MUSICA
VECCHIA
Davanti allo specchio, in gran fretta, tutta impacciata
tra tante bocce boccette pomate calamistri, la signorina Milla finiva
d'acconciarsi i capelli, quando udì il campanello della porta.
- Ih che furia!
E corse a chiuder
l'uscio della camera che dava nella saletta d'ingresso. Appena chiuso, lo
riaprì e, sporgendo il capo, disse piano alla servetta che accorreva alla
scampanellata:
- Fa' passare,
Tilde. E di' che aspetti un momentino.
Ritornata davanti
allo specchio, si sorrise.
Un po' di sangue le
era affluito alle guance; niente, a confronto delle caldane d'una volta;
ma pur quel poco, ecco, le rianimava tutto il visetto sciupato di vecchia
bambola dagli occhi troppo grandi, dal nasino troppo piccolo.
E nel volto così
rianimato, non le stava ora quasi per grazia quel ciuffetto di capelli
bianchi rialzato su la fronte, lì proprio nel mezzo? La signorina Milla
alzò la mano per carezzarselo col pettine. Il gesto però le rimase a
mezzo.
Chi parlava nella
saletta d'ingresso?
Non poteva esser lui,
di certo. Quando entrava lui, tremava il pavimento.
Poco dopo, Tilde,
con la scuffietta in capo e il grembiulino bianco su la veste nera, venne
a presentarle un biglietto da visita. La signorina Milla vi lesse un nome
sconosciuto: Maestro Icilio Saporini; guardò accigliata la
servetta.
- E chi è?
- Un vecchietto
piccolo piccolo, pulito pulito.
- Un vecchietto? E
che vuole? - tornò a domandare la signorina Milla, infastidita. - Ma non
sai che devo uscire col signor Begler? Credevo che fosse lui. Ora come si
fa?
- Posso dirglielo...
- Che vuoi più
dirgli adesso? Chi è? che vuole da me?
- Mah! - fece Tilde,
stringendosi nelle spalle. - Parla tanto curioso... con un vocino di
zanzara... Mi ha chiesto se stava qua la signora Margherita.
- La mamma? - domandò
con un sussulto la signorina Milla.
- Già, se era
ancora viva, - rispose Tilde. - Io gli ho detto che...
Una nuova
scampanellata più forte troncò la risposta.
- Quest'è lui! -
scappò detto alla signorina Milla; poi, correggendosi: - il signor Begler.
La servetta sorrise
sotto sotto. La signorina Milla richiuse l'uscio. Poco dopo, dal
pianoforte del salotto venne una tempesta fragorosa di note: il segnale
ansioso d'Isotta nel secondo atto del Tristano. Il signor
Begler la chiamava ogni volta così.
Accorse. Oh Dio...
no, piano, piano! - Ma che piano! Balzando dal seggiolino del pianoforte,
il signor Begler le si precipita incontro con le braccia levate, grosso,
azzampato, il cappellaccio ancora in capo, ammaccato, rincalcato fino alla
nuca. Dalle tese a spera, schizza tondo e irto di peli rossicci il
faccione brozzoloso, paonazzo, in cui ghignano impudenti gli occhi.
- E il kappello?
senza kappello? Subito il kappello!
La signorina Milla
parò le mani in difesa, sorridendo, e nella penombra del salotto, ove
oltre al pianoforte erano altri strumenti a corda e varii leggìi da
musica, accennò all'altro ospite, di cui ancora il signor Begler non
s'era accorto.
Il maestro Icilio
Saporini se ne stava tutto ristretto in sé, piccino piccino, lisciandosi
con una mano guantata, che non pareva nemmeno, la rada zazzeretta
argentea.
- Il maestro... il
maestro... - disse la signorina Milla, non ricordandosi più il nome per
far la presentazione.
- Saporini Icilio...
- suggerì, a due riprese, con un fil di voce il vecchietto, e strisciò
una riverenza.
- Saporini, già! Il
maestro Icilio Saporini, - ripeté la signorina Milla. - Il violoncellista
Hans Begler. S'accomodino.
Ma il Begler:
- Nein, nein! -
miagolò, accennando appena appena di togliersi il cappellaccio. - Nein,
nein! krazie, pella mia! Niente akkomodo io; fado fia, fado fia! Non
voghlio pértere konzerto per fisita questo sigh-nore. Krazie, pella mia!
Riferisco, riferisco, karo sigh-nor.
E, inchinandosi due
volte goffamente, scappò via a tempesta, com'era venuto.
La signorina Milla,
conoscendone la furia, non si provò neanche a trattenerlo; mortificata,
contrariata, afflitta, guardò il vecchietto, il quale, venendo così per
caso a sapere che ella doveva recarsi a un concerto con quel signore,
cominciò a storcersi tutto come un cagnolino, per scongiurarla d'andare:
per carità, non si sarebbe dato pace, altrimenti, d'esser capitato in un
momento così poco opportuno.
- Su, su, il
cappellino, il cappellino. Raggiungeremo il signore con una vettura. La
accompagnerò io fino alla sala. Mi faccia questa grazia, per carità!
- Ma io vorrei prima
sapere...
- Dopo, dopo...
- Lei ha chiesto
della mamma, - disse la signorina Milla. - Ma non c'è più la mamma!
- Eh, me... me
l'immaginavo, - balbettò il vecchietto. - Non dovrei esserci più,
veramente, neanche io... Ottantun anni!
- Ottantuno? -
esclamò la signorina Milla. - La mamma è morta da sei anni.
E, levando una mano
a indicare il ritratto fotografico appeso alla parete:
- Eccola là.
Il maestro Icilio
Saporini alzò gli occhietti che quasi gli sparivano fra le borse delle pàlpebre,
e rimase un pezzetto a rimirare quel ritratto di vecchia incuffiata, che
evidentemente non gli diceva nulla: scosse il capo, e con un sorriso
afflitto cominciò a balbettare:
- No... non mi...
non mi... Quella, no... eh!... io, sa? io... no, no!
Così balbettando,
con due dita si stirava il colletto, come se tutt'a un tratto se ne
sentisse serrar la gola. Diede un'ingollatina e riprese:
- Lei, lei
piuttosto... ecco, sì, lei... me la... me la richiama viva.
- Io? proprio? -
domandò meravigliata la signorina Milla. - Ma no, sa! Io non somiglio
punto alla mamma... Ma che!
Il vecchietto scosse
un dito.
- Non può saperlo,
- bisbigliò. - Lei guarda ai lineamenti.. Ma la luce degli occhi?... le
mosse?... il sorriso?... la voce?... Io ho conosciuto la sua mamma molto,
molto prima di lei, signorina, in ben altri tempi! E lei non può... non
può comprendere quello che io provo in...
Non poté seguitare;
trasse un fazzoletto e se lo recò agli occhi. Fu un momento. Si riprese
subito e costrinse di nuovo la signorina Milla a prendere e a mettersi il
cappellino per arrivare a tempo al concerto. In vettura, le avrebbe dato
notizia di sé.
Che notizia? La
signorina Milla ne poté capire ben poco, quel giorno; e ne incolpò la
sua ansia d'arrivare al concerto, l'esilissima voce del vecchietto, il
frastuono della vettura. Ma poi? Da altre notizie raccolte riposatamente,
nel silenzio del salottino, con tutta la buona volontà, non riuscì mai a
comporsi chiaramente la storia (che voleva parer molto avventurosa e piena
di strane vicende) di quel vecchietto. Il quale, mettendosi ogni volta a
parlare di sé, pareva non sapesse da qual parte rifarsi, come se tuttavia
si sentisse lontanissimo, e per arrivare a dir chi era dovesse fare un
cammino infinito, attraverso a vie remotissime, intricate, irte d'intoppi,
di siepi e tra una folla innumerevole che lo tirava di qua, di là, e gli
sbarrava il passo di continuo.
- Eh, ma poi... -
sospirava - poi c'era... sicuro... e quando io... sì, perché quello là,
come si chiamava?... quello là... no, veramente fu un altro...
quell'altro, prima che...
Si confondeva, si
smarriva fra tanti minuti particolari, citando nomi ignoti, luoghi spariti
o mutati, testimonianze di cose morte, che accompagnava con esclamazioni e
sorrisi e gesti, come se a mano a mano vedesse e toccasse quel che diceva,
o piuttosto che bisbigliava.
Certo era questo,
che aveva ottantun anni; che a poco più di venti, cioè nel 1849, alla
caduta della repubblica, aveva abbandonato Roma e l'Italia, e che vi
ritornava adesso, dopo circa sessanta anni passati in America, a New York.
Teneva molto a far
comprendere che si era compromesso allora più d'un po' nei moti
rivoluzionarii... Eh, sì, dopo il famoso voltafaccia!
- Il voltafaccia di
chi?
- Come di chi? Ma di
Pio IX, santo Dio!
La signorina Milla
lo guardava con gli occhi di bambola, sbarrati. Sentendo ricordare tanti
fatti, e personaggi, tutti così uno più « famoso » dell'altro, s'era
accorta ch'era proprio deplorevole la sua ignoranza di storia
contemporanea. E forse per questo non riusciva a intendere come e perché
si fosse compromesso il maestro Icilio Saporini.
C'era di mezzo la
musica, senza dubbio: un certo inno patriottico. E c'era di mezzo anche un
certo zio Nando. Sicuro. Uno zio Nando, rientrato in Roma nel 1846, dopo
il famoso editto...
Altro sbarramento
d'occhi della signorina Milla. Che editto? Ma quello del perdono,
perbacco! il famoso editto del perdono, col quale Pio IX, tra tanti
delirii di entusiasmo, aveva dato principio al suo regno, accordando piena
amnistia a tutti i condannati ed esuli politici dello Stato pontificio.
- E anche allo zio
Nando?
- Anche allo zio
Nando, sicuro!
Ora, in casa di
questo zio Nando pareva si raccogliessero i più ferventi patrioti
d'allora. Il guajo era che il maestro Icilio Saporini li chiamava tutti
per nome, questi ferventi patrioti. Diceva:
- Pietro... eh,
Pietro... valente medico, valente poeta...
Chi fosse questo
Pietro, valente medico, valente poeta, la signorina Milla dovette stentare
un pezzo a capire. Ma Pietro Sterbini, santo Dio! il dottor Pietro
Sterbini, quello della famosa congiura contro Pellegrino Rossi!
- Ecco, sì... fu Pescetto
che gli diede prima un urtone, un semplice urtone, qua, nel vestibolo
della Cancelleria, Pescetto, cioè... come si chiamava di nome?
Filippo... no, Pippo era un altro della congiura... Eh sì, Pippo!...
Pippo Trentanove... Pescetto si chiamava Antonio Ranucci. Sì,
ecco: Antonio, un urtone; e Giggi, Luigi Brunetti, figlio di
Ciceruacchio, prima un pugno in faccia e poi, là, una coltellata alla
gola... Ma chi li aveva messi su, la sera del 14, all'osteria del Fornajo,
a Ripetta? Lui, Pietro, Pietro Sterbini; mentre la polizia si aspettava la
botta da quelli della salita di Marforio congiurati per ridere, i fratelli
Facciotti, Gennaro Bomba, Salvati e Toncher, che faceva la spia. Ma erano
tutti... sa? come tante girandole apparecchiate, erano; e lui, Pietro.
Pietro era la colombina che le incendiava tutte.
Così raccontava il
maestro Icilio Saporini col suo vocino di zanzara. E quel Pietro entrava
in tutti i suoi racconti. Già alla signorina Milla pareva proprio di
potergli stringere la mano, a Pietro, e farlo sedere lì, su una
poltroncina del salotto.
Neanche a dirlo, era
dovuta anche a Pietro l'unica e non ben chiara compromissione del maestro
Icilio Saporini negli affari politici dal 1846 al 1849. Sì, perché
Pietro per la famosa ricorrenza del 21 aprile 1846, natale di Roma,
dovendosi tenere una gran festa alle Terme di Tito, su all'Esquilino, per
inneggiare al divino Pio IX, esaltato allora come secondo fondatore
dell'eterna città, Pietro, valente medico, valente poeta, aveva composto
un bellissimo inno, breve, di due strofette, con un ritornello:
Eri caduta; lévati, Madre di tanti eroi...
Se
le ricordava ancora parola per parola il maestro Icilio Saporini! E il
ritornello:
Tu vivi in Campidoglio,
Tu sei regina ancor.
Basta:
era venuto a leggerlo (Pietro) in casa di zio Nando, questo suo inno,
pochi giorni avanti.
Dice (sempre lui,
Pietro):
- Tu, Icilio! - dice
- ti sentiresti di musicarlo? - dice. - Lo canteranno - dice - gli
studenti.
Il maestro Icilio
Saporini aveva, sì e no, diciott'anni, allora; non aveva ancor preso il
diploma all'Accademia ma il sentimento stesso... eh, tutta l'anima gli
cantava, in quei giorni! Ci s'era messo, e in una notte lo aveva musicato.
Se non che Pietro...
un vero tradimento! Dice:
- Figliuolo mio,
Magazzari, il maestro Magazzari s'è profferto - dice - di musicarlo lui!
E il 21 aprile alle
Terme di Tito su l'Esquilino, alla presenza di ottocento convitati, era
stato cantato l'inno musicato dal Magazzari
Ma allora? Anche
ammesso che potesse considerarsi come una seria compromissione politica
l'aver musicato un inno, quando ancora Pio IX si compiaceva degli osanna
dei liberali, il Magazzari, se mai, non lui poteva essersi compromesso...
Ma! La signorina Milla non poté capirci più che tanto.
Del maestro
Magazzari ella aveva sentito parlar più volte dalla madre che fino agli
ultimi anni aveva serbato memoria di tutti i fatti e gli uomini,
specialmente del mondo musicale romano d'allora: il nome del maestro
Icilio Saporini non era venuto mai fuori dalle labbra di sua madre. E
dunque agli occhi della signorina Milla il maestro Icilio Saporini
rimaneva non solo nel presente, nella Roma d'oggi, uno sperduto che non
riusciva a trovar posto; ma anche nel passato, in quel mondo d'allora,
com'ella attraverso le notizie e le memorie della madre se l'era
immaginato. Neanche in quel mondo ella riusciva a trovargli posto; certo
perché egli non aveva saputo farselo né nel cuore, né nella memoria
della madre. Come niente era adesso, niente era stato di certo anche
allora.
A dir vero, il
Saporini non si dava alcun vanto. Una punta d'invidia e di gelosia la
mostrava ancora per il Magazzari; e pregato insistentemente dalla
signorina Milla sonò, o meglio, accennò sul pianoforte una frase... non
tutto l'inno famoso... la frase che accompagnava i due versi della seconda
strofetta di Pietro:
A te lo scettro, il soglio,
A te l'eterno allor...
ma
soltanto per far vedere quant'era più solenne, più maestosa, più
ispirata di quella del Magazzari. E basta.
Che aveva poi fatto
là, in America, per sessant'anni di fila? Eh, da quella zazzeretta
argentea era facile indovinarlo! Il maestro di musica italiano, come lo
intendono degli italiani, tutti i signori forestieri, aveva fatto! Cioè,
uno che strimpelli sulla chitarra, zazzeruto e con gli occhi imbambolati,
l'antica e da noi dimenticata canzonetta di Santa Lucia:
Sul mare luccica
l'astro d'argento...
E,
a giudicar dall'apparenza, la professione del maestro di musica italiano
doveva aver fruttato bene; il maestro Icilio Saporini doveva aver raccolto
una discreta sommetta, con la quale aveva potuto attuare il sogno, chi sa
quanto vagheggiato là, di venire a chiudere gli occhi in patria. Ma
forse, povero vecchiettino, si figurava di ritrovar Roma quale l'aveva
lasciata nel 1849.
Roma, la sua Roma,
quella che viveva per lui, nei suoi ricordi lontani, era invece sparita;
scomparsi, morti, tutti i conoscenti della sua generazione.
Arrivando da
lontano, da tanto lontano, non s'immaginava certo di dover trovarsi
davanti a un'altra lontananza irraggiungibile: quella del tempo.
Dov'era giunto?
Dalla Roma d'oggi a
quella della sua gioventù, quanto cammino!
E s'era messo,
appena arrivato, per questo cammino, a ritroso, con l'animo pieno
d'angoscia, a cercar nella Roma d'oggi le tracce dell'antica vita.
Ora, passando per
via del Governo Vecchio, s'era ricordato che vi stava il maestro Rigucci
al numero 47, il maestro Rigucci dell'Accademia, che aveva una figliuola
tanto bella, Margherita, sonatrice di arpa esimia... Chi sa! Poteva esser
viva ancora! Ma era possibile che stésse ancora lì di casa? Era già una
fortuna aver ritrovato, nella vecchia via, ancora in piedi, la casa. Non
solo le case, ma anche tante e tante vie erano scomparse! Aveva salito la
scala, solamente per il piacere di rimettere il piede su quei gradini
della scala antica, umida, semibuja. Sul pianerottolo del secondo piano si
era fermato e, guardando alla porta di mezzo... ah che balzo gli aveva
dato il cuore in petto! La vecchia targa ovale, di rame, che recava il
nome di Rigucci, era ancora li, sotto a un'altra, meno vecchia, col
nome di Donnetti. E dunque stava li ancora? ah, lui, il maestro, no
di certo; ma lei, Margherita? E aveva tirato il pallino del campanello.
Eccola là,
Margherita, la fanciulla tanto, tanto bella, esimia sonatrice d'arpa:
quella vecchietta incuffiata, rinsecchita del ritratto...
Ma che era stata per
lui un giorno quella vecchietta?
La signorina Milla
aveva veduto commuoversi fino alle lagrime il maestro Icilio Saporini,
guardando quel ritratto, ma tuttavia credette di poter concludere che sua
madre, da giovane, non era stata mai altro per lui che la figlia del
professor Rigucci dell'Accademia. Forse, si, egli era stato qualche volta
nella casa del nonno, perché sapeva dire di tanti che vi convenivano;
delle famose serate musicali che vi si tenevano in onore dei più
celebrati maestri del tempo; delle fervide simpatie di cui godeva
Margherita Rigucci, allora giovinetta e bellissima. Fors'anche,
studentello, chi sa! s'era innamorato anche lui della figlia del
professore; ma innamorato per conto suo, senza lasciare alcun ricordo,
neppure del nome, in lei.
La commozione si
spiegava forse così: che in quella casa finalmente, dopo tanti giorni di
vana e amarissima ricerca, il povero vecchietto sperduto era riuscito a
rintracciare un vestigio della vita antica, un posticino ove sedere, dopo
tanto cammino, senza sentirsi estraneo del tutto.
Ma il piacere d'aver
ritrovato questo posticino, questo cantuccio dei ricordi, cominciò in
breve a essergli amareggiato da quel pianoforte li, da quegli altri
strumenti musicali, che lo intronavano, che lo intontivano addirittura,
con certe zuffe di suoni, ire di Dio, che facevano andare in visibilio
tutti quei signori, stranieri per la maggior parte, che si riunivano nel
salotto antico del
maestro Rigucci, del
maestro Rigucci adoratore di Rossini! E più di tutti facevano andare in
visibilio la signorina Milla Donnetti, la nipote del maestro Rigucci, la
figlia di Margherita Donnetti-Rigucci!
Non diceva nulla, ma
gli pareva una vera profanazione quella musica, lì, in quel salotto, che
sapeva le divine melodie della più schietta musica italiana. Non diceva
nulla, si faceva anzi più piccino che poteva, su la seggiola, e di tratto
in tratto levava la manina guantata a lisciarsi, dietro, la zazzeretta, e
alzava gli occhi al ritratto della sua vecchia Margherita.
La signorina Milla
lo vedeva con la coda dell'occhio e frenava a stento una risatina. Una
sera gli sedette accanto e gli domandò:
- Non le piace? Non
si diverte?
- Dico la verità, -
le rispose piano, con un sorrisetto, - io... io guardo là... quella mia
vecchietta là...
- Me ne sono
accorta!
- Sì? La guardo e...
sento cantar Rosina del Barbiere, sento cantare Amina...
- Eppure, sa? - gli
disse allora la signorina Milla. La mamma con gli anni si era... evoluta,
convertita, eh sì! convertita alla musica nuova.
- A questa? - chiese
così sbigottito il vecchietto, che la signorina Milla non poté frenare
questa volta la risata.
- Tradimento?
- Ma... ecco...
scusi... - rispose egli, tutto imbarazzato. - Capisco, capisco bene che
possa piacere a codesti signori forestieri: è la loro musica; la sentono
così, amen! Ma noi? Abbiamo la nostra, le glorie nostre: Paisiello,
Pergolesi, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi...
Quella bufera del
signor Begler, a cui la mattina seguente la signorina Milla riferì le
amare rimostranze del vecchiettino, quando fu la sera, per fargli uno
scherzo a suo modo, d'accordo con gli amici che componevano il quartetto,
interruppe, a un certo punto, non so che languida diavoleria del
Ciaicovski che pareva l'incubo d'un malato che ci avesse i cani in corpo,
lasciò il violoncello, saltò al pianoforte e attaccò furiosamente
l'aria del Rigoletto: "Questa o quella per me pari sono".
Tutti scoppiarono a
ridere. Il maestro Icilio Saporini si guardò prima attorno stordito, poi
impallidì: forse sarebbe riuscito a dominarsi, se il Begler, rigirandosi
di furia sul seggiolino a vite del pianoforte, non avesse gridato a tutti
quelli che ridevano:
- Ma perché? Ma
pellissima musika da persaghlieri questa! Pellissima! pellissima!
- La musica di
Verdi, musica da bersaglieri? - disse allora il vecchietto, levandosi in
piedi, tutto fremente d'indignazione nell'esigua personcina. - Ma io
allora ho l'onore di dirle che lei, caro signore, non capisce nulla! che
lei non ha... non ha...
E con la mano, poiché
la voce gli mancò, si mise a picchiarsi il petto, dalla parte del cuore.
- Vorrei aver
vent'anni di meno, - disse poi, mostrando le dita delle manine che gli
tremicchiavano, per farle sentire la musica vera...
- Col pirolì?
- domandò il Begler. - Qua, qua, fenga qua... lei, pella mia.
E andò a strappare
dalla seggiola la signorina Milla; la fece sedere a forza al pianoforte, e
le impose:
- Sonate musika
fostra!... tutta musika fostra!... io skommetto di mettere sempre in tutta
musika fostra il pirolì.
E fece con tre dita
uno sgambetto sui cantini del pianoforte.
- Così!
Risero tutti di
nuovo. Il maestro Icilio Saporini sperò per un attimo che la signorina
Milla, la nipote del maestro Rigucci, non si prestasse a quello scherzo
indegno. Felicissima invece, la signorina Milla si diede a sonare questo e
quel pezzo delle opere italiane più famose; e pareva che scegliesse
apposta quelli in cui più facilmente quel tedescaccio potesse cacciare il
suo pirolì. E, ogni volta, uno scroscio di risa. Mira, o Norma,
pirolì... ai tuoi ginocchi, pirolì.
Il vecchietto
dovette fare un violento sforzo su se stesso per non scappar via; finse di
ridere anche lui, per non dare a vedere d'aversi a male di quello scherzo;
andò parecchie altre sere, puntuale, alle riunioni in casa della
signorina Donnetti; poi diradò le visite, con la scusa della fredda
stagione e dell'età avanzata; infine non andò più.
Ora un giorno la
signorina Milla, cercando tra le vecchie carte della mamma, scoprì un
foglio di musica ingiallito, spiegazzato, scritto a mano; credette
dapprima fosse qualche bozza del nonno, e la buttò lì; finita la
ricerca, rimise nello scaffale tutto il fascio delle carte; ma quel foglio
di carta... come mai? eccolo lì di nuovo. Come se avesse voluto restar
fuori. Lo guardò meglio, e quale non fu la sua sorpresa nel trovarvi
un'arietta del maestro Icilio Saporini, allora forse non ancora maestro,
un'arietta dedicata alla mamma, alla divina Margherita Rigucci, su
i tenui versi del Metastasio:
Nelle luci
Tue divine
Pace alfine
Trova il cor...
Corse
al pianoforte e la lesse. Oh, non era niente: stentatuccia, pretenziosetta;
ma pure con certe ingenuità care, che facevano ridere e che commovevano a
un tempo. Forse la mamma aveva cantato, da giovane, quell'arietta. Si provò
a canticchiarla anche lei:
Nelle luci... nelle luci...
Nelle luci tue divine
Pace alfine
Pace alfine
Pace alfine trova il cor...
Lo
stesso giorno, mandò Tilde a chieder notizia del vecchiettino. Egli le
aveva detto che, dopo la lunga ricerca, aveva finalmente trovato stanza in
una vecchia casa di via Cestari, e le aveva descritto minutamente questa
stanza, la padrona di casa che aveva quasi i suoi anni, i mobili antichi,
un pianofortino nella stanza accanto, buono da sonarci ancora... la musica
vecchia, almeno.
Tilde, di ritorno,
le annunziò che il vecchietto era infermo e che da parecchie settimane
non usciva più di casa. La signorina Milla si propose di andarlo a
visitare; se lo propose per otto giorni di seguito; ma, purtroppo, non
trovò mai un momentino di tempo. Mandò di nuovo Tilde dopo gli otto
giorni; e Tilde questa volta venne a dirle che il povero vecchiettino era
proprio per andarsene.
C'era a visita quel
giorno il signor Begler; pur tuttavia la signorina Milla si commosse alla
notizia. Nella commozione, ebbe un pensiero gentile e lo comunicò al
signor Begler. Il signor Begler, con la boccaccia atteggiata al perpetuo
ghigno muto, lo approvò. Andarono insieme alla casa del vecchietto; ma né
l'uno né l'altra entrarono nella camera, ov'egli giaceva quasi inerte e
come di cera su i guanciali; si fermarono nella stanza ov'era il
pianofortino; la signorina Milla posò sul leggìo quel foglio di musica
ingiallito, rinvenuto tra le carte della mamma, e si mise a cantar piano
quell'antica arietta, quasi con voce che arrivasse da lontano:
Nelle luci
Tue divine
Pace alfine
Trova il cor...
Il
maestro Icilio Saporini, ai primi accordi, schiuse gli occhi e guardò la
vecchia padrona di casa, che sedeva vigile a piè del letto. Riconobbe la
sua arietta d'un tempo? Forse no. Ma la voce... quella voce...
Bisbigliò qualcosa,
con gli occhi velati di lagrime. Forse un nome:
- Margherita.
A un tratto, mentre
la voce di là seguitava a modular dolcemente: Nelle luci... nelle luci
tue divine... pace alfine... pace alfine... pace alfine trova il cor...
scattò stridulo, nei cantini, un beffardo PIROLÌ.
Il vecchietto ebbe
un sussulto; come colpito, riabbandonò il capo che aveva sollevato appena
dai guanciali, quasi attratto dal canto. E non lo rialzò più.
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