DONNA MIMMA I.
Donna Mimma parte Quando
donna Mimma col fazzoletto di seta celeste annodato largo sotto il mento
passa per le vie del paesello assolate, si può credere benissimo che la sua
personcina linda, ancora dritta e vivace, sebbene modestamente raccolta nel
lungo «manto» nero frangiato, non projetti ombra su l'acciottolato di
queste viuzze qua, né sul lastricato della piazza grande di là. Si
può credere benissimo, perché agli occhi di tutti i bimbi e anche dei
grandi che, vedendola passare, si sentono pur essi diventare bimbi a un
tratto, donna Mimma reca un'aria con sé, per cui subito, sopra e attorno a
lei, tutto diventa come finto: di carta il cielo; il sole, una spera di
porporina, come la stella del presepio. Tutto il paesello, con quel bel sole
d'oro e quel bel cielo azzurro nuovo su le casette vecchie, con quelle sue
chiesine dai campaniletti tozzi e le viuzze e la piazza grande con la
fontana in mezzo e in fondo la chiesa madre, appena ella vi passa, diventa
subito tutt'intorno come un grosso giocattolo di Befana, di quelli che a
pezzo a pezzo si cavano dalla scatolona ovale che odora di colla
deliziosamente. Ogni dadolino - e ce ne son tanti - è una casa con le sue
finestre e la sua veranda, da mettere in fila o in giro per far la strada o
la piazza; e questo dado qui più grosso è la chiesa con la croce e le
campane, e quest'altro la fontana, da metterci attorno questi alberetti che
hanno la corona di trucioli verdi verdi e un dischetto sotto, per reggersi
in piedi. Miracolo
di donna Mimma? No. È il mondo in cui donna Mimma vive agli occhi dei
piccoli e anche dei grandi che ridiventano subito piccoli appena la vedono
passare. Piccoli, per forza, perché nessuno può sentirsi grande davanti a
donna Mimma. Nessuno. Questo
mondo ella rappresenta ai bimbi quando si mette a parlare con essi e dice
loro come a uno a uno ella sia andata a comperarl lontano lontano. -
Dove? Eh,
dove! Lontano, lontano. -
A Palermo? A
Palermo, sì, con una bella lettiga bianca, d'avorio, portata da due belli
cavalli bianchi, senza sonagli, per vie e vie lunghe, di notte, al bujo. -
Senza sonagli perché? -
Per non far rumore. -
E al bujo? Sì;
ma c'è pure la luna, di notte, le stelle. Ma anche al bujo, sicuro! Si fa
pur notte, quando si cammina e cammina a giornate, per tanta via. E poi
sempre di notte s'arriva, al ritorno, con quella lettiga, e zitti zitti, che
nessuno veda, che nessuno senta. -
Perché? Ma
perché il bambinello comperato da poco non può sentire nessun rumore, ché
si spaventerebbe, e neppure può vedere in principio la luce del sole. -
Comperato? Come, comperato? -
Coi denari di papà! Tanti tanti. -
Flavietta? -
Ma sì, Flavietta più di duecent'onze. Più più. Con questi riccioletti
d'oro, con questa boccuccia di fragola. Perché papà la volle bionda così,
ricciutella così e con questi occhi grandi d'amore che mi guardano, gioja
mia, non mi credi? poche duecent'onze, per quest'occhi soli! Vuoi che non lo
sappia, se t'ho comperata io? E pure Ninì, sì certo. Tutti vi ho comperati
io. Ninì un pochino di più, perché maschietto. I maschietti, amore mio,
costano sempre un pochino di più; lavorano, poi, i maschietti e, lavorando,
guadagnano assai, come papà. Ma sapete che pure papà l'ho comperato io?
Io, io. Quand'era piccolo piccolo, certo! quando ancora non era niente!
Gliel'ho portato io, di notte, con la lettiga bianca alla sua mamma,
sant'anima. Da Palermo, sì. Quanto, lui? Uh, migliaja d'onze, migliaja! I
bimbi la guardano allocchiti. Le guardano quel fazzoletto bello, di seta
celeste, sempre nuovo, su i capelli ancora neri, lucidi, spartiti in due
bande che, su le tempie, formano due treccioline che passano su gli orecchi,
dai cui lobi, stirati dal peso, pendono due massicci orecchini a lagrimoni.
Le guardano gli occhi un po' ovati, dalle palpebre esili, guarnite di
lunghissime ciglia; la pallottolina del naso un po' venata, tra i fori
larghi violacei delle nari; il mento un po' aguzzo, su cui s'arricciano
metallici alcuni peluzzi. Ma la vedono come avvolta in un'aria di mistero,
questa vecchietta pulita, che tutte le donne chiamano, e anche la loro
mamma, la Comare,che quando viene a visita capita sempre che la mamma non
sta bene, e pochi giorni dopo, ecco, spunta un altro fratellino o un'altra
sorellina, che è stata lei ad andarli a comperare, lontano lontano, a
Palermo, con la lettiga. La guardano, le toccano pian piano, coi ditini
curiosi, un po' esitanti, lo scialle, la veste; ed è, sì, una vecchietta
pulita, che non pare diversa dalle altre; ma come può andare poi così
lontano lontano, con quella lettiga, e come l'ha lei, quest'ufficio nel
mondo, di comperare i bambini, e di portarli, i bambini, come la Befana i
giocattoli? Ma
essi, dunque... - che cosa? No, non sanno che pensare; ma sentono in sé,
vago, un po' del mistero che è in quella vecchietta, la quale è qua con
loro adesso, qua che la toccano, ma che se ne va poi così lontano a
prenderli, i bambini, e dunque anche loro... già... a Palermo, dove? dove
lei sa ed essi, piccoli, non sanno; benché certo, là, piccoli piccoli, ci
sono stati anche loro, se ella è andata a comperarli là... Istintivamente
con gli occhi le cercano le mani. Dove sono le mani? Lì, sotto lo scialle.
Perché non le mostra mai donna Mimma, le mani? Già! con le mani non li
tocca mai: li bacia, parla con loro, gestisce tanto con gli occhi, con la
bocca, con le guance; ma dallo scialle le mani non le cava mai per far loro
una carezza. È strano. Qualcuno, più ardito, le domanda: -
Non le hai, le mani? -
Gesù! - esclama allora donna Mimma, volgendo uno sguardo d'intelligenza
alla mamma come per dire: «E che è? diavolo, questo bambino?». -
Eccole qua! - soggiunge poi subito, mostrando le due manine coi mezzi guanti
di filo. - Come non le ho, diavoletto? Gesù, che domande! E
ride, ride, ricacciandosi le mani sotto e tirandosi con esse lo scialle su
su, fin sopra il naso, per nascondere quelle risatine, che, Dio liberi... Oh
Signore! le viene di farsi la croce. Ma guarda che cose possono venire in
mente a un bambino! Pajono
fatte, quelle mani, per calcare nello stampo la cera di cui sono formati i
Bambini Gesù che in ogni chiesa si portano su l'altare in un canestrino
imbottito di raso celeste la notte di Natale. Sente donna Mimma la santità
del suo ufficio, quanta religione sia nell'atto della nascita, e agli occhi
dei bimbi lo copre con tutti i veli del pudore; e anche parlandone coi
grandi non adopera mai una parola, che muova o diradi quei veli; e ne parla
con gli occhi bassi e il meno che può. Sa che non è sempre lieto, che
spesso anzi è così triste il suo ufficio d'accogliere nella vita tanti
esserini che piangono appena vi traggono il primo respiro. Può essere una
festa il bimbo ch'ella porta in una casa di signori; anche per il bimbo, sì;
benché non sempre neanche lì! Ma portarli - e tanti, tanti - nelle case
dei poveri... Gli piange il cuore. Ma è lei sola a esercitare, da circa
trentacinque anni, quest'ufficio nel paesello. O, per dir meglio, era lei
sola, fino a jeri. Ora
è venuta dal continente una smorfiosetta di vent'anni, piemontesa; gonna
corta, gialla, giacchetto verde; come un maschiotto, le mani in tasca:
sorella ancora nubile d'un impiegato di dogana. Diplomata dalla R. Università
di Torino. Roba da farsi la croce a due mani, Signore Iddio, una ragazza
ancora senza mondo, mettersi a una simile professione! E bisogna vedere con
quale sfacciataggine: per miracolo, quella sua professione, non se la porta
scritta in fronte! Una ragazza! una ragazza, che di queste cose... Dio, che
vergogna! E dove siamo? Donna
Mimma non se ne sa dar pace. Volta la faccia, si ripara gli occhi con la
mano appena la vede passare sculettando per la piazza, a testa alta, le mani
in tasca, la piuma bianca ritta al vento sul cappellino di velluto. E che
strepito fanno quei tacchetti insolenti sul lastricato della piazza: - Passo
io! passo io! Non
è donna quella: una diavola è! Non può essere creatura di Dio, quella! -
Come? la tabella? Ah
sì? ha fatto appendere la tabella col nome e la professione sul porticino
di casa? E si chiama? Elvira... come? signorina Elvira Mosti? Ci sta scritto
signorina? E che vuol dire diplomata? Ah, la patente. La vergogna patentata.
Dio, Dio, si può credere una cosa simile? E chi la chiamerà quella
sfacciata? Ma che esperienza poi, che esperienza può aver lei, se ancora...
in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. S'hanno da vedere di
queste cose ai giorni nostri? in un paesello come il nostro? Vih... vih...
vih... E
donna Mimma scuote in aria le manine coi mezzi guanti di filo come se si
vedesse lingueggiar davanti le fiamme dell'inferno. -
Nossignora, grazie, che caffè, signora mia! acqua, un sorso d'acqua mi
faccia portare; sono tutta sconcertata! - dice nelle case delle clienti, da
cui di tanto in tanto si reca a visita, o a fare, com'ella dice, «un'affacciata»,
per sapere... no? niente? Lasciamo fare a Dio, signora mia, ringraziato sia
sempre in cielo e in terra! Se
n'è fatta quasi una fissazione; non perché tema per sé, che le signore le
abbiano a fare un torto per quella lì; figurarsi se può temere una tal
cosa conoscendo che signore sono, col timore di Dio, con l'educazione del
paese e il rispetto delle cose sante! Neanche per sogno... -
Ma dico, dico, oh Vergine Maria, per la cosa in sé... questo scandalo...
una ragazzaccia... Dicono che parla come un carabiniere... che tutte le
parolacce le dice chiare, come se fosse una cosa naturale... È
tanto compresa della mostruosità dello scandalo, che non s'accorge
dell'impaccio afflitto con cui la guardano le signore. Pare che abbiano da
dirle qualche cosa e non ne trovino il coraggio. Oggi,
il medico condotto s'è voltato di là, vedendola passare. Non l'ha vista?
Ma sì, che l'ha vista! L'ha vista e s'è voltato. Perché? Viene
a sapere, poco dopo, che quella svergognata lì è andata a trovarlo a casa,
col fratello. Certo per raccomandarsi. Chi sa che moine gli avrà fatto,
come le sanno fare codeste forestieracce sbandite che nelle grandi città
del Continente hanno perduto il santo rossore della faccia; ed ecco che
questo rimbambito di medico... Il diploma? E che c'entra il diploma? Ah sì,
difatti, per il diploma! Ma via, che non si sanno queste cose? Due
smorfiette, due carezzine, e come la paglia pigliano fuoco, gli ominacci;
anche i vecchi adesso, senza timor di Dio! Che fa il diploma? che c'entra?
Esperienza ci vuole, esperienza. -
Eh, ma anche il diploma, donna Mimma, - le risponde sospirando il
farmacista, col quale, passando, s'è lagnata del voltafaccia del medico. -
E io che ho diploma forse? - esclama allora donna Mimma, sorridendo e
giungendo per le punte delle dita le due manine coi mezzi guanti di filo. -
E sono già trentacinque anni, trentacinque, che tutti quanti siete qua, e
pure voi, don Sarino, vi ho portati io, con la grazia di Dio, figliuoli
miei; che n'ho fatti di viaggi a Palermo! Ecco, ecco, guardate qua! E
donna Mimma si china a prendere tra quelle due manine che quasi non pajono,
ma che pure hanno tanta forza, un bel bimbone della strada, che s'è fermato
davanti la farmacia, e lo leva alto, nel sole. -
Anche questo! E quanti ne vedete, tutti io! Sono andata a comperarvi tutti
io, a Palermo, senza diploma! A che serve il diploma? Il
giovane farmacista sorride. -
Va bene, donna Mimma, sì... voi... l'esperienza, certo... ma... E
la guarda afflitto e impacciato e neanche lui ha il coraggio di farle
intravvedere la minaccia che le pende sul capo. Finché
dalla Prefettura del capoluogo le arriva una carta con tanto di stemma e di
bollo, mezza stampata e mezza scritta a mano, nella quale ella non sa legger
bene, ma indovina che si parla del diploma che non ha, e che ai sensi degli
articoli tali e tali... È ancora dietro a decifrarla, quella carta, che una
guardia la viene a invitare a nome del sindaco. -
La moglie? Così presto? - domanda donna Mimma, contrariata. -
No, al municipio, - risponde la guardia - per una comunicazione. Donna
Mimma s'acciglia: -
A me? per questa carta? La
guardia si stringe nelle spalle: -
Io non so; venite e saprete. Donna
Mimma va; e, al municipio, trova il sindaco, tutto imbarazzato. Anche lui è
stato comperato a Palermo da donna Mimma; e anche due figliuoli donna Mimma
è andata a comperare per lui a Palermo e presto per un terzo dovrebbe
mettersi in viaggio con la lettiga; ma... -
Ecco qua, donna Mimma! Vedete? Un'altra carta anche a noi, dalla Prefettura.
Per voi, sì. E non c'è nulla da fare, purtroppo. Vi s'interdice
l'esercizio della professione. -
A me? -
A voi: perché non avete il diploma, cara donna Mimma! La legge. -
Ma che legge? - esclama donna Mimma, che non ha più una goccia di sangue
nelle vene. - Legge nuova? -
Non nuova, no! Ma noi qua, c'eravate voi sola, da tant'anni; vi conoscevamo;
vi volevamo bene; avevamo tutta la fiducia in voi, e abbiamo perciò
lasciato correre; ma siamo in contravvenzione anche noi, donna Mimma! Queste
maledette formalità, capite? Finché c'eravate voi sola... Ma ora è venuta
quella là; ha saputo che voi non avete il diploma; e visto che qua non è
chiamata da nessuno, capite? ha fatto reclamo alla Prefettura, e voi non
potete più esercitare, o dovete andare a Palermo, davvero questa volta!
all'Università, per prendere il diploma anche voi, come quella. -
Io? a Palermo? alla mia età? a cinquantasei anni? dopo trentacinque anni di
professione? mi fanno questo affronto? io, il diploma? Un'intera
popolazione... Ma come? c'è bisogno di diploma? di saper leggere e
scrivere, per queste cose? Io so leggere appena! E a Palermo, io che non mi
sono mai mossa di qua? Io mi ci perdo! Alla mia età? Per quella smorfiosa lì,
che la voglio vedere, con tutto il suo diploma... Vuole competere con me? E
che hanno da insegnare a me, che li fascio e li sfascio tutti quanti, i
meglio professori, dopo trentacinque anni di professione? Debbo andare a
Palermo davvero? Come? per due anni? Non
la finisce più donna Mimma: un torrente di lagrime irose, disperate, tra un
precipizio di domande saltanti, balzanti. Il sindaco, dolente, vorrebbe
arrestar quell'impeto; un po' lo lascia sfogare; di nuovo si prova ad
arrestarlo; - due anni passano presto; sì, è duro, certo; ma che
insegnare! no! pro forma per avere quel pezzo di carta! per non darla vinta
a questa ragazzaccia... - Poi, accompagnandola fino alla soglia dell'uscio,
battendole una mano dietro le spalle, come un buon figliuolo, per esortarla
a far buon animo, cerca di farla sorridere: via... via... come si
smarrirebbe a Palermo, lei, che non passa giorno, ci va tre e quattro volte? S'è
tirato lo scialle nero sul fazzoletto celeste, donna Mimma e le sue manine
stringono, di sotto, quello scialle nero sul volto per nascondere le
lagrime. Bimbi, quel fazzoletto di seta celeste! - La santa poesia della
vostra nascita, ecco, ha preso il lutto: se ne va a Palermo, senza lettiga
bianca, a studiar meèutica, e la sepsi e l'antisepsi, l'estremo cefalico,
l'estremo pelvi-podalico... Così vuole la legge. Donna Mimma piange; non se
ne può consolare: sa leggere appena; si smarrirà tra l'irta scienza di
quei dotti professori, là, a Palermo, dove ella tante volte è andata con
la poesia della sua lettiga bianca. -
Signora mia, signora mia... Un
pianto, un pianto che spezza il cuore, presso ciascuna delle sue clienti, da
cui va a licenziarsi, prima di partire. E in ogni casa, si china con le
piccole mani tremanti (oh sì, ora le cava fuori senza più ritegno) a
carezzar la testina bionda o bruna dei bimbi, e lascia tra quei riccioli,
insieme coi baci, cader le lagrime, inconsolabilmente. -
Vado a Palermo... vado a Palermo. E
i bimbi, sbigottiti, la guardano, e non comprendono perché pianga tanto,
questa volta, per andare a Palermo. Pensano che forse è una sciagura anche
per loro, per tutti i bimbi che sono ancora là, da comperare. Dicono
le mamme: -
Ma noi v'aspetteremo! Donna
Mimma le guarda con gli occhi lagrimosi, tentenna il capo. Come può farsi
quest'inganno pietoso, lei che sa bene com'è la vita? -
Signora mia, due anni? E
se ne parte col cuore spezzato, tirandosi lo scialle nero sul fazzoletto
celeste. II.
Donna Mimma studia Palermo.
Vi arriva di sera Donna Mimma: piccola, nell'immensa piazza della stazione. Oh
Gesù, lune? che sono? Venti, trenta attorno. È una piazza? Che grandezza!
Ma per dove? -
Di qua, di qua! Fra
tutti quei palazzi, incubi d'ombre gigantesche straforate da lumi, accecata
da tanto rimescolio sotto, di sbarbagli, e sopra da tanti strisci luminosi,
file, collane di lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra il tramestio
di gente che le balza di qua, di là, improvvisa, nemica, e il fracasso che
da ogni parte la investe, assordante, di vetture che scappano precipitose,
non avverte, in quello stupore rotto da continui sgomenti, se non la
violenza da cui dentro è tenuta e a cui via via si strappa per cacciarsi a
forza in quello scompiglio d'inferno, dopo l'intronamento e la vertigine del
viaggio in ferrovia, il primo in vita sua. Gesù,
la ferrovia! Montagne, pianure che si movevano, giravano, e scappavano, via
con gli alberi, via con le case sparse e i paesi lontani; e di tratto in
tratto l'urto violento d'un palo telegrafico; fischi, scossoni: lo spavento
dei ponti e delle gallerie, una dopo l'altra; abbagli e accecamenti, vento e
soffocazione in quella tempesta di strepiti, nel bujo... Gesù! Gesù! -
Come dici? Non
sente nulla, non sa più buttare i piedi, si tiene stretta accosto al nipote
che l'accompagna - giovanotto, stendardo della casa - ah! padrone del mondo,
lui, che può ridere e andar sicuro, pratico, ché c'è stato, lui, due anni
militare qua a Palermo. -
Come dici? Sì,
certo, la carrozza... Che carrozza? Ah già, sì, la carrozza! Come entrare
in città, come camminare per via con quel grosso fagotto di panni sotto il
braccio fino alla locanda? Guarda
il fagotto: c'è lei lì dentro; e tutta vorrebbe esserci, in quella roba
sua lì affagottata sotto il braccio del nipote, lei fatta di pezza e solo
odore di panni, per non vedere e non sentire più nulla. -
Dallo a me! Dallo a me! Vorrebbe
tenercisi stretta a quei panni, per sentircisi meglio dentro; ma l'anima è
fuori, qua allo sbaraglio di tante impressioni che la assaltano da tutte le
parti. Risponde di sì, di sì, ma non capisce bene i cenni che il nipote le
fa. O
Gesù mio, ma perché domandare a lei? Come una creaturina nelle mani di
lui, farà tutto quello che lui vorrà: sì, la carrozza; sì, la locanda,
quella che lui vorrà! Per ora è come in un mare in tempesta, e prendere
una carrozza è per lei come agguantare una barca; giungere alla locanda,
come toccare la riva. Pensa con terrore, quando, di qui a tre giorni, il
nipote ritornerà al paese, dopo averle trovato alloggio e pensione, come
resterà lei qua in mezzo a questa babilonia, sola, perduta. Passando
in carrozza diretti alla locanda, il nipote le propone d'andare a veder la
fiera in Piazza Marina. -
La fiera? Che fiera? -
La fiera dei Morti. Si
fa la croce donna Mimma. Domani, i Morti, già! Arriva la sera del primo
novembre, a Palermo, vigilia dei Morti, lei che a Palermo c'è sempre venuta
per comperare la vita! I Morti già... Ma i Morti sono la Befana per i
bambini dell'isola: i giocattoli, a loro, non li porta la Vecchia Befana il
sei di gennajo: li portano i Morti il due di novembre, che i grandi piangono
e i piccoli fanno festa. -
Gente assai? Tanta,
tanta, senza fine, che le carrozze non possono passare: tutti i babbi, tutte
le mamme, nonne, zie, vanno alla Fiera dei Morti in Piazza Marina a
comperare i giocattoli per i loro piccini. Le bambole? sì, le sorelline
piccole. I pupi di zucchero? sì, i piccoli fratellini; quelli, quelli che
lei, donna Mimma, alla fiera della Vita, nell'illusione dei bimbi del suo
paese lontano, tant'anni è venuta a comperare qua a Palermo e a recar loro
laggiù, con la lettiga d'avorio: giocattoli, ma veri, con occhi veri, vivi,
manine vere, gracili, fredde, paonazze, serrate; e la boccuccia sbavata che
piange. Sì;
ma ora gli occhi di donna Mimma, davanti allo spettacolo tumultuoso di
quella fiera sono anche più meravigliati di quelli d'una bimba; e non può
pensare donna Mimma che il sogno de' suoi viaggi misteriosi, quale essa lo
rappresentava ai bimbi del suo paese, ora qua, davanti alla fiera, diventa
quasi una realtà. Non può pensarlo, non solo perché tra le grida
squarciate dei venditori davanti alle baracche illuminate da lampioncini
multicolori, tra i sibili dei fischietti, gli scampanellii, i mille rumori
della fiera e il pigia pigia della folla che seguita di continuo ad affluire
nella piazza, lo stordimento le cresce e insieme la paura della grande città;
ma anche perché è lei qui ora la bimba a cui l'incanto è fatto. E poi
quell'aria da cui si sentiva avvolta nel suo paesello, aria di favola che la
seguiva per le vie e nelle case in cui entrava, che induceva tutti, grandi e
piccoli, a rispettarla, perché dal mistero della nascita era lei quella che
recava in ogni casa i bimbi nuovi, la vita nuova al vecchio decrepito
paesello; qui ora quell'aria non l'ha più attorno. Spogliata crudelmente
della sua parte, che cosa è adesso qui, in mezzo alla calca della fiera?
una povera vecchietta meschina, stordita. L'han cacciata via dal sogno a
infrangersi, a sparire qua in mezzo a questa realtà violenta; e non
comprende più nulla, non sa più né muoversi, né parlare, né guardare. -
Andiamo via... andiamo via... Dove?
Fuori di qui, fuori di questa calca, facile andar via, con un po' di
pazienza, piano piano; ma poi? Dentro, da ritrovarsi come prima in sé,
sicura, tranquilla, questo sarà difficile: ora alla locanda, domani alla
scuola. Alla
scuola, quarantadue diavole, tutte con l'aria sfrontata di giovanotti in
gonnella, su per giù come quella ragazzaccia piombata dal Continente nel
suo paesello, le si fanno addosso, il primo giorno ch'ella comparisce tra
loro col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle nero,
frangiato e a pizzo, stretto modestamente attorno alla persona. Uh, ecco la
nonna! ecco la vecchia mammana delle favole, piovuta dalla luna, che non osa
mostrar le manine e tiene gli occhi bassi per pudore e parla ancora di
comprare i bambini! La guardano, la toccano, come se non fosse vera, lì
davanti a loro. -
Donna Mimma? Donna Mimma come? Jèvola? Donna Mimma Jèvola? Quant'anni?
Cinquantasei? Eh, picciottella per cominciare! Già mammana da trentacinque
anni? E come? Fuori della legge? Come gliel'hanno potuto permettere? Ah, sì,
la pratica? Che pratica e pratica! Ci vuol altro! Adesso vedrà! E
come entra nell'aula il professor Torresi, incaricato dell'insegnamento
delle nozioni generali d'Ostetricia teorica, gliela presentano tirandola
avanti tra risa e schiamazzi: -
La nonna mammana, professore, la nonna mammana! Il
professor Torresi, calvo, un po' panciuto, ma un bell'omone dall'aria di
corazziere or ora smontato da cavallo, coi baffetti grigi ricciuti e un
grosso neo peloso su una guancia (che amore! se lo tira sempre, facendo
lezione, quel neo, per non guastarsi i baffi volti studiosamente all'in su),
il professor Torresi si è sempre vantato di saper tenere la disciplina e
tratta effettivamente quelle quarantadue diavole come puledre da domar col
frustino e a colpi di sprone; ma tuttavia, di quando in quando, non può
fare a meno di sorridere a qualche loro scappata, o, piuttosto, di concedere
qualche risatina in premio all'adorazione di cui si sente circondato.
Vorrebbe fare il viso dell'armi a quella presentazione rumorosa; ma poi,
vedendosi davanti quella vecchia recluta buffa, vuol pigliarsela anche lui a
godere un po'. Le
domanda come farà, venuta così tardi, a raccapezzarsi nelle sue lezioni.
Egli ha già - (su, attente, attente! al posto!) - egli ha già parlato a
lungo - (silenzio, perdio! al posto!) - ha già parlato a lungo del fenomeno
della gestazione, dall'inizio al parto; ha già parlato a lungo della legge
della correlazione organica; ora parla dei diametri fetali, nella lezione
scorsa ha trattato di quello fronte-occipitale e del biscromiale; tratterà
oggi del diametro bisiliaco. Che ne capirà lei? Va bene, la pratica. Ma che
cos'è la pratica? Ecco, attente! attente! (e il professor Torresi si tira
il neo peloso su la guancia, che amore!): conoscenza implicita, la pratica.
E può bastare? No, che non può bastare. La conoscenza, perché basti,
bisogna che da implicita divenga esplicita, cioè, venga fuori, venga fuori,
così che si possa a parte a parte veder chiara e in ogni parte distinguere,
definire, quasi toccar con mano, ma con mano veggente, ecco! O altrimenti,
ogni conoscenza non sarà mai sapere. Questione di nomi? di terminologia?
No, il nome è la cosa. Il nome è il concetto in noi d'ogni cosa posta
fuori di noi. Senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi
come cieca, non definita, non distinta. Dopo
questa spiegazione, che lascia allocchita tutta la scolaresca, il professor
Torresi si rivolge a donna Mimma e comincia a interrogarla. Donna
Mimma lo guarda sbigottita. Crede che parli turco. Costretta a rispondere,
provoca in quelle quarantadue diavole così fragorose risate, che il
professor Torresi vede in pericolo il suo prestigio di domatore. Grida,
pesta sulla cattedra per richiamarle al silenzio, alla disciplina. Donna
Mimma piange. Quando
nell'aula si rifà il silenzio, il professore, indignato, fa una
strapazzata, come se non avesse riso anche lui; poi si volta a donna Mimma e
le grida che è una vergogna presentarsi a scuola in tale stato d'ignoranza,
è una vergogna, ora, far lì la ragazzina alla sua età, con quel pianto.
Su, su, inutile piangere! Donna
Mimma ne conviene, dice di sì col capo, si asciuga gli occhi; se ne
vorrebbe andare. Il professore la obbliga a rimanere. -
Sedete lì! E state a sentire! Ma
che sentire! Non capisce nulla. Credeva di saper tutto, dopo trentacinque
anni di professione e invece s'accorge di non saper nulla, proprio nulla. -
A poco a poco, non disperate! - la conforta il professore alla fine della
lezione. -
Non disperate, a poco a poco, - le ripetono le compagne ora impietosite dal
pianto. Ma
a mano a mano che quella famosa conoscenza implicita di cui il professor
Torresi ha parlato, le diviene esplicita, donna Mimma - veder più chiaro?
altro che veder più chiaro! - non riesce a vedere più nulla. Scomposta,
sminuzzata, l'idea della cosa, come prima la aveva in sé, intera e
compatta, ora le si confonde, smarrita in tanti animi particolari, ciascuno
dei quali ha un nome curioso, difficile, che ella non sa nemmeno
pronunziare. Come ritenerli a memoria tutti quei nomi? Ci si prova con tanta
pazienza, la sera, nella sua misera cameretta d'affitto, sillabando sul
manuale, curva davanti al tavolinetto su cui arde un lumino a petrolio. -
Bi-bis-cro-bis-crom-i-a-biscromia-bis-cromiale. E
riconosce, sì, a poco a poco, a scuola, riconosce con viva sorpresa a uno a
uno, dopo molti stenti, tutti quei particolari, e scatta in comiche
esclamazioni: -
Ma questo... Gesù, si chiama così? La
ragione di distinguerlo, però, di definirlo così, con quel nome, non la
vede. Il professore gliela fa vedere; la costringe a vederla; ma allora quel
particolare le si stacca ancora più dall'insieme: le s'impone come una cosa
che stia a sé; e siccome son tanti e tanti quei particolari, donna Mimma ci
si perde; non si raccapezza più. È
una pietà vederla alle lezioni d'Ostetricia pratica, nella casa di maternità,
quando il professore la chiama a una lezione di prova. Tutte le compagne la
aspettano lì a quella prova, perché lì ella è adesso nel campo della sua
lunga esperienza. Ma sì! Il professore non vuole che ella faccia quello che
sa fare, ma che dica quello che non sa dire; e se si tratta di fare e non di
dire, non la lascia mica fare a suo modo, come per tant'anni ha fatto, che
sempre le è andata bene; ma secondo i precetti e le regole della scienza,
come punto per punto egli li ha insegnati; e allora donna Mimma, se si butta
a fare, è sgridata perché non osserva appuntino quei precetti e quelle
regole; e se invece si trattiene e si sforza di badare a ogni precetto e a
ogni regola, ecco, è sgridata perché si smarrisce e si confonde e non
riesce più a far nulla a dovere, con sveltezza e precisione sicura. Ma
non soltanto tutti quei particolari e tutti quei precetti e tutte quelle
regole la impacciano così. Un'altra, e più grave, nell'animo di lei, è la
cagione di tutto quell'impaccio. Ella soffre come d'una violenza orrenda che
le sia fatta là dove più gelosamente è custodito per lei il senso della
vita; soffre, soffre da non poterne più, allo spettacolo crudo, aperto di
quella funzione che ella per tanti anni ha ritenuto sacra - perché in ogni
madre la vergogna e i dolori riscattano innanzi a Dio il peccato originale -
soffre e vorrebbe anche lì coprirlo quanto più può, coi veli del pudore,
quello spettacolo; e invece no, ecco, via tutti quei veli: il professore
glieli butta all'aria e li strappa via brutalmente, quei veli che chiama
d'ipocrisia e d'ignoranza; e la maltratta e la beffeggia con sconce
parolacce, apposta; e quelle quarantadue diavole attorno, ecco, ridono
sguajatamente alle beffe, alle parolacce del professore, senza nessun
ritegno, senza nessun rispetto per la povera paziente, per quella povera
madre meschina, esposta lì intanto, oggetto di studio e d'esperimento. Avvilita,
piena d'onta e d'angoscia, si riduce nella sua cameretta, alla fine delle
lezioni, e piange e pensa se non le convenga di lasciare la scuola e di
ritornarsene al suo paesello. Nel lungo esercizio della professione ha messo
da parte un buon gruzzoletto, che le potrà bastare per la vecchiaja; se ne
starà tranquilla, in riposo, a guardare soddisfatta attorno a sé tutti i
bimbi del paese e i più grandicelli, ragazzette e ragazzetti, e i più
grandicelli ancora, giovanette e giovanotti, e i loro papà e le loro mamme,
tutti, tutti quelli che lei in tanti anni pur seppe portare alla luce, senza
precetti e senza regole, da vecchia mammana delle favole, con la lettiga
d'avorio. Ma allora, dovrà darla vinta a quella ragazzaccia che a quest'ora
avrà preso certo il suo posto nel paesello, presso ogni famiglia, di
prepotenza; restare a guardarla, lì, con le mani in mano? - Ah, no, no! -
Qua: vincere l'avvilimento, soffocare l'onta e l'angoscia, per ritornare al
paese col suo bravo diploma e gridarlo in faccia a quella sfrontata che le
sa anche lei adesso le cose che dicono i professori che un conto sono i
misteri di Dio, e un altro conto, l'opera della natura. Se
non che, le sue manine esperte... Donna
Mimma se le rimira pietosamente, attraverso le lagrime. Saprebbero
più muoversi ora, queste manine, come prima? Sono come legate da tutte
quelle nuove nozioni scientifiche. Tremano, le sue manine, e non vedono più.
Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, ma le ha
fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E
che se ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più? III.
Donna Mimma ritorna -
Flavietta? Ma sì, madamina, anche lei. Che s'immagini! A Palermo, come no?
con la lettiga d'avorio e i denari di babbo. Quanti? Eh, più di mille lire! -
No, onze! -
Già, dicevo lire! onze, madamina: più di mille. Cara, che mi corregge! Tò,
un bacio le voglio fare, cara! e un altro... cara! Chi
parla così? Ma guarda! la Piemontesa: quella che due anni fa pareva un
maschiotto in gonnella: giacchetta verde, mani in tasca. Ha buttato via
giacchetta e cappello, si pettina alla paesana e porta in capo, oh, il
fazzoletto di seta celeste, annodato largo sotto il mento, e un bellissimo
scialle lungo d'indiana, a pizzo e frangiato. La Piemontesa! E parla di
comperare i bambini ora, anche lei, a Palermo, con la lettiga d'avorio e i
denari di come? babbo? già, dice babbo lei, perché parla in lingua lei,
che s'immagini! e non li dà mica i baci, li fa, e fa furore con codesta sua
parlata italiana, vestita così da paesanella: una simpatia! -
Più stretto alla vita lo scialle! -
Sì, così, così! -
E il fazzoletto... no, più tirato avanti, il fazzoletto. -
E su da capo, così! -
Largo... un po' più largo, sotto; più aperto... così, brava! Ora
a terra, modesti, gli occhi per via; e poco male se una guardatina di tanto
in tanto scappa di traverso maliziosa, o un sorrisetto scopre su le due
guance codeste care fossette. Che zucchero! Le
signore mamme si sentono chiamar madame ( - Riverisco, madama! - A servirla,
madama! - ) e sono tutte contente (poverine, con tanto di pancia!). Contente
che ormai, a trattare con lei, è proprio come se sapessero parlare in
lingua anche loro e le avessero familiari tutte le finezze e le «civiltà»
del Continente. Ma sì, perché si sa, via, che in Continente usa così, usa
cosà... E poi, che è niente la soddisfazione di vedersi spiegare tutto,
punto per punto, come da un medico, coi termini precisi della scienza che
non possono offendere, perché la natura, Dio mio, sarà brutta, ma è così;
Dio l'ha fatta così; e meglio saperle come sono, le cose, per regolarsi,
guardarsi a un bisogno, e poi anche, alle strette, ma almeno conoscere di
che e perché si soffre. Volere di Dio, sì certo; lo dice la Santa
Scrittura: «tu donna partorirai con gran dolore», ma si manca forse di
rispetto a Dio studiando la sapienza delle sue disposizioni? L'ignoranza di
donna Mimma, poveretta, si contentava del volere di Dio e basta. Questa qua,
ora, rispetta Dio lo stesso e poi, per giunta, spiega tutto, come Dio l'ha
voluta e disposta, la croce della maternità. Dal
canto loro i bambini, a sentirsi raccontare con ben altra voce e ben altre
maniere la favola meravigliosa dei notturni viaggi a Palermo con la lettiga
d'avorio e i cavalli bianchi sotto la luna, restano a bocca aperta, perché
- raccontata così - è proprio come se fosse loro letta o che la leggessero
loro da sé in un bel libro di fiabe, di cui la fata, eccola qua, balzata
viva davanti a loro, da poterla toccare: questa fata bella che in lettiga
sotto la luna ci va davvero, se davvero porta loro da Palermo le sorelline
nuove, i nuovi fratellini. La mirano; quasi la adorano, dicono: -
No: brutta, donna Mimma! non la vogliamo più! Ma
il guajo è che non la vogliono più, ora, neppur loro, le donne del popolo,
perché donna Mimma con esse, roba di massa, si sbrigava senza tante
cerimonie, le trattava come se non avessero diritto di lagnarsi delle
doglie, e anche spesso, se s'andava per le lunghe, era capace di lasciarle
per correre premurosa a dar pazienza a qualche signora, anch'essa
soprapparto; mentre questa qua - oh amore di figlia; tutta bella, bella di
faccia e di cuore! - gentile, paziente anche con loro, senza differenza che
se una signora manda subito subito a chiamarla, risponde con garbo ma senza
esitare che così subito no, perché ha per le mani una poveretta e non la
può lasciare; proprio così! tante volte! E dire poi, una ragazza che non
li ha mai provati finora questi dolori che cosa sono, saperli così bene
compatire e cercare d'alleviarli in tutte, signore e poverette, allo stesso
modo! E via il cappello e via tutte le frasche e le arie di signora con cui
era venuta, per acconciarsi come loro, da poveretta, con lo scialle e il
fazzoletto in capo, che le sta un amore! Invece,
donna Mimma... che? col cappello? ma sì, correte, correte a vederla! è
arrivata or ora da Palermo, col cappello, con un cappellone grosso così,
Madonna santa, che pare una bertuccia, di quelle che ballano sugli organetti
alla fiera! Tutta la gente è scasata a vederla; tutti i ragazzi di strada
l'hanno accompagnata a casa battendo i cocci, come dietro alla nonna di
carnevale. -
Ma come, il cappello, davvero? Il
cappello, sì. O che non ha preso il diploma all'Università come la
Piemontesa, lei? Dopo due anni di studii... e che studii! I capelli bianchi
ci ha fatto, ecco qua, in due anni, che prima di partire per Palermo li
aveva ancora neri. Studii, che il signor dottore, adesso, se si vuol provare
un poco a competere con lei, glielo farà vedere che non è più il caso di
metterla nel sacco con quelle sue parole turchine, perché le sa dire anche
lei adesso, e meglio di lui, le parole turchine. Il
cappello? Ma che stupidaggine di teste piccole di paese! Viene di diritto e
di conseguenza il cappello dopo due anni di studi all'Università. Tutte lì,
quelle che studiavano con lei, lo portavano; e anche lei, dunque, per forza. La
professione dell'ostrè... no, te... trètica, la professione dell'ostrètica,
adesso, c'è poca differenza con quella del dottore. Gli stessi studii,
quasi. E i dottori non vanno mica col berretto per via! Ma perché sarebbe
allora andata a Palermo? perchè avrebbe studiato due anni all'Università?
perché avrebbe preso il diploma, se non per mettersi in tutto a paro, di
studi e di stato, con la Piemontesa diplomata dall'Università di Torino? Trasecola
donna Mimma, si fa di tutti i colori appena viene a sapere che la Piemontesa,
lei, non porta più il cappello, ora, ma scialle e il fazzoletto. - Ah sì?
se l'è levato? porta il «manto» e il fazzoletto celeste. E che fa? che
dice? Ah, che i bambini li comperano a Palermo? Con la lettiga? Ah,
traditora! Ah, infame! Ma dunque, per levare il pane a lei di bocca, a lei,
il pane? Assassina! Per entrare in grazia della gente ignorante del paese?
Infame! Infame! E la gente... come! si piglia da lei quet'impostura? da lei
che prima andava dicendo ch'eran tutte sciocchezze e falsi pudori? Ma
allora, se questa spudorata doveva ridursi a far la mammana in paese così,
come per trentacinque anni naturalmente l'aveva fatto lei, perché
costringerla a partire per Palermo, a studiare due anni all'Università, e
prendere il diploma? Solo per aver tempo di rubarle il posto, ecco perché!
levarle il pane di bocca, mettendosi a far come lei, vestendosi come lei,
dicendo le stesse cose che prima diceva lei! infame! assassina! impostora e
traditora! Ah che cosa... ah Dio, che cosa... che cosa... Ha
tutto il sangue alla testa, donna Mimma; piange di rabbia; si storce le
mani, ancora col cappellone in capo; pesta un piede; il cappellone le va di
traverso; ed ecco, per la prima volta, le scappa di bocca una parolaccia
sconcia: no, non se lo leverà più lei, no, per sfida, ora, questo
cappello: qua, qua in capo! Se quella se l'è levato, lei se l'è messo e lo
terrà! Il diploma ce l'ha; a Palermo c'è stata; s'è ammazzata due anni a
studiare: Ora si metterà a far lei qua in paese, non più la comaretta, la
mammanuccia, ma l'Ostrètica diplomata dalla Regia Università di Palermo. Povera
donna Mimma, dice ostrètica, così su le furie facendo le volte per la
stanzuccia della sua casa, dove tutti gli oggetti par che la guardino
sbigottiti perché s'aspettavano d'esser salutati con gioja e carezzati da
lei dopo due anni d'assenza. Donna Mimma non ha occhi per loro; dice che
vorrà vederla in faccia, quella lì (e giù un'altra parolaccia sconcia),
se avrà il coraggio di parlare davanti a lei di lettighe d'avorio e di
comperare i bambini; e or ora, senza neppur riposarsi un minuto, si vuol
mettere in giro, da tutte le signore del paese, - così, così col cappello
in capo, sissignori! - per vedere se anche loro avranno il coraggio, ora
ch'ella è ritornata col diploma, di cangiarle la faccia per quella fruscola
lì! Esce
di casa; ma appena per via, subito di nuovo la maraviglia, le risa della
gente, i lazzi dei monellacci impertinenti e ingrati, che si sono scordati
di chi li ha accolti prima nel mondo, ajutando la mamma a metterli alla
luce. -
Musi di cane! Cazzarellini! Ah, figli di... Le
tirano bucce, sassolini sul cappellone, la accompagnano con rumori sguajati,
saltarellandole intorno. -
Donna Mimma? Oh guarda! - dicono le signore, restando allo spettacolo che si
para loro davanti, buffo e compassionevole, perché donna Mimma con quel suo
cappellone di traverso e gli occhi ovati rossi di pianto e di rabbia, vuole
- così conciata - apparir loro come l'ombra del rimorso, e in quegli occhi
rossi di pianto e di rabbia ha un rimprovero per loro pieno di profondo
accoramento, quasi che a Palermo a studiare la avessero mandata loro, per
forza, e loro la avessero fatta ritornare da Palermo con quel cappellone
che, essendo il frutto naturale, quantunque spropositato, di due anni di
studio all'Università, rappresenta il tradimento che loro signore le hanno
fatto. Tradimento
sì, tradimento, signore mie, tradimento perché, se volevate la mammana
come donna Mimma era prima, una mammana col fazzoletto in capo e lo scialle,
che raccontasse ai vostri bimbi la favola della lettiga e dei fratellini
comperati a Palermo coi denari di papà, non dovevate permettere che il
fazzoletto di seta celeste e lo scialle di donna Mimma e le vecchie favole
di lei fossero usurpati da questa sfrontata continentale che prima, venendo
dall'Università col cappello anche lei, li aveva derisi in donna Mimma;
dovevate dirle: «No, cara: tu hai obbligato donna Mimma a studiare due anni
a Palermo, a mettersi là il cappello anche lei per non esser derisa dalle
fraschette sfrontate come te, e tu ora qua te lo levi? e ti metti il
fazzoletto e lo scialle e ti metti a raccontare la favola della lettiga, per
prendere il posto di quella che hai mandato via a studiare? Ma questa è per
te un'impostura! per quella, invece, vestire così, parlare così, era
naturale! No, cara, tu ora fai a donna Mimma un tradimento, e come l'hai
derisa tu, prima, col fazzoletto e lo scialle e la vecchia favola della
lettiga, la farai deridere dagli altri, ora, col cappellone e la scienza
ostetrica appresa all'Università». Così, signore miei dovevate dire a
codesta Piemontesa. O se davvero vi piace di più, ora, la mammana «civile»
che vi sappia spiegar tutto bene, punto per punto, come si fanno e come si
possono anche non fare i figliuoli, obbligate allora la Piemontesa a
rimettersi il cappello, per non far deridere donna Mimma che come un medico
ha studiato e col cappello è ritornata! Ma
voi vi stringete nelle spalle, signore mie, e fate intendere a donna Mimma
che ormai non sapete come comportarvi con l'altra che già vi ha assistito
una volta e bene, proprio bene, sì... e che per la prossima assistenza vi
trovate già impegnate... e, quanto all'avvenire, per non compromettervi,
dite di sperare in Dio che basta, ora, questa croce per voi, d'aver altri
figliuoli. Donna
Mimma piange; vorrebbe consolarsi un poco almeno coi bambini, e per farli
accostare si toglie dal capo lo spauracchio di quel cappellaccio nero; ma
inutilmente. Non la riconoscono più, i bambini. -
Ma come? - dice donna Mimma piangendo. - Tu Flavietta, che mi guardavi prima
con codesti occhi d'amore; tu, Ninì mio, ma come? non vi ricordate più di
me? di donna Mimma? Sono andata io, io a comperarvi a Palermo coi denari di
papà; io, con la lettiga d'avorio, figlietti miei, venite qua! I
bimbi non vogliono accostarsi; restano scontrosi, ostili a guardarla da
lontano, a guardarle quel cappellaccio nero su le ginocchia; e donna Mimma,
allora, dopo essersi provata a lungo ad asciugarsi il pianto dagli occhi e
dalle guance, alla fine, vedendo che non ci riesce e che anzi fa peggio, se
lo rimette in capo quel cappellaccio e se ne va. Ma
non è solo per questo cappellaccio nero, come donna Mimma pensa, che tutto
il paesello le si è voltato contro. Se non fosse per la stizza e il
dispetto, potrebbe buttarlo via donna Mimma, il cappellaccio; ma la scienza?
Ahimè, la scienza che le strappò dal capo il bel fazzoletto di seta
celeste e le impose invece codesto cappellaccio nero; la scienza appresa
tardi e male; la scienza che le ha tolto la vista e le ha dato gli occhiali;
la scienza che le ha imbrogliato tutta l'esperienza di trentacinque anni; la
scienza che le è costata due anni di martirio alla sua età; la scienza,
no, non potrà più buttarla via, donna Mimma; e questo è il vero male, il
male irreparabile! Perché si dà il caso, ora, che una vicina, sposa da
appena un anno e già sul punto d'esser mamma, non trova questa sera nelle
quattro stanzette della sua casa un punto, un punto solo, dove quietar la
smania da cui si sente soffocare; va sul terrazzino, guarda... no, si sente
lei guardata stranamente da tutte le stelle che sfavillano in cielo; e se lo
sente acuto nelle carni come un formicolio di brividi, tutto questo pungere
di stelle; e comincia a gemere e a gridare che non ne può più! Si può
aspettare; le dicono che si può aspettare fino a domani; ma lei dice di no,
dice che, se dura così, prima che venga domani, lei sarà morta, e allora,
poiché l'altra, la Piemontesa, è occupata altrove e ha mandato a dire che
proprio gliene duole ma questa notte non può venire; giacché ora sono in
due nel paesello a far questo mestiere, via, si può provare a chiamare
donna Mimma. Eh?
che? donna Mimma? e che è donna Mimma? uno straccio per turare i buchi? Lei
non vuol fare da «sostituta» a quell'altra là! Ma alla fine s'arrende
alle preghiere, si pianta prima pian piano il cappello in capo, e va. Ahimè,
è possibile che non colga ora questa occasione donna Mimma per dimostrare
che ha studiato due anni all'Università come quell'altra, e che sa fare ora
come quell'altra, meglio di quell'altra, con tutte quante le regole della
scienza e i precetti dell'igiene? Disgraziata! Le vuol mostrare tutte a una
a una queste regole della scienza; tutti a uno a uno li vuole applicare
questi precetti dell'igiene; tanto mostrare, tanto applicare, che a un certo
punto bisogna mandare a precipizio per l'altra, per la Piemontesa, e anche
per il medico ora, se si vuol salvare questa povera mamma e la creaturina,
che rischiano di morire impedite, soffocate, strozzate da tutte quelle
regole e da tutti quei precetti. E
ora per donna Mimma è finita davvero. Dopo questa prova, nessuno - ed è
giusto - vorrà più saperne di lei. Invelenita contro tutto il paese, col
cappellaccio in capo, ogni giorno ella scende in piazza, ora, a fare una
scenata davanti la farmacia, dando dell'asino al dottore e della
sgualdrinella a quella ladra Piemontesa che è venuta a rubarle il pane. C'è
chi dice che s'è data al vino, perché dopo queste scenate, ritornando a
casa, donna Mimma piange, piange inconsolabilmente; e questo, come si sa, è
un certo effetto che il vino suol fare. La Piemontesina, intanto, col fazzoletto di seta celeste in capo e il lungo scialle d'indiana stretto intorno alla svelta personcina, corre da una casa all'altra, con gli occhi a terra, modesti, e lancia di tanto in tanto di traverso una guardatina maliziosa e un sorrisetto che le scopre su le due guance le fossette. Dice con rammarico ch'è un vero peccato che donna Mimma si sia ridotta così, perché dal ritorno di lei in paese ella sperava un sollievo; ma sì, un sollievo, visto che questi benedetti papà siciliani troppi, troppi denari hanno, da spendere in figliuoli, e notte e giorno senza requie la fanno viaggiare in lettiga. |