LO STORNO E
L'ANGELO CENTUNO
Ci eravamo levati a bujo e camminavamo da tre ore con
una fame da lupi, per certe scorciatoje scellerate che, a dire di Stefano
Traìna, ci avrebbero fatto risparmiare un terzo di cammino: ma già tre o
quattro volte ci era toccato di tornare indietro, non trovando l'uscita, e
non so quanto tempo avevamo perduto a scavalcar muricce, e cercare il
passo tra le fitte siepi di àgavi e di rovi, a traversar rigagnoli sui
ciottoli: fatiche da bestie, che ci avevano tolto l'unico compenso al
sonno perduto: quello di godere, camminando per vie piane, l'ilare
freschezza dell'aria mattutina in campagna. E gli scarponi e le munizioni
da caccia ci pesavano e la cinghia del fucile ci segava le spalle.
Chi di noi tre, in
tali condizioni, poteva aver animo da contraddire Stefano Traìna e da
difendere gli storni ch'egli ci dipingeva come una vera calamità per le
campagne, peggio assai delle cavallette, vero flagello di Dio?
Ma Stefano Traìna
era fatto così: parlando aveva bisogno di credere che qualcuno lo
contraddicesse; e accalorandosi sempre più, volle far sapere a noi tre
poveri innocenti che gli storni vanno a nugoli così fitti che, se passano
davanti al sole, l'oscurano, se calano su un bosco d'olivi, in un batter
d'occhio lo sterminano. Perché ogni storno si porta via con sé
nientemeno che tre ulive una per zampa e una nel becco; e questa del becco
se la ingoia sana sana e la digerisce come niente.
- Con tutto l'osso?
- domandò Bartolino Gaglio, sgomento.
- Con tutto l'osso.
E Sebastiano Terilli
esclamò:
- All'anima del
ventricolo!
- Gli storni? Ma se
vi dico... - seguitò Stefano Traìna.
Per concludere che
se da un canto noi dovevamo ringraziare Celestino Calandra - il più
giovane e il più bello dei canonici di Montelusa - per averci invitati a
passare una settimana nelle sue terre di Cumbo, dall'altro Celestino
Calandra doveva restar grato a noi del segnalato servizio che gli avremmo
reso, salvandogli il raccolto delle ulive con la nostra caccia agli
storni.
È vero che non
eravamo mai stati a caccia, né io né Sebastiano Terilli né Bartolino
Gaglio, come si poteva vedere dai nostri fucili nuovi fiammanti, comperati
il giorno avanti. Ma questo non voleva dir nulla. Agli storni - sosteneva
Stefano Traìna - si spara anche con gli occhi chiusi.
Ecco,
forse fu perché sparammo con un occhio chiuso e l'altro aperto, ma il
fatto è che, dopo quattro giorni di caccia accanita nell'oliveto di Cumbo,
non uno storno, che si dice uno, riuscimmo a far cadere, neppure per
combinazione; ulive sì, invece, oh, a ogni scarica, giù come grandinare;
tanto che il buon Celestino Calandra (giovane e santo) cominciò a dire
tra bellissime risate che una consolazione così non gliela poteva mandare
altri che Dio.
Lo sterminio ci fu,
ma nel pollajo di Cumbo. Una fame pantagruelica si sviluppò in tutti noi
quattro giovani cacciatori. Ma era forse la rabbia che ci divorava per
tutti gli storni falliti, che se ne volavano via pian pianino, senza
fretta, come se volessero dirci: « Uh, come siete nojosi, con codeste
schioppettate! ».
La vecchia donna
Gesa, casiera di Celestino Calandra (vecchia e santa), con due mazzi di
pollastrelli, uno per mano, dai colli tirati e ciondolanti, ci fulminava
con gli occhi ogni mattina al ritorno dalla caccia; fulminava più di
tutti Sebastiano Terilli, il quale, non contento dello sterminio delle
ulive e dei polli, faceva poi, a tavola, arrabbiare Monsignore con certe
discussioni che non stavano né in cielo né in terra.
Quel buon odore di
casa campestre perduta in mezzo agli olivi e ai mandorli, quelle camere
patriarcali, nude ampie sonore, dai pavimenti avvallati, che sapevano di
antiche granaglie e di mosto e del sudore di chi fatica al sole e del fumo
che esalano la paglia e la legna dei rozzi focolari, non erano riusciti a
disarmare l'acre spirito di Sebastiano, filosofo dilettante e materialista
convinto. È vero ch'egli ficcava l'anima in tutte le sue esclamazioni
molto frequenti: - «All'anima di questo! all'anima di quello!» - ma
quell'anima non era un'anima: era un modo d'intercalare.
Le discussioni più
calorose avvenivano la sera, dopo cena, e disturbavano donna Gesa, la
casiera, la quale prima d'andare a letto si rincantucciava, tutta
raffagottata, in un angolo a recitare il rosario di quindici poste. La
disturbavano, perché di continuo ella si sentiva tentata a interloquire e
rintuzzare, come si scorgeva chiaramente dagli atti che faceva, dalle
smusate che dava, da quel dito che di tratto in tratto si passava
rapidamente due o tre volte sotto il naso arricciato.
Era una donnetta
piccola magra e viva, sempre un po' irritata. Tra le lunghe labbra sottili
la saliva le friggeva. Batteva di continuo le pàlpebre su gli occhietti
neri e furbi, da furetto. Giù dalle tempie, per le gote, fino al naso, le
si allungava a fior di pelle un'intricata diramazione d'esilissime
venicciuole violette.
Una mattina
finalmente, dopo colazione, non poté più reggere. Si parlava di donne e
di prender moglie e di Suocere e di nuore. Stefano Traìna, che aveva in
casa una suocera demonio, s'era scagliato in una invettiva furibonda
contro tutte le suocere.
- Ma tante volte, -
uscì allora a dire donna Gesa, con le mani levate e le narici frementi, -
sono vipere le nuore! Vipere, sì, vipere, vipere! E voce di cattive
intanto hanno sempre le suocere.
Stefano Traìna la
guardò un tratto come basito; balzò in piedi, corse in camera a prendere
il fucile, e scappò via.
Rompemmo tutti in
una risata fragorosa. Donna Gesa aggrottò le ciglia, e aspettò che
finissimo di ridere; poi si volse verso Monsignore e, tentennando il capo
in segno di commiserazione, domandò:
- Era buona la
Poponé? Vossignoria lo sa: quella del miracolo dell'Angelo Centuno.
- Raccontate!
raccontate! - le gridammo io e Bartolino Gaglio.
Ma Sebastiano
Terilli, facendo campana:
- Un momento!
Aspettate! Come avete detto? Centuno? C'è l'angelo cento e l'angelo
centuno?
- Mi pare! - gli
gridò subito in faccia Bartolino Gaglio, temendo che l'interruzione
indignasse la vecchia e le facesse passar la voglia di raccontare. -
Centuno, centodue, centotré... Che maraviglia? Ci sono gli angeli e Dio
assegna il numero a ciascuno.
Celestino Calandra
(giovane e santo) sorrise bonariamente e ci spiegò che quel centuno, non
era, a dir proprio, un numero progressivo; ma che si trattava invece di un
angelo particolare, per cui la gente del paese aveva una special divozione,
come quello che aveva in custodia cento anime del purgatorio e le guidava
ogni notte a sante imprese.
- Un angelo
centurione? - fece il Terilli.
- Dunque... dunque,
la Poponé? - domandai io, infastidito, rivolto a donna Gesa.
Questa si sedette e
prese a narrare:
«Si chiamava
veramente Maragrazia Ajello. Di soprannome, Poponé. Tutti gli Ajello, di
padre in figlio, sono intesi così, chi sa perché.
Buona come il pane,
sempre con gli occhi a terra, poverina, e con le labbra cucite. Il suo non
era suo. S'era spogliata di tutto per il figlio, e stava dove la
mettevano, senza dar fastidio neanche all'aria.
La nuora, invece,
che si chiamava Maricchia, dispetti sopra dispetti, dalla mattina alla
sera. Facciaccia tosta, che non arrossiva di nulla, linguacciuta e
cimentosa poi!
Non c'è peggio
delle donne cimentose.
Non voleva portare
la mantellina come tutte le villane, perché diceva che il padre
era della maestranza: portava il manto di lana, a pizzo e con la
frangia, e voleva esser chiamata 'gnora e non comare.
La Poponé, zitta,
per amore del figliuolo che abbozzava anche lui. Un po' bestialotto era.
Se fosse stato figlio mio! Basta.
Quante ne patì,
povera creatura di Dio, la Poponé!
A sessant'anni -
bisognava vederla - non un pelo bianco. Pareva una madonnina di cera,
linda linda, coi capelli gremiti e fresca nelle carni più di una ragazza
di quindici. Vestiva, come tutte le poverette, di baracane; ma ogni
casacchina addosso a lei pareva di seta: tanto bel portamento aveva, con
un che di civile. Tutti le davano passo appena la vedevano. Mi ricordo le
mani, che finezza! Parevano un velo di cipolla. E sì che avevano faticato
quelle mani!
Non c'era neanche da
dire che la nuora si dispendiasse per lei, che pure aveva ceduto in vita
al figliuolo tutto quanto possedeva: la casetta e una piccola chiusa,
sotto le Fornaci. Campava ancora sul suo, facendo novene e recitando
rosarii per conto dei divoti che venivano a trovarla fino a casa da miglia
e miglia lontano, e la compensavano delle grazie che riusciva a impetrare
dalle anime sante del Purgatorio, con le quali durante la notte era in
comunione.
Se ne vedevano le
prove ogni giorno.
Una volta - consta a
me - una povera madre venne a trovarla per un figliuolo ch'era in America
e non le scriveva più da tre mesi.
- Ritornate domani,
- le disse la Poponé.
E il giorno appresso
le annunciò che il figliuolo non le aveva più scritto perché era in
viaggio di ritorno, e che già era arrivato a Genova e tra pochi giorni lo
avrebbe riabbracciato.
Così fu. Guardate:
lo dico, e mi s'aggricciano ancora le carni. Santa! santa! era proprio una
santa la Poponé!
- Ma questo miracolo
dell'Angelo Centuno? - le domandò Sebastiano Terilli.
- Ecco, ci vengo
adesso, - rispose donna Gesa. Per avere un po' di requie dai continui
dispetti della nuora, un giorno la Poponé pensò di recarsi per qualche
settimana al vicino paese di Favara, dove aveva una sorella, vedova come
lei.
Ne chiese licenza al
figliuolo e, avutala, andò da un compare del vicinato, che si chiamava
zi' Lisi, per chiedergli in prestito una vecchia asinella che egli aveva,
un po' tignosa, ma tranquilla come una tartaruga.
Sapeva bene la
Poponé che a lei, zi' Lisi, non l'avrebbe negata, quantunque per quella
sua asina avesse tanto amore che non aveva più pace per tutto un giorno
se essa la mattina non beveva intero il suo solito bugliolo d'acqua. Era
un vecchio curioso, questo zi' Lisi. Tutti sparlavano di lui, nel
vicinato, per via di quella sua asina. Ogni mattina, le reggeva con le
mani davanti al muso il bugliolo, invitandola col fischio a bere per una o
due ore, tante volte; e guaj se le vicine, infastidite da quel fischio
lamentoso, persistente, gli gridavano che la smettesse!
Vedovo come la
Poponé, da tanti anni le stava attorno desideroso di mettersi con lei.
- Statevi zitto,
santo cristiano! - gli dava sempre su la voce la Poponé; e si faceva il
segno della croce, ché le pareva una tentazione del diavolo.
Quel giorno ella
aspettò davanti al cortile acciottolato, dove zi' Lisi aveva la casa e la
stalla; aspettò un bel pezzo che il vecchio finisse di fischiare, tra gli
sbuffi di tutte le vicine che la spingevano ad entrare, dicendole:
"Su, su, se entrate voi, la smette!".
Alla fine il vecchio
la smise, ed ella entrò nel cortile.
L'asina? Ma subito!
Anche per un mese l'avrebbe prestata a lei, anche per un anno, e magari
gliel'avrebbe donata, e tutto le avrebbe donato, tutto quanto possedeva,
se...
- Daccapo, vecchio
stolido? statevi zitto! Mi bisogna per una settimana. Debbo andare da mia
sorella, alla Favara.
Com'egli intese
proferire quel nome di Favara, spiritò, e cominciò a dire che mai e poi
mai avrebbe consentito ch'ella andasse sola a quel paese d'assassini, dove
ammazzare un uomo era come ammazzare una mosca. E le raccontò che un
favarese, una volta, per provare se la carabina era ben parata, fattosi
all'uscio di strada, la aveva scaricata sul primo che aveva veduto
passare; e che un carrettiere di Favara, un'altra volta, dopo aver fatto
montare sul carretto un ragazzino di dodici anni incontrato di notte lungo
lo stradone, lo aveva ucciso nel sonno, perché aveva inteso che gli
sonavano in tasca tre soldi; lo aveva sgozzato come un agnello, povero
piccino; s'era messi in tasca i tre soldi per comperarsene tabacco; aveva
buttato il cadaverino dietro la siepe, e arrì! a passo a passo, cantando
aveva seguitato ad andare, sotto le stelle del cielo, sotto gli occhi di
Dio che lo guardavano. Ma l'animuccia del povero ucciso aveva gridato
vendetta, e Dio aveva disposto che lui stesso, il carrettiere, arrivato
all'alba alla Favara, invece di recarsi alla carretterìa del padrone, si
fermasse davanti al posto di guardia e coi tre soldi nella mano
insanguinata si denunziasse da sé, come se parlasse un altro per bocca
sua.
- Vedete che può
Dio? - gli disse allora la Poponé. - E perciò io non ho paura!
Zi' Lisi insistette
per accompagnarla; ma lei tenne duro; gli disse che avrebbe preso in
affitto l'asino da qualche altro; e allora egli cedette e le promise che
il giorno appresso, all'alba, l'asinella sarebbe stata davanti alla porta
di lei, con la bardella e tutto.
Ora avvenne, che di
notte zi' Lisi, col pensiero dell’asina da approntare per l'alba, si
svegliò. C'era un gran chiaro di luna, e gli parve giorno. Saltò dal
letto, sellò l'asina in un amen e la condusse alla casa della Poponé.
Bussò alla porta e disse:
- L'asina è qua,
gna' Poponé. L'ho legata all'anello. Il Signore e la bella Madre vi
accompagnino.
La Poponé, zitta
zitta, per non svegliare la nuora, il figliuolo e i nipotini, prese a
vestirsi. Ma solita di levarsi alla punta dell'alba, non si capacitava,
col silenzio che regnava tutt'intorno, che quella fosse l'ora di partire.
- Sarà! - disse. -
M'avrà gabbata il sonno.
E uscì col
fagottello sotto la mantellina. S'accorse subito, guardando il cielo, che
quella non era alba, ma chiaro di luna. Tutto il paesello dormiva
tranquillo; dormiva anche l'asinella in piedi, legata lì, all'anello
accanto alla porta.
- O Gesù mio, -
disse la Poponé. - Che stolido, quello zi' Lisi! Debbo mettermi in
cammino, di notte? Mah! Sono vecchia, c'è la luna; e non ho niente da
perdere. Le animucce sante del Purgatorio mi accompagneranno.
Montò su
l'asinella, si fece il segno della croce e s'incamminò.
Quando fu un buon
tratto lontana dal paese, nello stradone, tra le campagne sotto la luna,
andando lentamente su l'asinella, si mise a pensare a quel ragazzino
sgozzato e buttato lì, dietro la siepe polverosa, povera creaturina di
Dio; a tanti altri ammazzamenti e male vendette pensò, che si
raccontavano della Favara, e intanto proseguiva con la mantellina in capo
tirata fin su gli occhi per impedirsi di guardare le ombre paurose della
campagna di qua e di là dello stradone, ove la polvere era così alta,
che non faceva neanche sentire il rumore degli zoccoli dell'asinella.
Tutto quel silenzio
e quel suo andare, e la luna e quella via lunga e bianca le parevano un
sogno.
- O Animucce sante
del Purgatorio, - diceva tra sé, - a voi mi raccomando!
E non smetteva un
momento di pregare.
Ma, o fosse la
lentezza del cammino, o la sua debolezza, o che, o come, a un certo punto,
forse la vinse il sonno. La Poponé non lo seppe mai dire; ma il fatto è
che ai due lati dello stradone, a un certo punto, svegliandosi, si trovò
due lunghe file di soldati. In testa, nel mezzo dello stradone, andava a
cavallo il capitano.
La Poponé, appena
li vide, si sentì riconfortare, e ringraziò Dio, che proprio in quella
notte del suo viaggio aveva disposto che quei militari dovessero recarsi
anch'essi alla Favara. Le faceva però una certa meraviglia che tanti
giovinotti di vent'anni non dicessero nulla vedendo in mezzo a loro una
vecchia come lei, su un'asina vecchia più di lei, che non doveva fare
certamente una bella figura, per lo stradone a quell'ora.
Perché così in
silenzio, tutti quei soldati?
Non si sentivano
nemmeno camminare e non sollevavano neanche un po' di polvere. La Poponé
ora li mirava sbigottita, non sapendo che pensarne. Le parevano ombre,
sotto la luna; eppure erano veri, soldati veri, sì, col loro capitano
là, a cavallo. Ma perché così silenziosi ?
Il perché lo seppe,
quando fu in vista del paese, sul primo albeggiare. Il capitano a un certo
punto fermò il cavallo e aspettò ch'ella lo raggiungesse.
- Maragrazia Ajello,
- le disse allora, - io sono l'Angelo Centuno, di cui sei tanto divota, e
queste che ti hanno scortata fin qui sono anime del Purgatorio. Appena
arrivata, mettiti in regola con Dio, ché prima di mezzogiorno tu morrai.
Disse e scomparve
con la santa scorta.
Quando la sorella,
alla Favara, si vide arrivare in casa la Poponé, bianca, come di cera, e
stralunata:
- Maragrà, che hai?
- le gridò.
E lei con un filo di
voce:
- Chiamami un
confessore.
- Ti senti male?
- Devo farmi le cose
di Dio. Prima di mezzogiorno morirò.
E così fu, difatti.
Prima di mezzogiorno morì. E tutto il popolo di Favara scasò a vedere la
santa che l'Angelo Centuno e le anime del Purgatorio avevano scortata
quella notte fino alle porte del paese».
Donna
Gesa tacque. Tacemmo, ammirati, io e il Gaglio e Monsignore, suo padrone.
Ma Sebastiano Terilli, scrollandosi, esclamò:
- All'anima del
miracolo! È questo il miracolo? E che miracolo è questo? Ma scusate...
Miracolo? Perché miracolo? Ammettiamo tutto: ammettiamo che la poveretta
non sia morta veramente di paura, e che quella non sia stata
un'allucinazione spiegabilissima in una che credeva di parlare ogni notte
con le anime del Purgatorio e con quest'Angelo Centuno; ammettiamo che
l'angelo le sia apparso per davvero e le abbia parlato. Ebbene? Altro che
miracolo! Questa è crudeltà feroce. Annunziare imminente la morte a una
poverina! Ma noi tutti, scusate, noi tutti possiamo vivere solo a patto
che...
Celestino Calandra
protese le mani per rispondergli, e l'eterna discussione si riaccese più
calorosa che mai.
Ma la fede, la fede!
non si doveva tener conto della fede, di cui si nutre e s'appaga la povera
gente? Gli uomini così detti intellettuali non vedono, non sanno veder
altro che la vita, e non pensano mai alla morte. La scienza, le scoperte,
la gloria, il dominio! E si domandano come faccia a vivere senza tutte
queste belle e grandi cose la gente del popolo, quella che zappa la terra
e che appare loro condannata alle più dure e umili fatiche; come faccia a
vivere e perché viva; e la stimano bruta, perché non pensano che una ben
più grande idealità, di fronte alla quale diventano vane e ridicole
miserie tutte le scoperte della scienza e il dominio del mondo e la gloria
delle arti, vive come certezza irrefragabile in quelle povere anime e
rende loro desiderabile come un giusto premio la morte.
Chi sa quanto si
sarebbe protratta quella discussione sul miracolo dell'Angelo Centuno, se
un altro miracolo, e questo vero, autentico, indiscutibile, non la avesse
a un tratto troncata.
Stefano Traìna, col
fucile da caccia in pugno, si precipitò nella sala da pranzo tutto
ansante, esultante, col volto paonazzo, congestionato, sgraffiato,
affumicato.
Era riuscito
finalmente a uccidere uno storno!
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