IL CORVO DI MIZZARO Pastori
sfaccendati, arrampicandosi un giorno su per le balze di Mìzzaro,
sorpresero nel nido un grosso corvo, che se ne stava pacificamente a covar
le uova. - O babbaccio,
e che fai? Ma guardate un po'! Le uova cova! Servizio di tua moglie,
babbaccio! Non è da
credere che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo; e
naturalmente non fu inteso. Quei pastori si spassarono a tormentarlo
un'intera giornata; poi uno di loro se lo portò con sé al paese; ma il
giorno dopo, non sapendo che farsene, gli legò per ricordo una campanellina
di bronzo al collo e lo rimise in libertà: - Godi! Che impressione
facesse al corvo quel ciondolo sonoro, lo avrà saputo lui che se lo portava
al collo su per il cielo. A giudicare dalle ampie volate a cui
s'abbandonava, pareva se ne beasse, dimentico ormai del nido e della moglie. - Din dindin din dindin... I contadini,
che attendevano curvi a lavorare la terra, udendo quello scampanellìo, si
rizzavano sulla vita; guardavano di qua, di là, per i piani sterminati
sotto la gran vampa del sole: - Dove suonano? Non spirava
alito di vento; da qual mai chiesa lontana dunque poteva arrivar loro quello
scampanìo festivo? Tutto potevano
immaginarsi, tranne che un corvo sonasse così, per aria. «Spiriti!»
pensò Cichè, che lavorava solo solo in un podere a scavar conche attorno
ad alcuni frutici di mandorlo per riempirle di concime. E si fece il segno
della croce. Perché ci credeva, lui, e come! agli Spiriti. Perfino chiamare
s'era sentito qualche sera, ritornando tardi dalla campagna, lungo lo
stradone, presso alle Fornaci spente, dove, a detta di tutti ci stavano di
casa. Chiamare? E come? Chiamare: «Cichè! Cichè!» così. E i capelli gli
s'erano rizzati sotto la berretta. Ora quello
scampanellìo lo aveva udito prima da lontano, poi da vicino, poi da lontano
ancora; e tutt'intorno non c'era anima viva: campagna, alberi e piante, che
non parlavano e non sentivano, che con la loro impassibilità gli avevano
accresciuto lo sgomento. Poi, andato per la colazione che la mattina s'era
portata da casa, mezza pagnotta e un cipolla dentro al tascapane lasciato
insieme con la giacca un buon tratto più là appeso a un ramo d'olivo,
sissignori, la cipolla sì, dentro al tascapane, ma la mezza pagnotta non ce
l'aveva più trovata. E in pochi giorni, tre volte, così. Non ne disse
niente a nessuno, perché sapeva che quando gli Spiriti prendono a
bersagliare uno, guaj a lamentarsene: ti ripigliano a comodo e te ne fanno
di peggio. - Non mi sento
bene, - rispondeva Cichè, la sera ritornando dal lavoro, alla moglie che
gli domandava perché avesse quell'aria da intronato. - Mangi però!
- gli faceva osservare, poco dopo, la moglie, vedendogli ingollare due e tre
scodelle di minestra una dopo l'altra. - Mangio, già!
- masticava Cichè, digiuno dalla mattina e con la rabbia di non potersi
confidare. Finché per le
campagne non si sparse la notizia di quel corvo ladro che andava sonando la
campanella per il cielo. Cichè ebbe il
torto di non saperne ridere come tutti gli altri contadini, che se n'erano
messi in apprensione. - Prometto e
giuro, - disse, - che gliela farò pagare E che fece? Si
portò nel tascapane, insieme con la mezza pagnotta e la cipolla, quattro
fave secche e quattro gugliate di spago. Appena arrivato al podere, tolse
all'asino la bardella e lo avviò alla costa a mangiar le stoppie rimaste.
Col suo asino Cichè parlava, come sogliono i contadini; e l'asino rizzando
ora questa ora quell'orecchia, di tanto in tanto sbruffava, come per
rispondergli in qualche modo. - Va', Ciccio,
va', - gli disse, quel giorno, Cichè. - E sta' a vedere, ché ci
divertiremo! Forò le fave;
le legò alle quattro gugliate di spago attaccate alla bardella, e le
dispose sul tascapane per terra. Poi s'allontanò per mettersi a zappare. Passò un'ora;
ne passarono due. Di tratto in tratto Cichè interrompeva il lavoro credendo
sempre di udire il suono della campanella per aria; ritto sulla vita,
tendeva l'orecchio. Niente. E si rimetteva a zappare. Si fece l'ora
della colazione. Perplesso, se andare per il pane o attendere ancora un po',
Cichè alla fine si mosse; ma poi, vedendo così ben disposta l'insidia sul
tascapane, non volle guastarla: in quella, intese chiaramente un tintinno
lontano; levò il capo: - Eccolo! E, cheto e
chinato, col cuore in gola, lasciò il posto e si nascose lontano. Il corvo però,
come se godesse del suono della sua campanella, s'aggirava in alto, in alto,
e non calava. «Forse mi vede»,
pensò Cichè; e si alzò per nascondersi più lontano. Ma il corvo
seguitò a volare in alto, senza dar segno di voler calare. Cichè aveva
fame; ma pur non voleva dargliela vinta. Si rimise a zappare. Aspetta,
aspetta; il corvo, sempre lassù, come se glielo facesse apposta. Affamato,
col pane lì a due passi, signori miei, senza poterlo toccare! Si rodeva
dentro, Cichè, ma resisteva, stizzito, ostinato. - Calerai!
calerai! Devi aver fame anche tu! Il corvo,
intanto, dal cielo, col suono della campanella, pareva gli rispondesse,
dispettoso: - Né tu né
io! Né tu né io! Passò così la
giornata. Cichè, esasperato, si sfogò con l'asino, rimettendogli la
bardella, da cui pendevano, come un festello di nuovo genere, le quattro
fave. E, strada facendo, morsi da arrabbiato a quel pane, ch'era stato per
tutto il giorno il suo supplizio. A ogni boccone, una mala parola
all'indirizzo del corvo: - boja, ladro, traditore - perché non s'era
lasciato prendere da lui. Ma il giorno
dopo, gli venne bene. Preparata
l'insidia delle fave, con la stessa cura, s'era messo da poco al lavoro,
allorché intese uno scampanellìo scomposto lì presso e un gracchiar
disperato, tra un furioso sbattito d'ali. Accorse. Il corvo era lì, tenuto
per lo spago che gli usciva dal becco e lo strozzava. - Ah, ci sei
caduto? - gli gridò, afferrandolo per le alacce. - Buona, la fava? Ora a
me, brutta bestiaccia! Sentirai . Tagliò lo
spago; e, tanto per cominciare, assestò al corvo due pugni in testa. - Questo per la
paura, e questo per i digiuni! L'asino che se
ne stava poco discosto a strappar le stoppie dalla costa, sentendo
gracchiare il corvo, aveva preso intanto la fuga, spaventato. Cichè lo
arrestò con la voce poi da lontano gli mostrò la bestiaccia nera: - Eccolo qua,
Ciccio! Lo abbiamo! lo abbiamo! Lo legò per i
piedi; lo appese all'albero e tornò al lavoro. Zappando, si mise a pensare
alla rivincita che doveva prendersi. Gli avrebbe spuntate le ali, perché
non potesse più volare; poi lo avrebbe dato in mano ai figliuoli e agli
altri ragazzi del vicinato, perché ne facessero scempio. E tra sé rideva. Venuta la sera,
aggiustò la bardella sul dorso dell'asino tolse il corvo e lo appese per i
piedi al posolino della groppiera; cavalcò, e via. La campanella, legata al
collo del corvo, si mise allora a tintinnire. L'asino drizzò le orecchie e
s'impuntò. - Arrì! - gli
gridò Cichè, dando uno strattone alla cavezza. E l'asino
riprese ad andare, non ben persuaso però di quel suono insolito che
accompagnava il suo lento zoccolare sulla polvere dello stradone. Cichè,
andando, pensava che da quel giorno per le campagne nessuno più avrebbe
udito scampanellare in cielo il corvo di Mìzzaro. Lo aveva lì, e non dava
più segno di vita, ora, la mala bestia. - Che fai? -
gli domandò, voltandosi e dandogli in testa con la cavezza. - Ti sei
addormentato? Il corvo, alla
botta: - Cràh! Di botto, a
quella vociaccia inaspettata, l'asino si fermò, il collo ritto, le orecchie
tese. Cichè scoppiò in una risata. - Arrì,
Ciccio! Che ti spaventi? E picchiò con
la corda l'asino sulle orecchie. Poco dopo, di nuovo, ripeté al corvo la
domanda: - Ti sei
addormentato? E un'altra
botta, più forte. Più forte, allora, il corvo: - Cràh! Ma questa
volta, l'asino spiccò un salto da montone e prese la fuga. Invano Cichè,
con tutta la forza delle braccia e delle gambe, cercò di trattenerlo. Il
corvo, sbattuto in quella corsa furiosa, si diede a gracchiare per
disperato; ma più gracchiava e più correva l'asino spaventato. - Cràh! Cràh!
Cràh! Cichè urlava a
sua volta, tirava, tirava la cavezza; ma ormai le due bestie parevano
impazzite dal terrore che si incutevano a vicenda, l'una berciando e l'altra
fuggendo. Sonò per un tratto nella notte la furia di quella corsa
disperata; poi s'intese un gran tonfo, e più nulla. Il giorno dopo,
Cichè fu trovato in fondo a un burrone, sfracellato, sotto l'asino
anch'esso sfracellato: un carnajo che fumava sotto il sole tra un nugolo di
mosche.
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