NIENTE La botticella
che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma
davanti al freddo chiarore d'una vetrata opaca di farmacia all'angolo di
via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di
quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là - che diavolo? -
non s'apre. - Provi a
sonare, - suggerisce il vetturino. - Dove, come si
suona? - Guardi, c'è
lí il pallino. Tiri. Quel signore
tira con furia rabbiosa. -
Bell'assistenza notturna! E le parole,
sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi
andandosene in fumo. Si leva
lamentoso dalla prossima stazione il fischio d'un treno in partenza. Il
vetturino cava l'orologio; si china verso uno dei fanaletti; dice: - Eh, vicino le
tre... Alla fine il
giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirato
fin sopra gli orecchi, viene ad aprire. E subito il
signore: - C'è un
medico? Ma quegli,
avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza
le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi,
sbadigliando: - A quest'ora? Poi, per
interrompere le proteste dell'avventore, il quale - ma sí, Dio mio, sí -
tutta quella furia, sí, con ragione: chi dice di no? - ma dovrebbe pure
compatire chi a quell'ora ha anche ragione d'aver sonno - ecco, ecco, si
toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d'aspettare; poi,
di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia. Il vetturino
intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la
soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lí apertamente, al
cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarii
delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari. Perché è pure
un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui
deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente,
cosí, alla soddisfazione d'un piccolo bisogno naturale, e veder che tutto
rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la
piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviarii,
tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana
accanto alla stazione. Il laboratorio
della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e
appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso
davanti a un'immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto
all'entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La
tavola in mezzo, ingombra di bocce, vasetti, bilance, mortaj e imbuti,
impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto
a quello scaffale dirimpetto all'entrata, sia rimasto a dormire il medico
di guardia. - Eccolo, c'è
- dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d'omone che dorme
penosamente, tutto aggruppato e raffagottato, con la faccia schiacciata
contro la spalliera. - E lo chiami,
perdio! - Eh, una
parola! Capace di tirarmi un calcio, sa? - Ma è medico? - Medico,
medico. Il dottor Mangoni. - E tira calci? - Capirà,
svegliarlo a quest'ora... - Lo chiamo io! E il signore,
risolutamente, si china sul divanuccio e scuote il dormente. - Dottore!
dottore! Il dottor
Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl'invade quasi fin
sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti
per stirarsi; infine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi
sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul
grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all'antica
con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone. - Ecco,
dottore... Subito, la prego, - dice impaziente il signore. - Un caso
d'asfissia... - Col carbone?
- domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi. Alza una mano a
un gesto melodrammatico e, provandosi a tirar fuori la voce dalla gola
ancora addormentata, accenna l'aria della "Gioconda": Suicidio?
In questi fieeeriii momenti... Quel signore fa
un atto di stupore e d'indignazione. Ma il dottor Mangoni, subito,
arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo: - Scusi, -
dice, - è un suo parente? - Nossignore!
Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la
vettura. Se ha da prendere qualche cosa... - Sí, dammi...
dammi... - comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d'alzarsi, rivolto
al giovine di farmacia. - Penso io,
penso io, signor dottore, - risponde quello, girando la chiavetta della
luce elettrica e dandosi attorno tutt'a un tratto con una allegra fretta
che impressiona l'avventore notturno. Il dottor
Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per
difendersi gli occhi dalla súbita luce. - Sí, bravo
figliuolo, - dice. - Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov'è? L'elmo è il
cappello. Lo ha, sí. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d'averlo
posato, prima d'addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio. Dov'è
andato a finire? Si mette a
cercarlo. Ci si mette anche l'avventore; poi anche il vetturino, entrato a
riconfortarsi al caldo della farmacia. E intanto il commesso farmacista ha
tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti. - La siringa
per le iniezioni, dottore, ce l'ha? - Io? - si
volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in
quello uno scoppio di risa. - Bene bene.
Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina.
Una Pravaz. E l'ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d'ossigeno, mi
figuro. - Il cappello
ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! - grida tra gli sbuffi
il dottor Mangoni. E spiega che, tra l'altro, c'è affezionato lui a quel
cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni
addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell'Udienza,
Superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove
si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a
dormire, quando non è di guardia nelle farmacie. Finalmente il
cappello è trovato, non lí nel laboratorio ma di là, sotto il banco
della farmacia. Ci ha giocato il gattino. L'avventore
freme d'impazienza. Ma un'altra lunga discussione ha luogo, perché il
dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare
che il gattino, sí, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il
giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona
acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba,
che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su
le ventitré. - Ai suoi
ordini, pregiatissimo signore! - Un povero
giovine, - prende a dir subito il signore rimontando su la botticella e
stendendo la coperta su le gambe del dottore e su le proprie. - Ah, bravo!
Grazie. - Un povero
giovine che m'era stato tanto raccomandato da un mio fratello, perché gli
trovassi un collocamento. Eh già, capisce? come se fosse la cosa piú
facile del mondo; t-o-to, fatto. La solita storia. Pare che stiano
all'altro mondo, quelli della provincia: credono che basti venire a Roma
per trovare un impiego: t-o-to, fatto. Anche mio fratello, sissignore!
m'ha fatto questo bel regalo. Uno dei soliti spostati, sa: figlio d'un
fattore di campagna, morto da due anni al servizio di questo mio fratello.
Se ne viene a Roma, a far che? niente, il giornalista, dice. Mi presenta i
titoli: la licenza liceale e uno zibaldone di versi. Dice: "Lei mi
deve trovar posto in qualche giornale". Io? Roba da matti! Mi metto
subito in giro per fargli ottenere il rimpatrio dalla questura. E intanto,
potevo lasciarlo in mezzo alla strada, di notte? Quasi nudo, era; morto di
freddo, con un abituccio di tela che gli sventolava addosso; e due o tre
lire in tasca: non piú di tanto. Gli do alloggio in una mia casetta, qua,
a San Lorenzo, affittata a certa gente... lasciamo andare! Gentuccia che
subaffitta due camerette mobiliate. Non mi pagano la pigione da quattro
mesi. Me n'approfitto; lo ficco lí a dormire. E va bene! Passano cinque
giorni; non c'è verso d'ottenere il foglio di rimpatrio dalla questura.
La meticolosità di questi impiegati: come gli uccelli, sa? cacano da per
tutto, scusi! Per rilasciare quel foglio debbono far prima non so che
pratiche là, al paese; poi qua alla questura. Basta: questa sera ero a
teatro, al Nazionale. Viene, tutto spaventato, il figlio della mia
inquilina a chiamarmi a mezzanotte e un quarto, perché quel disgraziato
s'era chiuso in camera, dice, con un braciere acceso. Dalle sette di sera,
capisce? A questo punto
il signore si china un poco a guardare nel fondo della vettura il dottore
che, durante il racconto, non ha piú dato segno di vita. Temendo che si
sia riaddormentato, ripete piú forte: - Dalle sette
di sera! - Come trotta
bene questo cavallino, - gli dice allora il dottore Mangoni, sdrajato
voluttuosamente nella vettura. Quel signore
resta, come se al bujo abbia ricevuto un pugno sul naso. - Ma scusi,
dottore, ha sentito? - Sissignore. - Dalle sette
di sera. Dalle sette a mezzanotte, cinque ore. - Precise. - Respira però,
sa! Appena appena. È tutto rattrappito, e... - Che bellezza!
Saranno... sí, aspetti, tre... no, che dico tre? cinque anni saranno
almeno, che non vado in carrozza. Come ci si va bene! - Ma scusi, io
le sto parlando... - Sissignore.
Ma abbia pazienza, che vuole che m'importi la storia di questo
disgraziato? - Per dirle che
sono cinque ore... - E va bene!
Adesso vedremo. Crede lei che gli stia rendendo un bel servizio? - Come? - Ma sí,
scusi! Un ferimento in rissa, una tegola sul capo, una disgrazia
qualsiasi... prestare ajuto, chiamare il medico, lo capisco. Ma un
pover'uomo, scusi, che zitto zitto si accuccia per morire? - Come! -
ripete, vieppiù trasecolato, quel signore. E il dottor
Mangoni, placidissimo: - Abbia
pazienza. Il piú l'aveva fatto, quel poverino. Invece del pane, s'era
comperato il carbone. Mi figuro che avrà sprangato l'uscio, no? otturato
tutti i buchi; si sarà magari alloppiato prima; erano passate cinque ore;
e lei va a disturbarlo sul piú bello! - Lei scherza!
- grida il signore. - No no; dico
sul serio. - Oh perdio! -
scatta quello. - Ma sono stato disturbato io, mi sembra! Sono venuti a
chiamarmi... - Capisco, già,
a teatro. - Dovevo
lasciarlo morire? E allora, altri impicci, è vero? come se fossero pochi
quelli che m'ha dati. Queste cose non si fanno in casa d'altri, scusi! - Ah, sí, sí;
per questa parte, sí, ha ragione, - riconosce con un sospiro il dottor
Mangoni. - Se ne poteva andare a morire fuori dai piedi, lei dice. Ha
ragione. Ma il letto tenta, sa! Tenta, tenta. Morire per terra come un
cane... Lo lasci dire a uno che non ne ha! - Che cosa? - Letto. - Lei? Il dottor
Mangoni tarda a rispondere. Poi, lentamente, col tono di chi ripete una
cosa già tant'altre volte detta: - Dormo dove
posso. Mangio quando posso. Vesto come posso. E subito
aggiunge: - Ma non creda
oh, che ne sia afflitto. Tutt'altro. Sono un grand'uomo, io, sa? Ma
dimissionario. Il signore
s'incuriosisce di quel bel tipo di medico in cui gli è avvenuto cosí per
caso d'imbattersi; e ride, domandando: -
Dimissionario? Come sarebbe a dire dimissionario? - Che capii a
tempo, caro signore, che non metteva conto di nulla. E che anzi, quanto piú
ci s'affanna a divenir grandi, e piú si diventa piccoli. Per forza. Ha
moglie lei, scusi? - Io?
Sissignore. - Mi pare che
abbia sospirato dicendo sissignore. - Ma no, non ho
sospirato affatto. ¾ E allora,
basta. Se non ha sospirato, non ne parliamo piú. E il dottor
Mangoni torna a rannicchiarsi nel fondo della vettura, dando a vedere cosí
che non gli pare piú il caso di seguitare la conversazione. Il signore ci
resta male. - Ma come
c'entra mia moglie, scusi? Il vetturino a
questo punto, si volta da cassetta e domanda: - Insomma, dov'è?
A momenti siamo a Campoverano! - Uh, già! -
esclama il signore. - Volta! volta! La casa è passata da un pezzo. - Peccato
tornare indietro, - dice il dottor Mangoni, ¾ quando s'è quasi arrivati
alla mèta. Il vetturino
volta, bestemmiando. Una scaletta
buja, che pare un antro dirupato: tetra umida fetida. - Ahi!
Maledizione. Diòòòdiodio! - Che cos'è?
s'è fatto male? - Il piede.
Ahiahi. Ma non ci avrebbe un fiammifero, scusi? - Mannaggia!
Cerco la scatola. Non la trovo! Alla fine, un
barlume che viene da una porta aperta sul pianerottolo della terza branca. La sventura,
quando entra in una casa, ha questo di particolare: che lascia la porta
aperta, cosí che ogni estraneo possa introdursi a curiosare. Il dottor
Mangoni segue zoppicando il signore che attraversa una squallida saletta
con un lumino bianco a petrolio per terra presso l'entrata; poi, senza
chieder permesso a nessuno, un corridojo bujo, con tre usci: due chiusi,
l'altro, in fondo, aperto e debolmente illuminato. Nello spasimo di quella
storta al piede, trovandosi col sacco dell'ossigeno in mano, gli viene la
tentazione di scaraventarlo alle spalle di quel signore; ma lo posa per
terra, si ferma, si appoggia con una mano al muro, e con l'altra, tirato
su il piede, se lo stringe forte alla noce, provandosi a muoverlo in qua e
in là, col volto tutto strizzato. Intanto, nella
stanza in fondo al corridojo, è scoppiata, chi sa perché, una lite tra
quel signore e gl'inquilini. Il dottor Mangoni lascia il piede e fa per
muoversi, volendo sapere che cosa è accaduto, quando si vede venire
addosso come una bufera quel signore che grida: - Sí, sí, da
stupidi! da stupidi! da stupidi! Fa appena a
tempo a scansàrlo; si volta, lo vede inciampare nel sacco d'ossigeno: - Piano! piano,
per carità! Ma che piano!
Quello allunga un calcio al sacco; se lo ritrova tra i piedi; è di nuovo
per cadere e, bestemmiando, scappa via, mentre sulla soglia della stanza
in fondo al corridojo appare un tozzo e goffo vecchio in pantofole e
papalina, con una grossa sciarpa di lana verde al collo, da cui emerge un
faccione tutto enfiato e paonazzo, illuminato dalla candela stearica,
sorretta in una mano. - Ma scusi...
dico, o che era meglio allora, che lo lasciavamo morire qua, aspettando il
medico? Il dottor
Mangoni crede che si rivolga a lui e gli risponde: - Eccomi qua,
sono io. Ma quello alza
e protende la mano con la stearica; lo osserva, e come imbalordito gli
domanda: - Lei? chi? - Non diceva il
medico? - Ma che
medico! ma che medico! - insorge, strillando, nella camera di là, una
voce di donna. E si precipita
nel corridojo la moglie di quel degno vecchio in pantofole e papalina,
tutta sussultante, con una nuvola di capelli grigi e ricci per aria, gli
occhi affumicati ammaccati e piangenti, la bocca tagliata di traverso,
oscenamente dipinta, che le freme convulsa. Sollevando il capo da un lato,
per guardare, soggiunge imperiosa: - Se ne può
andare! se ne può andare! Non c'è piú bisogno di lei! L'abbiamo fatto
trasportare al Policlinico, perché moriva! E cozzando in
un braccio il marito violentemente: - Fallo andar
via! Ma il marito dà
uno strillo e un balzo perché, cosí cozzato nel braccio, ha avuto sulle
dita la sgocciolatura calda della candela. - Eh, piano,
santo Dio! Il dottor
Mangoni protesta, ma senza troppo sdegno, che non è un ladro, né un
assassino da esser mandato via a quel modo; che se è venuto, è perché
sono andati a chiamarlo in farmacia; che per ora ci ha guadagnato soltanto
una storta al piede, per cui chiede che lo lascino sedere almeno per un
momento. - Ma si figuri,
qua, venga, s'accomodi, s'accomodi, signor dottore, - s'affretta a dirgli
il vecchio, conducendolo nella stanza in fondo al corridojo; mentre la
moglie, sempre col capo sollevato da un lato per guardare come una gallina
stizzita, lo spia impressionata da tutta quella feroce barba fin sotto gli
occhi. - Bada, oh, se
per aver fatto il bene, - dice ora, ammansata, a mo' di scusa, - ci si
deve anche prendere i rimproveri! - Già, i
rimproveri, - soggiunge il vecchio cacciando la candela accesa nel
bocciuolo della bugia sul tavolino da notte accanto al lettino vuoto,
disfatto, i cui guanciali serbano ancora l'impronta della testa del
giovinetto suicida. Quietamente si toglie poi dalle dita le gocce
rapprese, e seguita: - Perché dice
che nossignori, non si doveva portare all'ospedale, non si doveva. - Tutto
annerito era! - grida, scattando, la moglie. ¾ Ah, quel visino. Pareva
succhiato. E che occhi! E quelle labbra, nere, che scoprivan qua, qua, i
denti, appena appena. Senza piú fiato... E si copre il
volto con le mani. - Si doveva
lasciarlo morire senza ajuto? - ridomanda placido il vecchio. - Ma sa
perché s'è arrabbiato? Perché sospetta, dice, che quel povero ragazzo
sia un figlio bastardo di suo fratello. ¾ E ce l'aveva
buttato qua, - riprende la moglie balzando in piedi di nuovo, non si sa se
per rabbia o per commozione. - Qua, per far nascere in casa mia questa
tragedia, che non finirà per ora, perché la mia figliuola, la maggiore,
se n'è innamorata, capisce? Come una pazza, vedendolo morire - ah, che
spettacolo! - se l'è caricato in collo, io non so com'ha fatto! se l'è
portato via, con l'ajuto del fratello, giú per le scale, sperando di
trovare una carrozza per istrada. Forse l'hanno trovata. E mi guardi, mi
guardi là quell'altra figliuola, come piange. Il dottor
Mangoni, entrando, ha già intraveduto nell'attigua saletta da pranzo una
figliolona bionda scarmigliata intenta a leggere, coi gomiti sulla tavola
e la testa tra le mani. Legge e piange, sí; ma col corpetto sbottonato e
le rosee esuberanti rotondità del seno quasi tutte scoperte sotto il lume
giallo della lampada a sospensione. Il vecchio
padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani
gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la
figliuola sta leggendo di là fra tante lagrime. Le poesie del giovinetto. - Un poeta! -
esclama. - Un poeta, che se lei sentisse... cose! Me ne intendo, perché
professore di belle lettere a riposo. Cose grandi, cose grandi. E si reca di là
per prendere alcune di quelle poesie; ma la figliuola con rabbia se le
difende, per paura che la sorella maggiore, ritornando col fratello
dall'ospedale, non gliele lascerà piú leggere, perché vorrà tenersele
per sé gelosamente, come un tesoro di cui lei sola dev'esser l'erede. - Almeno
qualcuna di queste che hai già lette, - insiste timidamente il padre. Ma quella,
curva con tutto il seno su le carte, pesta un piede e grida: - No! - Poi
le raccoglie dalla tavola, se le ripreme con le mani sul seno scoperto e
se le porta via in un'altra stanza di là. Il dottor
Mangoni si volta allora a guardar di nuovo quella tristezza di lettino
vuoto, che rende vana la sua visita; poi guarda la finestra che, non
ostante il gelo della notte, è rimasta aperta in quella lugubre stanza
per farne svaporare il puzzo del carbone. La luna
rischiara il vano di quella finestra. Nella notte alta, la luna. Il dottor
Mangoni se la immagina, come tante volte, errando per vie remote, l'ha
veduta, quando gli uomini dormono e non la vedono piú, inabissata e come
smarrita nella sommità dei cieli. Lo squallore di
quella stanza, di tutta quella casa, che è una delle tante case degli
uomini, dove ballonchiano tentatrici, a perpetuare l'inconcludente miseria
della vita, due mammelle di donna come quelle ch'egli ha or ora
intravedute sotto il lume della lampada a sospensione nella stanza di là,
gl'infonde un cosí frigido scoraggiamento e insieme una cosí acre
irritazione, che non gli è piú possibile rimanere seduto. Si alza,
sbuffando, per andarsene. Infine, via, è uno dei tanti casi che gli
sogliono capitare, stando di guardia nelle farmacie notturne. Forse un po'
piú triste degli altri, a pensare che probabilmente, chi sa! era un poeta
davvero quel povero ragazzo. Ma, in questo caso, meglio cosí: che sia
morto. - Senta, - dice
al vecchio che s'è alzato anche lui per riprendere in mano la candela. -
Quel signore che li ha rimproverati e che è venuto a scomodarmi in
farmacia, dev'essere veramente un imbecille. Aspetti: mi lasci dire. Non
già perché li ha rimproverati, ma perché gli ho domandato se aveva
moglie, e mi ha risposto di sí; ma senza sospirare. Ha capito? Il vecchio lo
guarda a bocca aperta. Evidentemente non capisce. Capisce la moglie, che
salta su a domandargli: - Perché chi
dice d'aver moglie, secondo lei, dovrebbe sospirare? E il dottor
Mangoni, pronto: - Come
m'immagino che sospira lei, cara signora, se qualcuno le domanda se ha
marito. E glielo
addita. Poi riprende: - Scusi, a quel
giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua
figliuola? Quella lo
guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde: - E perché no? - E se lo
sarebbero preso qua con loro in questa casa? - torna a domandare il dottor
Mangoni. E quella, di
nuovo: - E perché no? - E lei, -
domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, - lei che se
n'intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche
consigliato di stampare quelle sue poesie? Per non esser
da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui: - E perché no? - E allora, -
conclude il dottor Mangoni, - me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono
per lo meno due volte piú imbecilli di quel signore. E volta le
spalle per andarsene. - Si può
sapere perché? - gli grida dietro la donna inviperita. Il dottor
Mangoni si ferma e le risponde pacatamente: - Abbia
pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria,
se faceva poesie. Ora pensi un po' che cosa gli sarebbe diventata la
gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto
di versi. E l'amore? L'amore che è la cosa piú viva e piú santa che ci
sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L'amore: una
donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola. - Oh! oh! -
minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. - Badi come parla
della mia figliuola! - Non dico
niente, - s'affretta a protestare il dottor Mangoni. - Me l'immagino anzi
bellissima e adorna di tutte le virtú. Ma sempre una donna, cara signora
mia: che dopo un po' santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i
figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po'? Il mondo,
dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il
mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato!
Una casa. Questa casa. Ha capito? E facendo
scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va,
zoppicando e borbottando: - Che libri! Che donne! Che casa! Niente... niente... niente... Dimissionario! dimissionario! Niente.
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