
una espressione tra di stupore e d'orrore; gli udì soggiungere a bassa
voce:
- Comprendo...
comprendo perché lui t'ha sposata... Tu non sai, tu non puoi sapere...
Rabbrividì;
comprese; domandò anche lei a bassa voce, inorridita:
- La mamma... Lui?
- Sì, sì...
E in questo
riconoscimento provarono, l'uno, una rabbia feroce, come per un tradimento
infame che colui, profittando vigliaccamente della sua assenza, gli avesse
fatto con la madre; l'altra, il ribrezzo, l'abominazione come per un
incesto che quegli avesse perpetrato su lei.
Si ritrassero tutti
e due nella camera; ne serrarono l'uscio e parlarono a lungo tra loro.
Egli le disse anche tutti gli stenti, tutte le lotte che aveva dovuto
sostenere laggiù, pur disperato, divorato dal cordoglio. Il pensiero di
lei, sì, gli era stato dapprima odioso, perché non riusciva a staccarlo
da quello della morte della madre; gl'inacerbiva la piaga e lo rendeva
feroce. Poi, quando poté cominciare a sentir pietà di lei abbandonata -
(non rimorso veramente, mai, perché mai non immaginò che avessero potuto
mancarle cure e affetto da parte dei nonni che supponeva ancora in vita)
pensò che, avendola abbandonata così, non essendosi fatto più vivo con
lei, avrebbe dovuto almeno farla ricca, per ricompensarla del lungo
abbandono. E ricco difatti ritornava.
- Troppo tardi?
Troppo tardi, sì.
Il tradimento - gli spiegò Ebe - non lo aveva commesso lei, lo avevano
commesso la nonna e Marco, prima.
Egli aveva ancora in
mano, appallottolata, la lettera che il Perla gli aveva dato da leggere.
- L'hai letta? - gli
domandò Ebe.
- No, non ancora...
- Neanche io; ma ci
dev'esser certamente la prova ch'egli non ha ancor nulla da rimproverarmi!
Non ho ingannato né tradito. Non ho fatto altro che giustificarmi con
questo... con questo giovine che mi ha scritto la lettera... Leggila...
Leggila pure...
E prese a parlargli
di quel suo amore ingenuo, quando si credeva libera di disporre di sé,
del suo cuore; delle lettere sottratte dalla nonna e scoperte per caso
alla vigilia della partenza per Roma.
Ma nel mezzo del
racconto, la serva venne a picchiare all'uscio per avvertire che di là il
padrone stava molto male, pareva soffocato.
Corrado Tranzi
accorse. Perché gli venne di domandare in prima, se non fosse stato già
chiamato il medico?
- No, nessun medico
ancora, - rispose la serva.
Con l'ajuto di
questa, egli trasportò sul letto Marco Perla che, tra le vampe della
febbre, delirava. Lo spogliò; prese a esaminarlo; gli ascoltò il cuore,
a lungo, poi i polmoni, picchiando sul petto, su le terga. Marco Perla
sorretto dalla serva a sedere sul letto, col capo ciondoloni gemeva,
rugliava, mormorava parole sconnesse. Finito l'esame, il Tranzi fe' cenno
alla serva di riadagiare sul letto l'infermo sotto le coperte, e si mise a
passeggiare per la camera, assorto.
Non era
provvidenziale, che lui, fin da quella sera appena arrivato, si potesse
avvalere della sua qualità di medico?
Un brivido gli corse
per la schiena. Si raddrizzò sul busto, dolorosamente, si passò le mani
tremanti sui capelli; poi si portò un dito tra i denti e stette un pezzo
a guardar fisso innanzi a sé. Movendo gli occhi, scorse la serva, si
voltò a guardar l'infermo; andò a sedere presso un tavolinetto, su cui
appoggiò i gomiti, stringendosi la testa tra le mani.
- È grave? -
domandò allora la serva.
Egli si riscosse e
la mirò, come se non avesse inteso. - Grave, sì, - poi disse. - Ma non
c'è da dargli per ora alcun rimedio. Va': nel caso chiamerò.
Rimasto solo, si
levò da sedere, si rimise a passeggiare per la camera, schivando di
guardare l'infermo.
Da anni e anni gli
erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso, che non potevano
avere altra conclusione che in un atto estremo. Conosceva il ribrezzo per
questo atto, il tumulto di tutte le energie vitali insorgenti a impedirlo,
la volontà che le domava, lo sfogo che allora si davano quelle,
nell'immaginare la vita che sarebbe rimasta per gli altri, dopo la sua
morte. Ma qui l'atto violento da compiere non era più contro se stesso; e
la vita che sarebbe rimasta per gli altri, non gli si rappresentava più
come in una triste inutile successione di casi press'a poco invariabili.
Qui, gli altri non erano più estranei indifferenti. Egli vedeva sua
figlia; e la vita che gli si rappresentava, dopo l'atto violento da
compiere, era quella di lei. Non avrebbe esitato un momento, se avesse
dovuto agire contro se stesso. Ma agire contro un altro, e a tradimento,
gli rendeva il ribrezzo invincibile.
Tutta la notte,
dibattendosi in quella veglia spaventosa nella camera dell'infermo, cercò
di radicarsi nell'orrenda decisione, che gli appariva di punto in punto
sempre più necessaria e quasi fatale.
Altri aveva allevato
sua figlia, altri la aveva finora mantenuta, per altri ella era ancora in
vita. Egli non aveva mai fatto nulla per lei.
Doveva far questo,
ora. Non aveva più altro da fare.
Le aveva portato la
ricchezza; ma a che poteva valere per lei, ormai legata com'era a quel
vecchio, dopo il sacrifizio del suo amore? Perché avesse valore per lei
quella ricchezza, perché ella potesse dire di dover veramente la vita a
suo padre, bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli
altri; e il debito che aveva pagato con la propria persona. Sì, senza
esitare, poiché così provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli doveva
sopprimere chi aveva fatto per la figlia tutto quello che avrebbe dovuto
far lui; sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi
anche la madre nella figlia. A questo solo patto poteva dirsi padre.
Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui egli per lei non
era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza,
la vita.
Balenò a Ebe il
sospetto della truce decisione del padre, nel vederlo la mattina dopo
tutt'intento e premuroso nella cura del malato, dopo quanto tra loro era
stato detto, la sera avanti? Forse sì; ma si vietò d'assumerne
coscienza.
Troppo chiaramente
però, infine, parlò lo sguardo di lui, quando, disfatto, curvo sul letto
a spiare l'ultimo respiro del moribondo, si rialzò e si volse verso di
lei, che gli stava accanto convulsa, atterrita.
Le diceva con quello
sguardo di non aver paura perché egli doveva fare così.
Se la strinse al
petto; le sussurrò tra i capelli:
- Sei libera. Puoi
vivere ora.
Ma ella sentì che
non poteva più, ora, sapendo. E s'appoggiò a quel petto per non scorgere
sul letto la vittima.
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