LA BALIA I. - Finalmente! -
esclamò la signora Manfroni, strappando di mano alla serva la lettera da
Roma tanto sospirata, nella quale il genero, Ennio Mori, doveva darle tutti
i minuti ragguagli promessi, intorno al parto recente della figlia Ersilia. Inforcò subito
gli occhiali e si mise a leggere. Già sapeva da
telegrammi precedenti, che il parto era stato laborioso, ma che tuttavia la
figlia non correva alcun rischio. Ora però la lettera le dava a sapere che
qualche rischio Ersilia veramente lo aveva corso e che anzi c'era stato
bisogno d'un ostetrico. Questa notizia il Mori la dava non certo per
affliggere i parenti della moglie, ora che tutto, bene o male, era passato;
ma per lagnarsi della caparbietà di lei che, contro i suoi saggi consigli,
s'era ostinata a portare fino all'ultimo il busto troppo stretto, i tacchi
delle scarpe troppo alti. - Asino! i
tacchi! E parecchie
volte la signora Manfroni, friggendo, ripeté quell'asino! durante la
lettura. A un tratto s'impuntò, più che mai stizzita, e levò gli occhi
dalla lettera e guardò in giro, quasi cercasse qualcuno con cui sfogarsi. - Come? come? Ah, la balia
non doveva essere romana? O perché no, signor avvocato Mori? Le balie
romane hanno troppe pretensioni? Oh guarda, l'economia adesso! Come se la
dote di Ersilia non potesse permettere un tal lusso al signor avvocato
socialista. Eh già! e intanto che bella figura avrebbe fatto Ersilia per le
vie di Roma con a fianco una zotica contadinotta siciliana da lavare a sei o
a sette acque, parata da balia! - Asino! Asino!
Asino! - Ohé! Non si
mangia oggi? Perché la tavola non è ancora apparecchiata? Il signor
Manfroni entrò, vociando così, al solito. Di là aveva già sgridato la
serva e la cuoca. - Piano,
Saverio, piano... - disse la moglie. - Sai bene che c'è sempre un mondo da
fare in casa nostra. - Da fare? Voi?
E io? - Leggiti,
leggiti la bella lettera del tuo carissimo genero, piuttosto. - Ersilia? - Sentirai. Il signor
Manfroni si calmò di botto; scorse la lettera poi, ripiegandola: - Benissimo! Ho
la balia che ci vuole. Aveva di questi
lampi il signor Manfroni, nei quali egli per primo s'abbagliava e a cui
doveva - a suo credere - la sua ingente fortuna commerciale. Con aria
derisoria e di sfida la signora Manfroni domandò: - Sarebbe? - La moglie di
Titta Marullo. - La moglie di
quell'avanzo di forca? - Taci! - La moglie di
quel capopopolo? - Taci! - La moglie
d'un coatto! - Lasciami
dire! - gridò il Manfroni. - Sei donna tu e, per tua norma, qua,
Domineddio, stoppa, stoppa, cara mia, ti ci ha messo! stoppa in luogo di
cervello. Con le belle condizioni sociali, nelle quali viviamo... - Come
c'entrano le condizioni sociali? - domandò, stordita, la moglie. - C'entrano!
C'entrano! - ribatté furiosamente il signor Saverio. - Perché, noi, noi
che siamo riusciti col lavoro assiduo e per... come si dice? perticace, cioè,
no... sì, giusto dico, perticace, a metter da banda una sostanza qualsiasi,
noi, oggi, per tua norma, di fronte all'avvenire che si fa man mano più
torbido e minaccioso... hai capito? - No! Che vuoi
che capisca? - E non te lo
dico io? Stoppa! Afferrò una
seggiola, l'accostò a quella su cui stava la moglie e vi sedette in gran
furia, sbuffando. - Io, Titta
Marullo, - riprese, sforzandosi di parlar sotto voce, perché i servi non
udissero, - io, Titta Marullo, per tua norma, lo scacciai dal panificio, per
le sue idee rivoluzionarie. - Come quelle
del signor Mori, a cui hai dato tua figlia! - Lasciami
dire! - urlò il Manfroni. - E perché gli ho dato mia figlia, io? Prima di
tutto perché Ennio è un ottimo giovine; poi, sissignora, perché
socialista! sissignora! E mi è convenuto! e mi ha fatto gioco! Sai dirmi
perché sono tanto rispettato, io, da tutta quella canaglia a cui do da
mangiare? Stoppa! Ma qui Ennio non c'entra... Parlavamo di Titta Marullo. Lo
scacciai dal panificio. Rimasto sul lastrico, il disgraziato, si regolò in
modo da farsi mandare all'isola, a domicilio coatto. Ora io, ricco, ma con
qui dentro qualcosa che batte e che, per tua norma, si chiama cuore, prendo
sua moglie, la ficco in un vagone di terza classe e la spedisco a Roma,
balia del mio nipotino! Poteva avere
centomila ragioni il signor Manfroni, ma aveva anche su uno zigomo un
ridicolissimo porro, sul quale la moglie appuntava gelidamente uno sguardo
quanto mai dispettoso, quando si vedeva costretta a sottomettersi a quelle
ragioni. E il signor Manfroni, nel vedersi ogni volta guardato il porro,
provava un tale urto di nervi che, per non fare uno sproposito, troncava
subito la discussione. Sonò il campanello e ordinò alla serva: - Di' a Lisi
che venga subito qua. Lisi, che
fungeva da cocchiere e da servotto, si presentò su la soglia senza giacca,
con le maniche della camicia rimboccate su le braccia e la bocca aperta a un
riso muto, come soleva ogni qual volta i padroni lo chiamavano al loro
cospetto. Il signor
Manfroni, fin dal primo vederlo, aveva scoperto uno straordinario ingegno in
questo ragazzo. - Sai dove sta
la moglie di Titta Marullo? - Sissignore.
Ho capito! - rispose Lisi, e sollevò una spalla e si contorse, mentre un
sorriso scemo gli alzava quasi il bollo in gola. - Che hai
capito, animale? - gli gridò il Manfroni, che non era in vena d'ammirarlo,
in quel momento. Lisi si
storcignò di nuovo, come se il padrone gli avesse fatto un bel complimento,
e rispose: - Vado a
dirglielo, sissignore. - Dille che
venga subito qua. Debbo parlarle. E, di lì a
poco, il signor Manfroni ebbe una prova lampantissima del non comune ingegno
di Lisi. Figurarsi che, mentre era ancora a tavola con la moglie, vide
irrompere nella stanza Annicchia, la moglie di Titta, piangente di gioja,
con un bambinello in braccio di circa due mesi. - Ah,
signorino! signorino mio! si lasci baciare la mano! E, così
esclamando, gli s'inginocchiò ai piedi. La serva, la cuoca s'erano
affacciate all'uscio per assistere alla scena, e Lisi innanzi a loro rideva,
trionfante, beato. Tra gli occhi e
le sopracciglia del signor Saverio s'impegnò una viva lotta: quelli
volevano sbarrarsi per lo stordimento improvviso, e queste
contemporaneamente aggrottarsi dalla rabbia. Ritrasse subito la mano che la
giovine inginocchiata voleva baciargli: guardò verso l'uscio e urlò: - Fuori! No, tu
qua, Lisi! Che le hai detto? - Che Titta
verrà! - esclamò Annicchia senza levarsi. - Che me l'ha liberato Lei,
signorino mio! Il Manfroni
balzò in piedi e brandì la seggiola: - Aspetta,
canaglia! Lisi scappo via
come un daino. - Non è vero?
- fece Annicchia, appassendo, rivolta alla signora Manfroni. E si rialzò
lentamente. Ci volle del bello e del buono per farle intendere che la
liberazione del marito non dipendeva, né poteva dipendere in alcun modo
dalla volontà e dalle amicizie del signor Manfroni, il quale, se lo aveva
scacciato dal panificio, ella era testimonia di quanta longanimità avesse
prima dato prova, unicamente per lei che, da bambina, gli era cresciuta in
casa ed era stata compagna di giuoco d'Ersilia, tant'anni. Mentre il
marito dava queste spiegazioni, la signora Manfroni osservava la giovine e,
con l'immaginazione, la parava da balia e approvava col capo, approvava come
se già la vedesse con un goffo zendado rosso in testa e uno spillone dai
tremuli fiori d'argento tra i biondi capelli. Annicchia,
allorché il Manfroni le espose la ragione per cui aveva mandato Lisi a
chiamarla, restò tra stordita e perplessa. - E questo mio
bambinello? - disse, mostrandolo. - A chi lo lascio? Se lo strinse
al seno; si mise a piangere di nuovo. - Tata non
torna, Luzzì! non torna! Infine,
scoprendo la faccia lacrimosa, aggiunse, rivolta alla signora Manfroni: - Non lo
conosce; ancora non l'ha veduto, quest'angeletto che gli è nato. - Potresti
darlo ad allevare, con un po' di quello che avrai da Ersilia. - Oh, per la
signorina Ersilia, - s'affrettò a dire Annicchia, - si figuri con che cuore
lo vorrei fare! Ma... troppo lontano! a Roma! Il signor
Saverio spiegò lì per lì che: Partenza! Pronti! col treno e col
piroscafo, non c'erano più distanze, ormai. - Sissignore, -
disse Annicchia, - Vossignoria, dice bene; ma io sono una povera ignorante;
mi sperderei. Non ho mai dato un passo fuori del paese. E poi, - aggiunse, -
Vossignoria sa che ho con me la suocera: come potrei lasciarla, povera
vecchia? Siamo restate noi due sole. Titta me l'ha tanto raccomandata! E se
sapesse come viviamo! io, con le braccia legate da questa creaturina; lei,
vecchia di settant'anni! Volevo dare ad allevare il piccino e mettermi a
servizio. Già, Titta non troverà più nulla della bella roba comperata
quando sposammo: roba da poverelli, si sa, ma pulita. Svenduta, a questo e a
quello... Ma la vecchia non vuole ch'io vada a servizio. È superba; non
vuole. Però, essendo per la signorina Ersilia, forse... Ecco, potrei
tentare di dirglielo. - Sì, ma la
risposta, subito. Dovresti partire domattina, al più tardi. Annicchia
rimase ancora perplessa. - Sentirò, e
Le saprò dire sì o no, - disse infine; e andò via. Abitava in una
viucola lì presso. Già tutte le vicine, al tanto lieto quanto falso
annunzio di Lisi, s'erano affollate nella nuda casetta a pian terreno,
intorno alla vecchia madre del deportato che se ne stava seduta, tutta
inarcocchiata, con un fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento e le
mani nodose su un rozzo scaldino di terracotta posato su le ginocchia.
Lodavano quelle il buon cuore e la generosità del Manfroni, e la vecchia,
con la testa bassa, emetteva di tratto in tratto come un grugnito, non si
sapeva se d'assenso o di dispetto, saettando con gli occhi certi sguardi che
esprimevano diffidenza e fastidio. Quando Annicchia si presentò su la
soglia e con l'aspetto e con le prime parole raggelò su le labbra delle
vicine le frasi ammirative per il signor Manfroni, la vecchia suocera alzò
la testa e guardò in giro con sdegno le vicine; poi, all'annunzio della
proposta del Manfroni, si levò in piedi. - Che gli hai
risposto? Annicchia volse
uno sguardo alle vicine, come per dire: Fatele intender voi, che io debbo
accettare. - Gli ho
risposto che sarei venuta a dirvelo, mamma. - Non voglio!
Non voglio! - gridò subito, irosa, la vecchia. - Non vorrei
nemmeno io; ma... E di nuovo
Annicchia si rivolse per ajuto alle vicine. Queste allora, un po' l'una e un
po' l'altra, cercarono di persuadere alla vecchia le ragioni per cui la
nuora non avrebbe dovuto perder l'occasione che le si offriva di provvedere
onestamente a sé, a lei, al bambino. Una, anzi, ch'era venuta col suo
figliuolo in braccio, attaccato a una enorme poppa: - Qua! qua!
guardate, - si mise a gridare, - ho latte per due! Me lo piglio io, il
bambino... Qua, guardate! E, cavando il
capezzolo di bocca al poppante, sollevando con una mano la mammella, fece
sprizzare il latte in faccia alle comari del vicinato che, ridendo e
riparandosi con le braccia, si scostarono addossandosi l'una all'altra. Ma la vecchia
non volle piegarsi; si ribellò a tutte le insistenze, gridando alla nuora: - Se vai, è
contro la mia volontà, e ti maledico! Ricordatene! II. L'avvocato
Ennio Mori aspettava alla stazione l'arrivo del treno da Napoli. Piccolo di
statura, magrissimo, con le spalle in capo, sbuffava, impaziente, o si
grattava la faccetta ossuta, dalla tinta itterica, invasa e quasi oppressa
da una barba nera troppo cresciuta, o si aggiustava le lenti che non
volevano reggerglisi sul naso, o si tastava di tanto in tanto le tasche del
pastrano e della giacca piene di giornali. Si accostò a
un ferroviere. - Scusi, il
treno da Napoli? - È in ritardo
di quaranta minuti. - Ferrovie
italiane! Cose da pazzi! E s'allontanò,
in cerca d'un posto qualunque per sedere; là in fondo, sotto l'orologio, in
qualche sporgenza del muro, poiché tutti i sedili erano ingombri. Gli toccava
fare anche da servitore alla balia che doveva arrivare: - Cose da
pazzi! Dopo due anni
di matrimonio e di dimora in Roma, sua moglie era come uscita or ora da
quella tribù di selvaggi dell'estremo lembo della Sicilia: non sapeva né
muoversi per casa, né uscir sola per provvedere ai bisogni minuti della
famiglia; non sapeva far altro che rimproverar lui dalla mattina alla sera,
sempre imbronciata, e punzecchiarlo dove più si teneva: nella logica, nella
logica; e affliggerlo con la più stupida e odiosa gelosia, non per amore,
ma per puntiglio. Non si sentiva amata! E sfido! Che aveva mai fatto, che
faceva per essere amata? Se pareva anzi che provasse gusto a farsi odiare!
Mai una parola gentile, mai una carezza, mai! e sempre armata di diffidenza,
spinosa, dura, arcigna, permalosa. Ah, parola d'onore, aveva fatto un bel
guadagno a sposarla! - Cose da
pazzi! Sbuffò, tornò
ad aggiustarsi sul naso le lenti; trasse uno dei tanti giornali e si mise a
leggere. Ma, pure in
quella lettura, come in casa trattando con la moglie, non riusciva a trovare
un momento di requie; e, quasi a ogni notizia, tornava a ripetere quella sua
solita frase: - Cose da pazzi! - . Seguitava a leggere, tuttavia; e, ogni
giorno, non si dichiarava soddisfatto, se non aveva scorso da capo a fondo
tutti i fogli più in vista di Roma e di Milano, di Napoli, di Torino, di
Firenze, di cui aveva sempre così piene le tasche. - Medicina, -
soleva dire. - Mi muovono la bile. Troppo, però!
Eh, glielo aveva detto anche il medico. Troppo, sì, forse; ma poi, non
leggendo i giornali, lo spettacolo diretto dell'amenissima vita italiana, la
compagnia della moglie, non gli avrebbero guastato il fegato? Meglio dunque
i giornali. - E questo
maledetto treno da Napoli, insomma, arriva o non arriva? Guardò
l'orologio; scattò in piedi, smarrito. Era trascorsa più di un'ora! S'avviò
di corsa verso l'uscita. Dove trovare adesso quella poveretta, che doveva
essere arrivata e non sapeva l'indirizzo di casa? Ma la trovò,
per fortuna, nell'ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che
piangeva seduta sul sacco. I doganieri cercavano di confortarla; le
consigliavano di andare in questura, non conoscendo essi quell'avvocato moro
di cui ella parlava. - Annicchia! - Signorino! -
gridò la poveretta, levandosi d'un balzo, alla voce. E per poco non
l'abbracciò, dalla gioja. Tremava tutta. - Perduta,
signorino mio, perduta... E come avrei fatto io, se Vossignoria non veniva? - Ma quel
degnissimo galantuomo di mio suocero, - le gridò Mori, - non poteva
scriverti l'indirizzo di casa mia su un pezzettino di carta? - Ma io non so
leggere... - gli fece osservare Annicchia, che si sforzava di soffocare gli
ultimi singhiozzi e si asciugava le lagrime. - Cose da
pazzi. Avresti potuto dare l'indirizzo a un vetturino, senza che
m'incomodassi io a venire. Del resto son venuto. Ero dentro la stazione. Non
mi sono accorto dell'arrivo del treno. Basta. Montando in
vettura, le raccomandò: - Non far
parola a mia moglie di quest'incidente. Succederebbe un caso del diavolo. Trasse di tasca
un altro giornale e si mise a leggere. Annicchia si
restrinse, per occupare nella vettura quanto meno posto le fosse possibile.
Provava una gran soggezione, seduta lì, accanto al padrone, sola con lui.
Ma fu per poco. Era addirittura intronata dal lungo viaggio, dalle tante e
nuove impressioni che le avevano tumultuosamente investito la povera anima,
chiusa finora e ristretta là, nelle abituali occupazioni dell'angusta sua
vita. Non ricordava più nulla; non pensava, non vedeva più nulla; sentiva
soltanto il sollievo d'esser giunta, finalmente; d'aver superato il terrore
della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli, lo sgomento della furia
del treno. Ov'era giunta? Si provava a guardar fuori della vettura; ma gli
occhi le dolevano. Avrebbe avuto tanto tempo di veder Roma, la grande città
dov'era il Papa! Intanto, già si trovava accanto a uno ch'ella conosceva, e
tra poco avrebbe riveduto la «signorina sua» e si sarebbe di nuovo sentita
quasi nel suo paese. Sorrise. Le si affacciò per un istante al pensiero il
figliuolo lontano, la vecchia suocera, ma ne scacciò subito l'immagine per
il bisogno istintivo di non turbarsi quel momento di sollievo dopo le lunghe
sofferenze angosciose del viaggio. - A Napoli, -
le domandò a un tratto il Mori, - è venuto qualcuno a rilevarti sul
piroscafo? - Ah,
sissignore! Un galantuomo! Tanto buono... - s'affrettò a rispondergli
Annicchia. - Anzi mi ha comandato di salutarla. - Ti ha
comandato? - Sissignore,
di salutarla. - Ti avrà
pregato. - Sissignore;
ma... un padrone mio... Ennio Mori
sbuffò e si rimise a leggere il giornale. - Medicina,
medicina! - Come dice? -
arrischiò, timidamente, Annicchia. - Niente: parlo
con me. Annicchia
rimase un po’ perplessa, poi aggiunse: - Anche a
Palermo è venuto alla stazione un altro galantuomo che mi ha poi
accompagnata fino al vapore: tanto buono anche lui. - E t’ha
comandato anche lui di salutarmi? - Sissignore,
anche lui. Il Mori abbassò
su le gambe il giornale, si aggiustò sul naso le lenti e le domandò,
accigliato: - Tuo marito? - Sempre là!
– sospirò Annicchia. – All’isola! Ah, se Vossignoria che sta qui a
Roma, che c’è il Re... - Sta' zitta! -
la interruppe, di scatto, il Mori, come se, nominando il re, quella
poveretta gli avesse pestato un piede. - Basterebbe
una parolina... - osò d'aggiungere Annicchia, sommessamente. - Cose da
pazzi! - sbuffò di nuovo il Mori, così urtato, che spiegazzò il giornale
che teneva su le gambe e lo buttò fuori della vettura. - Credi che ci
abbiano mandato soltanto tuo marito, a domicilio coatto? Ci mandano anche
noi! - I signori? -
domandò Annicchia, stupita e incredula. - Come ce li mandano i signori? - Sta’ zitta!
– replicò il Mori, a cui riusciva addirittura insopportabile quella
supina ignoranza. E si mise,
fosco, a riflettere su l’impresa disperata di dare una nuova coscienza a
quell’infima gente della sua Sicilia, in cui era così profondamente
radicato il sentimento della servilità. La carrozza,
alla fine, giunse in Via Sistina, ove il Mori abitava. Ersilia era
ancora a letto. Sotto il roseo parato a padiglione dell'ampio letto, tra il
candore dei guanciali e de' merletti, appariva più bruna di carnagione,
quasi nera, immagrita com'era dalle doglie del recente parto. Annicchia corse
ad abbracciarla festosamente. - Signorina!
Signorina mia! Eccomi qua... Mi pare un sogno! Come sta? Ha sofferto molto,
è vero? Oh, figlia mia! Si vede... Non si riconosce più... Mah, così
vuole Dio: noi donne siamo fatte per patire. - Un corno! -
protestò Ersilia. - Che stupide, le donne... Tutte così! Ci provate gusto,
è vero? a ripetere che noi donne siamo fatte per patire. E a furia di
ripeterlo, eccoli qua, i signori uomini, credono davvero, ades so, che
nojaltre dobbiamo stare al loro servizio, per il loro comodo e per il loro
piacere. Noi le schiave, è vero? e loro i padroni. Un corno! Ennio Mori, a
cui era diretta la botta, ripiegò furiosa mente il terzo giornale, sbuffò
e uscì dalla camera. Annicchia guardò
la padrona, un po' impacciata, e disse: - Anche loro,
poveretti, hanno tanti guaj... - Dormire,
mangiare e andare a spasso. Vorrei fare un po' il cambio, io. Ah, uomo,
uomo, e cieco d'un occhio! - Certo, quando
abbiamo finito da poco di patire per loro... - No, sempre!
Li odio tutti! A questo punto,
s'intese dall'altra parte un grido di Ennio Mori: - L'universo
mondo! A cui rispose
un altro grido: - Eccomi,
signorino! Mi comandi. Ersilia scoppiò
a ridere e spiegò ad Annicchia: - Ho la serva
sorda. Appena si grida un po', si sente chiamata. Margherita! Margherita! Su la soglia si
presentò la vecchia sorda, con un'aria tra di offesa e di stralunata. Di là,
il Mori, con gli occhi fuori del capo, le aveva fatto un gesto... un certo
gesto sguajato. - Senti,
Margherita, - riprese Ersilia. - Questa è la balia, arrivata adesso...
adesso, sì. Bene: ora tu insegnale la sua camera. Hai capito? Andrai a
lavarti, - aggiunse, rivolgendosi ad Annicchia, - sei tutta affumicata. Annicchia
sporse il capo per guardarsi nello specchio dell'armadio e subito esclamò,
con le mani per aria: - Mamma mia! Il fumo della
ferrovia e le lagrime versate alla stazione le avevano insudiciato il volto.
Prima d'andare a lavarsi, volle però raccontare alla «signorina sua», con
vivacissimi gesti e frequenti esclamazioni, che facevano sbarrare tanto
d'occhi alla serva sorda, le peripezie del viaggio di mare, poi di quello in
ferrovia, e come a un certo punto, sentendosi scoppiare il seno per la furia
del latte, si fosse messa a piangere come una bambina. I compagni di viaggio
le domandavano che avesse; ma ella si vergognava a dirlo; alla fine, quelli
capirono; e allora un giovinastro le propose di succhiarle lui il latte -
malcreato! - e già le stendeva, ridendo, le mani al petto. Ella, gridando,
aveva minacciato di buttarsi dal finestrino del vagone. Ma poi, per fortuna,
alla prima fermata del treno, un vecchio ch'era lì accanto a lei, l'aveva
condotta a un altro scompartimento, dove c'era una donna che aveva con sé
una bambinuccia di tre mesi, misera misera, alla quale finalmente aveva
potuto dar latte, sentendosi man mano rinascere. Ersilia credeva
d'aver già preso l'aria della «continentale» ed ebbe perciò fastidio di
quelle vive, ingenue espressioni di pudor paesano. - Basta, a
lavarti, ora! Poi mi dirai della mamma e del babbo. Va', va'. - E il
bambinello? - chiese Annicchia. - Non me lo vuol far vedere? Lo vedo e me ne
vado. - Là, - disse
Ersilia, indicando la culla. - Ma tu no, non toccare il velo con le mani
sporche. Su, Margherita, faglielo vedere. Tra tanta
ricchezza di nastri, di veli, di merletti, Annicchia vide un mostriciattolo
dal volto paonazzo, più misero di quella bimba a cui aveva dato latte in
treno. Pure esclamò: - Bello! Bello!
Coruccio mio, dorme come un angioletto... Vossignoria vedrà quanto glielo
farò diventare... Anche il mio Luzziddu era nato così, piccolo piccolo, e
ora, se lo vedesse! S'interruppe,
commossa: - Vado e torno,
- poi disse; e seguì la serva nell'altra camera. III. Avrebbe voluto
attaccarsi subito al seno il piccino; il padrone era d'accordo con lei; ma
Ersilia, che doveva in tutto contrariare il marito, nossignore, volle prima
che un medico esaminasse il latte. - C'è bisogno
del medico? - disse Annicchia, ridendo. - Non vede come sto? Era raggiante
di salute, fresca e rosea. Ersilia, dal
letto, la guardò odiosamente, come se ella, con quelle parole, avesse
voluto attirare l'attenzione del marito. - Il medico!
Voglio subito il medico! - insistette. E il Mori,
borbottando la sua solita frase, dovette andare per il medico. Questi venne
verso sera, quando già Annicchia spasimava di nuovo per il seno
inturgidito, e il bambino, che non riusciva ad attaccarsi a quello, del
resto, arido della madre, trangosciava, affamato. Ennio avrebbe
voluto assistere alla visita; ma la moglie lo cacciò via: - Che hai da
vedere? Di' piuttosto a Margherita che porti un cucchiajo e un bicchier
d'acqua. - Bionda,
eh?... bionda... bionda... - diceva, in tanto, il medico che aveva in vezzo
ripetere tre e quattro volte di seguito la stessa parola, guardando con aria
astratta, come se stentasse ogni volta a fissare il pensiero. Annicchia, nel
vedersi osservata a quel modo, diventò rossa come un papavero. - Bionda, eh?
diciamo, gentilissima signora, - seguitava intanto il medico, - bionda, è
vero? gentilissima signora... Bella giovane... bella, e pare sana, anche
sana... Ma bruna, eh, bruna, bruna sarebbe stata meglio... Il latte delle
brune, sicuro, il latte delle brune... Basta, vediamo un po'. Fece alzare il
capo ad Annicchia e le esaminò le glandule del collo; dopo altre
osservazioni, distratto, cominciò a sbottonarle il corpetto. Annicchia,
tremante di vergogna, stupita e imbarazzata, cercò di impedirglielo,
riparandosi il seno con le mani. - Cava, eh?
cava fuori, - le disse il medico. Ersilia scoppiò
a ridere. - Perché...
perché ri... perché ride, gentilissima signora? - Ma non vede
come si vergogna codesta sciocca? - gli fece notare Ersilia. - Di me? Io
sono il medico! - Non c'è
avvezza, - riprese Ersilia. - E poi le nostre donne, sa, noi siciliane non
siamo mica come le donne di qua. - Ah, - fece
subito il medico, - capisco, capisco... so bene, so bene... più pudibonde,
eh? pudibonde... Ma io sono il medico; un medico è come il confessore.
Vediamo un po': spremi tu stessa qualche goccia in questo cucchiajo. Quanto
tempo ha il tuo figliuolo? - L'ho
comprato, - rispose Annicchia, forzandosi a guardarlo in volto, - che
saranno due mesi. - L'hai
comprato? che dici? - Come debbo
dire? - Ma fatto,
figliuola mia, fatto... I figliuoli si fanno... si fanno... Che c'è di
male? Quando il
medico finalmente, dopo l'esame del latte andò via, Annicchia si abbandonò
su una seggiola, sfinita come se avesse sostenuto una tremenda fatica: - Ah, signorina
mia, che vergogna! mi sentivo morire. Poco dopo,
udendo vagire il bambino, corse alla culla e subito gli porse il petto. - Tie', sàziati,
figlio bello mio, animuccia mia! Ersilia, dal
letto, la guatò di nuovo: le vide i biondi capelli dorati, spartiti nel
mezzo, in due bande che si ripiegavano sugli orecchi e le incorniciavano il
volto delicato; le intravide il seno meravigliosamente bianco e formoso; e
le disse, stizzita: - Sarebbe stato
meglio custodirlo, prima; e poi dargli il latte per addormentarlo. - Lo lasci
succhiare, poverino! - esclamò Annicchia. - Ha proprio fame! Se sentisse
come succhia, come succhia! Poco dopo,
nella camera accanto, destinata a lei e al piccino, non rifiniva
d'esclamare, ammirando la mobilia e i cortinaggi: - Gesù! che
cose, a Roma! che cose! E si sentì
impacciata davanti a quel letto nuovo, così bello, apparecchiato per lei.
Ricordò allora l'impaccio più vivo provato, due anni addietro, alla vista
di un altro letto, nel quale per la prima volta avrebbe dovuto coricarsi non
più sola: rivide col pensiero la sua casetta lontana, com'era già, allorché
Titta, senza quelle ideacce cattive che lo avevano rovinato, aveva messa su,
amorosamente, per le nozze; com'era adesso, squallida e nuda, con due
seggiole appena e un letto solo, per lei e per la suocera. Ora la vecchia
laggiù lo aveva tutto per sé, quel letto a due, poiché forse il bambino
dormiva in casa della vicina. Povero Luzziddu, così piccino, là, fuori di
casa, e con la mamma sua così lontana! Certo quella donna non poteva aver
per lui le cure che aveva per il proprio figliuolo; e Luzziddu, messo da
parte doveva aspettar quieto quel po' che avanzava: lui, lui che finora
aveva avuto tutta per sé la mamma sua! Annicchia si
mise a piangere; ma poi, temendo che qualcuno se n'avvedesse, asciugò le
lagrime e, per confortarsi, pensò che lì presso, a guardia, c'era la
nonna, la quale, all'occorrenza, avrebbe saputo farsi valere con quel suo
fare cupo e imperioso. Degna madre di Titta! Ma buona in fondo, com'era
buono Titta; certo col tempo si sarebbe convinta che, se la nuora aveva
osato disobbedire, vi era stata costretta dalla necessità e per il bene di
tutti. Ora, per
dimostrare quasi a sé stessa ch'era stato un sacrifizio il suo e che, nel
compierlo, aveva pensato soltanto al bene degli altri e non al suo, avrebbe
voluto dormire magari per terra e non lì, su quel letto signorile, sotto
quel cortinaggio: il piccino, lì, poiché tutta quella ricchezza era
profusa per lui; e lei per terra, come una cagna. Non le dava proprio
l'animo di entrare sotto quelle coperte, pensando allo strame su cui giaceva
il suo Luzziddu e a quello della suocera. Ma, di lì a
pochi giorni, il goffo e pomposo abbigliamento recato dalla sarta doveva
maggiormente offenderla in quel suo segreto sentimento. Erano proprio per
lei tutte quelle galanterie, grembiuli ricamati, nastri di raso, spilloni
d'argento? E doveva uscire così, come se dovesse andare a una mascherata? Ersilia, che già
s'era levata di letto, si stizzì acerbamente: - Uh, quante
smorfie! Me l'aspettavo. Qua usa così, e così devi vestire, ti piaccia o
non ti piaccia. - Come comanda
Vossignoria, - s'affrettò a risponderle Annicchia, per calmarla. - Mi
perdoni. Vossignoria ha speso tanti bei denari per me che non merito nulla.
E poi, che c'entra? Vossignoria è la padrona... Dicevo, che mi sembra
curioso... perché nel nostro paese... - Qua siamo a
Roma, - troncò Ersilia. - Del resto, stai benissimo. Era vero. Il
rosso acceso dello zendado dava un vivo risalto al biondo dei capelli,
all'azzurro degli occhi limpidi e gaj. Ersilia era certa che, uscendo a
passeggio con lei, avrebbe fatto una pessima figura; ma la vanità,
l'ambizione di aver la balia parata riccamente, erano più forti in lei
della stessa gelosia. La condusse con
sé, la prima volta, in carrozza. Annicchia,
infocata in volto dalla vergogna, teneva gli occhi bassi, sul piccino che le
giaceva in grembo. Ersilia intanto notava che tutti per via si fermavano e
si voltavano a mirarla. - Su, su, - le
disse, - tieni alta la testa. Non diamo spettacolo! Pare che t'abbiano
schiaffeggiata! Annicchia si
provò ad alzare gli occhi e a tener alta la testa. A poco a poco, la
maraviglia dello spettacolo insolito e grandioso della città le fece
scordar la vergogna, e si mise a guardare come allocchita, dove Ersilia le
indicava. - Gesù, Gesù,
- mormorava tra sé Annicchia, - che cose grandi! che cose... Rientrò in
casa, da quella prima passeggiata, stordita, quasi vacillante, con gli
orecchi che le ronzavano, come se fosse stata in mezzo a un tumulto e avesse
faticato tanto a uscirne. E si sentì di gran lunga, di gran lunga più
lontana dal suo paese, come non si sarebbe mai immaginato e quasi sperduta
in un altro mondo, che non le pareva ancor vero. - Gesù! Gesù! Intanto, di là,
il Mori dava a leggere alla moglie una lettera arrivata dalla Sicilia,
durante l'assenza di lei. La signora
Manfroni scriveva alla figlia che la vecchia Marullo le aveva rimandato il
denaro che ella secondo l'accordo con Annicchia, le aveva anticipato sulla
prima mesata del baliatico: la vecchia non aveva voluto neanche vederlo da
lontano; piuttosto, diceva, sarebbe morta di fame o sarebbe andata a
mendicare di porta in porta un tozzo di pane. Intanto, era venuta la vicina,
a cui Annicchia aveva affidato il bambino, a protestare contro quella
vecchia strega, che non le voleva dar nulla, neanche per provvedere ai
bisogni della creaturina. La signora Manfroni aggiungeva che aveva dato a
quella vicina metà della mesata, a patto però ch'ella desse ogni giorno
alla vecchia, come carità che partisse da lei, un piatto di minestra per
non farla proprio morir di fame. Consigliava alla figlia di non stare a
mandar l'altra metà che la Marullo non avrebbe mai accettato, e concludeva
dichiarandosi dolentissima di essersi cacciata in questo impiccio per aver
voluto seguire il consiglio altrui. - Il tuo bel
consiglio! - scattò Ersilia, ripiegando la lettera. - Non devi farne mai
una giusta! - Io? - rimbeccò
Ennio. - E che ho forse scritto alla tua degnissima signora madre che mi
scegliesse per balia la nuora d'una pazza furiosa? - No; ma di
volere una balia siciliana! Se non avessi avuto questa splendida idea, non
ci troveremmo ora in questi impicci. Del resto, va' là, va' là che ti
piace, e molto, la balietta siciliana! Già me ne sono accorta. Il Mori sgranò
tanto d'occhi. - La balia di
mio figlio? - Grida, grida:
fa' sentire tutto di là... - Prima mi
pungi, e poi vuoi che non gridi? Anche gelosa della balia di mio figlio,
adesso? Sei pazza? - Tu sei pazzo!
Avessi tu tanto sale qui, quanto ne ho io! Intanto, che si fa? che dobbiamo
farne, di questo denaro? - Non vorrai
mica, spero, spiattellarle che sua suocera lo rifiuta. - Ma figùrati!
Darle questo dispiacere? Me ne guarderei bene! Il Mori
perdette la pazienza e, scrollandosi rabbiosamente, andò via. IV. Gli toccava,
ora, anche questo: privarsi di fare una carezza, finanche di volgere uno
sguardo al suo piccino, perché la moglie sospettava già che la balia
potesse interpretar quelle carezze, quegli sguardi come rivolti a lei. - E perché, -
gli domandava ella, infatti, - perché non ti compiaci di tuo figlio quando
sta in braccio a me, e vai invece a fargli tante smorfie quando sta con
quella? Sdegnato,
avvilito di quell'ingiusto e odioso sospetto, Ennio le gridava: - Ma se con te
non ci sta mai! Il bambino,
ogni qual volta ella se lo prendeva in braccio, si metteva a piangere e
tendeva le manine alla balia. Forse ella lo teneva male, non tanto perché
non ci fosse avvezza, quanto per timore che potesse averne sporcate le
ricche vesti da camera di cui faceva grande sfoggio. Quantunque non
ricevesse mai visite e di rado uscisse di casa, pure spendeva enormemente
per gli abiti, dei quali alla fine restava sempre scontenta, come di tutto e
di sé stessa. Si sentiva, ed era forse davvero infelice; ma di questa sua
infelicità incolpava gli altri, anziché la propria indole scontrosa,
l'aspro carattere, la mancanza di ogni garbo. Era convinta che se si fosse
imbattuta in un altr'uomo che l'avesse amata e compresa, non avrebbe sentito
tutto quel vuoto che sentiva dentro e attorno a sé. Ora le era venuto in
uggia finanche il bambino, perché questi dimostrava di voler più bene alla
balia che a lei. E non passava giorno che, anneghittita in quell'ozio, non
piangesse di nascosto. Il marito le vedeva qualche volta gli occhi gonfi e
rossi, ma fingeva di non accorgersene; schivava quanto più poteva di
parlare con lei, ormai certo che, per quanto dicesse o facesse, non sarebbe
riuscito a ispirarle, a comunicarle quell'affetto per la vita, di cui ella
sentiva il desiderio smanioso, ma del quale nello stesso tempo la riteneva
incapace. Se l'aspettava dagli altri, la vita, senza intendere che ciascuno
deve farsela da sé. Del resto, se era infelice, non meno infelice era lui
che doveva viverci insieme. Bella esistenza, la sua! Tutto il giorno tappato
lì, nello studio. Meno male che, di tanto in tanto, venivano a trovarlo gli
amici del partito, coi quali poteva almeno sfogarsi, discutere liberamente. Durante quelle
discussioni, il vecchio scrivano dello studio era mandato in sala.
S'inchinava, ogni volta, profondamente, il signor Felicissimo Ramicelli a
quei signori rivoluzionari e usciva con molta dignità. Appena varcata la
soglia però, e richiuso l'uscio, strizzava un occhio, sollevava un piede e
si stropicciava, contentone, le mani; poi rizzandosi le punte dei baffetti
ritinti, andava a seder su la panca della sala d'ingresso, con la speranza
che vi capitasse Annicchia, la bella balietta siciliana. Già aveva
tentato d'attaccar discorso con lei: - Sai come mi
chiamo? Felicissimo. Ma Annicchia
pareva non capisse; gli voltava le spalle; e il signor Ramicelli diceva
allora a sé stesso: - Felicissimo,
eh già! Ma di che? Gli avevano
imposto, come un augurio, questo bel nome superlativo. - Grazie! - ma,
proprio, nella vita, non aveva trovato mai di che dichiararsi, non che
felice, ma neppure appena appena contento, il signor Ramicelli. Guadagnava
otto lirette al giorno, che gli sarebbero bastate forse, se non avesse avuto
un vizietto... un certo vizietto... - Eh, come si
fa? Le belle
donnine... Quell'Annicchia,
per esempio, che bocconcino! Ogni qualvolta la vedeva, si sentiva toccar
l'ugola. E gli pareva anche una buona ragazza: gli pareva, intendiamoci!
perché tutte le balie, si sa: ragazze andate a male, roba da... da guerra,
là! Annicchia,
notando le occhiate, i lezii da scimmia del signor Ramicelli, non sapeva se
dovesse riderne o aversene a male. Le sembrava tanto curioso quel vecchietto
ancora così biondo! Certo, se non era già andato via col cervello, poco ci
doveva mancare. Là, nella
saletta d'ingresso, ella tentava di mettere a prova i piedini del bimbo,
reggendolo sotto le ascelle. Non era ancor riuscita, dopo sei mesi, a
pronunziare correttamente il nome che il Mori aveva imposto al bambino:
Leonida. Lo chiamava Nònida. - Ma che Nònida!
- le diceva il signor Ramicelli, per stuzzicarla. - LE-O-nida. - Io non so
dirlo. - E
Felicissimo? Non sai dirlo neppure Felicissimo? Mi chiamo proprio così,
sai? Annicchia si
riprendeva in braccio il bambino e andava via dalla saletta, dicendo: - Non ci credo. - E neppure io,
- concludeva, filosoficamente, il signor Ramicelli, che restava lì ad
aspettare che la discussione nello studio terminasse. - Tattica...
Farabutti... L'educazione del proletariato... Programma minimo... - Queste e
simili espressioni giungevano, di tratto in tratto, a gli orecchi del
Ramicelli, il quale scoteva malinconicamente il capo e si volgeva piuttosto
a guardare verso l'uscio per cui era andata via la balia, e sospirava. Gli
giungeva di là, qualche volta, una certa ninna-nanna paesana, che Annicchia
cantava con voce dolce e malinconica, forse pensando al suo bambino, e
guardando intanto questo che già, col suo latte, s'era fatto grosso e
bello, anche più grosso di quanto aveva lasciato il suo, là! Ah, un
gigante, certo, si sarebbe fatto, povero Luzziddu, se ella avesse potuto
allattarlo! E invece... chi sa! Le passavano tante brutte ideacce per il
capo! Spesso se lo sognava infermo, magro magro, pelle e ossa, col colluccio
vizzo e un testone da rachitico che gli s'abbandonava ora su una spalluccia
ora sull'altra e gl'ingrossava di punto in punto, mentr'ella stava a
contemplarlo, raccapricciata, allibita: - Questo, il mio Luzziddu? così s'è
ridotto? - E voleva, nel sogno angoscioso, dargli il suo latte, subito
subito; ma il bambino allora la guardava con gli occhi cupi, truci della
nonna, e voltava la faccia, rifiutando il seno ch'ella gli porgeva. Che
strazio! Si destava col cuore in gola, e fino a giorno non riusciva a
togliersi dagli occhi l'immagine del figliuolo ridotto in quello stato. Non ardiva più,
intanto, di parlarne alla padrona che già più volte le aveva risposto
male, forse perché urtata della sua soverchia insistenza, o forse perché
temeva che ella - pensando troppo alla sua creaturina - trascurasse il
bimbo. Ma questo no, in coscienza: non poteva, né doveva dirlo: eccolo qua
Nònida, florido e vispo! Annicchia quasi
quasi non sapeva più riconoscere nella padrona d'oggi la signorina Ersilia
d'un tempo, così malamente si vedeva trattata: peggio d'una serva. Faceva
di tutto per lasciarla contenta, si piegava a tanti servizii a cui non era
obbligata, ora che Margherita, la sorda, era andata via; e si sforzava di
parere allegra e di rincorare anche la padrona che dava in ismanie e si
disperava per ogni nonnulla. - Eccomi qua,
ci sono io, faccio tutto io, signorina mia, non si confonda. Avrebbe voluto,
in compenso, un po' più di considerazione. Per esempio, quando arrivavano
le lettere dalla Sicilia... Gliele recava lei, tutta contenta, esultante: - Signorina!
Signorina! - Che c'è? Hai
preso un terno al lotto? La
agghiacciava, ogni volta, con quelle parole. Stava ad aspettarla ch'ella
finisse di leggere la lettera, sperando che le desse subito notizia del suo
bambino, ma che! nulla; doveva domandargliene lei, quando le vedeva
rimettere il foglio nella busta. - E di Luzziddu,
niente? - Sì; dice che
sta bene. - E mia
suocera, mia suocera? - Anche. Doveva
contentarsi di queste risposte. Ma possibile che di laggiù non le
mandassero a dire altro? Ah come si pentiva adesso di non avere imparato a
scrivere! Aveva, sì, supposto, partendo, che la lontananza le sarebbe
riuscita penosa; ma tanto poi no: era un vero supplizio, così! Il bambino, però,
tra pochi giorni, avrebbe compiuto sette mesi: a nove, per volontà del
padre, doveva essere svezzato: dunque, due mesi ancora di quelle sofferenze.
Pazienza! Non
s'aspettava, confortandosi e rassegnandosi così alla mala sorte, quel che
doveva accaderle proprio nel giorno che il bambino compiva il settimo mese:
giorno di doppia festa, perché a Nònida era anche spuntato il primo
dentuccio. Sentendo sonare
quel giorno il campanello alla porta, e parendole dalla scampanellata che
fosse il postino, s'era recata ad aprire tutta contenta, al solito; ma a un
tratto, senza aver avuto neanche il tempo d'accorgersi a chi avesse aperto,
s'era trovata per terra, intronata da un terribile schiaffo. Titta Marullo,
il marito, pallido, scontraffatto dall'ira, le era sopra, con un piede
alzato, per pestarle la faccia. - Brutta cagna!
Dov'è il tuo padrone? Al grido,
accorsero il Mori, la moglie, il signor Ramicelli. Titta Marullo, pallido
come un morto, si accostò al Mori, gli prese il bavero della giacca e,
scrollandoglielo pian piano: - Mio figlio è
morto, sai? Morto! - aggiunse, voltandosi verso Annicchia che aveva cacciato
un urlo. - E tu ora, che vuoi fare? Me lo paghi o vuoi darmi il tuo? - È pazzo! -
gridò Ersilia, tremando, spaventata. Il Mori
respinse con un urtone il Marullo, inclicandogli la porta, furente nel
corpicciuolo nervoso: - Via! - gridò.
- Mascalzone! Esci di casa mia, subito! - Che fai? -
gli disse il Marullo, venendogli avanti, a petto. - Io non ho più nulla da
perdere, bada! Mia madre è all'ospedale: mio figlio e morto! Sono venuto a
sputarti in faccia e a prendermi questa cagna. Su, alzati! - aggiunse,
rivolgendosi alla moglie che stava ancora buttata a terra. Ma, a questo
punto, il Ramicelli ch'era scappato via, non visto, ritornò ansante e
spaventato, insieme con due guardie di questura, alle quali subito il Mori,
che tremava tutto di rabbia, si rivolse, concitatissimo: - Via!
conducetelo via! È venuto a insultarmi, a minacciarmi fino in casa, codesto
mascalzone! Le due guardie
afferrarono per le braccia il Marullo che cercava di svincolarsi, gridando:
- Io voglio mia moglie! - e lo trascinarono via, seguiti dal Mori, che volle
recarsi in questura a denunziare l'aggressione patita. V. Il giorno dopo,
senza fretta, arrivò la lettera della signora Manfroni, che annunziava la
morte del bambino e la malattia della vecchia Marullo. Di Titta, nessun
cenno. Il Mori suppose
dapprima ch'egli fosse evaso dal domicilio coatto; ma poi venne a sapere che
era stato graziato per intercessione del prefetto, a cui la madre, ammalata,
aveva rivolto una supplica dall'ospedale. La questura di Roma, intanto, lo
aveva rimandato in Sicilia, sotto la minaccia che sarebbe tornato al suo
luogo di pena, se laggiù avesse minimamente tentato di sottrarsi alla
sorveglianza speciale, a cui era stato sottoposto per tre anni. Ad Annicchia,
per lo spavento del marito e lo strazio della morte del figlio, era
sopravvenuta una fierissima febbre. Parve per tre giorni che volesse
impazzire; poi il delirio, le allucinazioni cessarono; rimase come stordita,
in un istupidimento che costernava anche più delle furie di prima.
Guardava, e pareva non vedesse; udiva ciò che le si diceva, rispondeva di sì
col capo o con la voce, ma poi dimostrava di non aver compreso. Il latte le era
venuto meno; e il bambino si era dovuta svezzare. Tutta la casa era
sossopra. Ersilia, inesperta, inetta a tutto, aveva dovuto vegliar due notti
il bambino che voleva la balia e non si quietava un momento; aveva dovuto
anche attendere alla casa, dar le prime istruzioni alla nuova serva; badare
anche un po' alla malata; ed era su le furie contro il marito, che si
guardava attorno, con un giornale in mano, senza saper che fare. Ma che
avrebbe potuto fare? - Che? - gli
gridava la moglie. - Ma muoverti, darti attorno! Non vedi che io sono qua
sola, senza nessuno; col bambino in braccio; e non posso badare anche a lei
che mi ha cagionato tutto questo scompiglio? Va', esci, procura di trovarle
posto in qualche ospedale! Ennio, a tale
proposta, si fermava a guardarla trasecolato. - All'ospedale? - Pietà,
compassione? - riprendeva Ersilia, inviperita. - Per lei, è vero? non per
me, che non dormo più da tante notti, che non trovo più neanche il tempo
da pettinarmi. Devo fare la serva a tutti? Ma aspetta che si rimetta in
piedi, e ti farò vedere! Neanche un giorno, neanche un minuto deve rimanere
più in casa mia! Non ebbe però
il coraggio di porre a effetto questa minaccia, appena Annicchia si fu un
poco rimessa. Tentò di muovergliene il discorso, dichiarandole che teneva a
disposizione di lei il danaro che la suocera aveva rifiutato; ma Annicchia
le rispose: - E che vuole
che me ne faccia più, oramai? Non ho più che questo qua, ora! E si strinse al
seno Nònida, ch'era tornato a lei e le dimostrava lo stesso amore,
quantunque divezzato. La prima volta
che la serva glielo recò lì a letto, ne provò una viva repulsione; per
lui il suo bambino era morto! Ma poi, commossa dall'amorosa impazienza con
cui il piccino ignaro le tendeva le manine, se lo abbracciò stretto
stretto, come si sarebbe abbracciato il suo stesso figliuolo, e sciolse il
cordoglio che la soffocava in un pianto senza fine. Il piccino le
cercava ancora il seno. - Ah figlio, ah
figlio! che vuoi più da me? non ho più nulla, io, non posso dar più
nulla, io, né a te né a nessuno... Finì la mamma tua, amore mio, finì!
finì!... Ah se almeno
avesse potuto sapere con certezza come, perché fosse morto il suo bambino,
se per mancanza di nutrimento o per qualche male non curato. Doveva
rassegnarsi così, senza saperne nulla, più nulla? Possibile? Come fosse
morto un cagnolino! Oh povero innocente abbandonato, senza la mamma sua
accanto, senza il padre, senza nessuno, morto lì, fra mani estranee, oh
Dio! oh Dio! Ma chi si
curava, ora, della sua pena? La padrona, anzi, era in collera con lei, per
via del figlio, privato improvvisamente del latte, a soli sette mesi: e
aveva ragione, sì perché anche lei era mamma e non poteva darsi pensiero
che del suo figliuolo. Che importava a lei che quell'altro fosse morto?
Dispetto poteva sentirne, non dolore. «Sì, ma deve pur comprendere»,
pensava Annicchia, «che il suo figliuolo appartiene, ora, anche a me: che
se ella ci ha messo la pena di farlo, io ci ho rimesso il figlio per lui: e
ora non mi resta più altro.» Per quanto a
Ersilia non dispiacesse di sottrarsi al fastidio del bambino, pure non
voleva che questo s'affezionasse di più a colei, che già lo considerava
come suo. E si raffermava sempre più nel proposito di mandarla via. Del
resto, che obbligo aveva di tenerla ancora? Non era adatta né a far da
serva né da bambinaja. Ella poi voleva che il suo piccino imparasse a
parlar bene l'italiano, e, con quella accanto, che parlava soltanto in
dialetto, non sarebbe stato possibile. Dunque, via! via! O doveva forse
tenerla perché desse spettacolo della sua bellezza al marito? Via! via! E
il marito stesso doveva licenziarla. - Io? Perché
io? - le disse il Mori. - Perché tu
sei il capo di casa. E poi, perché non so che cosa ella si sia fitto in
mente, per la pietà, per la commiserazione che tu hai voluto dimostrarle in
questa occasione. - Io? - ripeté
Ennio. - Non le ho dimostrato nulla, io. - L'avrà forse
creduto lei, allora. Per me fa lo stesso. Non vedi? Crede già di essere a
casa sua. Le madri così, qua, le padrone di casa, saremmo due. Ora, se
questo può piacere a te, a me non piace! Ennio, pur
sapendo che faceva peggio, si provò ancora una volta a ragionare: - Ma scusa:
perché vuoi ostinarti a vedere il male dove non è, a crearti fantasmi
odiosi, quando io, con la mia vita di studio, di lavoro, non ti ho mai dato
cagione di dubitare di me? Hai visto che, per stare in pace, per
contentarti, mi sono finanche vietato di fare una carezza al mio bambino.
Diffidi ora di quella poveretta? Ma ti pare che possa sorriderle il pensiero
di tornare laggiù, dove non troverà più il figlio, dove troverà invece
un bruto, che la incolpa della morte del bambino e di cui lei ha paura?
Avendo perduto il proprio figliuolo, per esser venuta qua ad allattare il
nostro, crede d'aver acquistato il diritto di stare in casa nostra, presso a
quest'altro bambino, al quale ha sacrificato il suo. Non ti par giusto? non
ti par ragionevole? Ripeteva, senza
volerlo, quel che aveva scritto poco prima che la moglie entrasse nello
studio a parlargli. Riflettendo intorno al triste caso di quel bambino morto
laggiù in Sicilia, aveva pensato a un passo dell'opera del Malon Le
socialisme intégral; e, invece di farsene un rimorso, s'era proposto di
farne argomento d'una conferenza che avrebbe tenuto al Circolo Socialista
fra qualche giorno. Ersilia,
com'era da aspettarsi, si ribellò a quelle riflessioni umanitarie e uscì
dallo studio deliberata a licenziare sul momento Annicchia. Il Mori,
esasperato, afferrò le prime cartelle già scritte della conferenza e le
scaraventò a terra. Poco dopo, attraverso l'uscio chiuso, intese il pianto
disperato di quella disgraziata e le parole strazianti con cui pregava la
padrona di non mandarla via. - Mi tenga come
serva, senza darmi niente! Mi dia solo un tozzo di pane! quel che dovrà
buttar via! Dormirò magari per terra... Ma non mi scacci, per carità! Io
laggiù non posso, non posso più ritornare... Abbia pietà di me, lo faccia
per amore di questo innocente! Se lei mi scaccia, io mi perdo, signorina; io
mi perdo, ma laggiù non torno... Durarono a
lungo quel pianto e quelle angosciose preghiere. Poi il Mori non intese più
nulla: ritenne che Ersilia si fosse impietosita e avesse concesso a quella
poveretta di rimanere col bambino. Di lì a poco
entrò nello studio il signor Felicissimo Ramicelli, senza la consueta
dignità, infocato in volto e con gli occhietti lustri. Che vittoria!
che vittoria! Per poco non si fregava le mani, lì, sotto gli occhi
dell'avvocato, il signor Ramicelli. La bella balietta siciliana, scacciata
or ora dalla padrona, quella sera stessa sarebbe venuta a dormire in casa
sua. Eh, ma già, le balie - lui lo sapeva bene - tutte ragazze andate a
male, roba da... da guerra, là! Questa qui faceva ancora l'ingenua:
mostrava di credere d'aver compreso che lui la volesse soltanto per serva.
Eh sì, per serva... perché no? - Signor
Ramicelli! - Comandi,
signor avvocato! - Attento, eh?
Scrittura chiara e, mi raccomando, senza svolazzi né in su né in giù. E il Mori gli
porse da ricopiare le cartelle già scritte della conferenza. Poi seguitò: «L'eguaglianza
tra gli uomini secondo il socialismo, come diceva il Malon, si deve
intendere quindi in un duplice senso relativo: 1° che tutti gli uomini,
perché tali, abbiano assicurate le condizioni dell'esistenza; 2° che
quindi gli uomini siano uguali nel punto di partenza alla lotta per la vita
sicché ognuno svolga liberamente la propria personalità a parità di
condizioni sociali; mentre ora il bambino che nasce sano e robusto, ma
povero, deve soccombere nella concorrenza con un bambino nato debole ma
ricco...» - Signor
Ramicelli! - Avvocato!
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