LE SORPRESE DELLA SCIENZA Avevo ben
capito che l'amico Tucci, nell'invitarmi con quelle sue calorose e
pressanti lettere a passare l'estate a Milocca, in fondo non desiderava
tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi
restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto
coraggio, in tanti anni d'infaticabile operosità. Aveva preso a
suo rischio e ventura certi terreni paludosi che ammorbavano quel paese, e
ne aveva fatto i campi piú ubertosi di tutto il circondario: un paradiso! Non mi faceva
grazia nelle sue lettere di nessuno dei tanti palpiti che quella bonifica
gli era costata e di nessuno dei tanti mezzi escogitati, dei tanti guaj
che gli erano diluviati, di nessuna delle tante lotte sostenute, lui solo
contro Milocca tutta: lotte rusticane e lotte civili. Per invogliarmi
forse maggiormente, nell'ultima lettera mi diceva tra l'altro che aveva
preso in moglie una saggia massaja, massaja in tutto: otto figliuoli in
otto anni di matrimonio (due a un parto), e un nono per via; che aveva
anche la suocera in casa, bravissima donna che gli voleva un mondo di
bene, e anche il suocero in casa, perla d'uomo, dotto latinista e mio
sviscerato ammiratore. Sicuro. Perché la mia fama di scrittore era volata
fino a Milocca, dacché in un giornale s'era letto non so che articolo che
parlava di me e d'un mio libro, dove c'era un uomo che moriva due volte.
Leggendo quell'articolo di giornale, l'amico Tucci s'era ricordato d'un
tratto che noi eravamo stati compagni di scuola tant'anni, al Liceo e
all'Università, e aveva parlato entusiasticamente del mio straordinario
ingegno a suo suocero, il quale subito s'era fatto venire il libro di cui
quel giornale parlava. Ebbene,
confesso che proprio quest'ultima notizia fu quella che mi vinse. Non càpita
facilmente agli scrittori italiani la fortuna di veder la faccia dabbene
d'uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro benavventurato.
Presi il treno e partii per Milocca. Otto ore buone
di ferrovia e cinque di vettura. Ma piano, con
questa vettura! Cent'anni fa, non dico, sarà anche stata non molto
vecchia; forse qualche molla, cent'anni fa, doveva averla ancora, anche se
tre o quattro razzi delle ruote davanti e cinque o sei di quelle di dietro
erano di già attorti di spago cosí come si vedevano adesso. Cuscini, non
ne parliamo! Là, su la tavola nuda; e bisognava sedere in punta in punta,
per cansare il rischio che la carne rimanesse presa in qualche fessura,
giacché il legno, correndo, sganasciava tutto. Ma piano, con questo
correre! Doveva dirlo la bestia. E quella bestia lí non diceva nulla: s'ajutava
perfino col muso a camminare. Sí, centomila volte sí, scambio dei piedi,
voleva metterci le froge per terra, come ce le metteva, povera decrepita
rozza, tanto gli zoccoli sferrati le facevano male. E quel boja di
vetturino intanto aveva il coraggio di dire che bisognava saperla guidare,
lasciarla andare col suo verso, perché ombrava, ombrava e, a frustarla,
ritta gli si levava come una lepre, certe volte, quella bestiaccia lí. E che strada!
Non posso dire d'averla proprio veduta bene tutta quanta, perché in certi
precipizii vidi piuttosto la morte con gli occhi. Ma c'erano poi le
pettate che me la lasciavano ammirare per tutta un'eternità, tra i
cigolii del legno e il soffiar di quella rozza sfiancata, che accorava. Da
quanti mai secoli non era stata piú riattata quella strada? - Il pan delle
vetture è il brecciale, - mi spiegò il vetturino. - Se lo mangiano con
le ruote. Quando manchi il brecciale, si mangiano la strada. E se l'erano
mangiata bene oh, quella strada! Certi solchi che, a infilarli, non dico,
ci s'andava meglio che in un binario, da non muoversene piú però,
badiamo! ma, a cascarci dentro per uno spaglio della bestia, si ribaltava
com'è vero Dio ed era grazia cavarne sano l'osso del collo. - Ma perché le
lasciano cosí senza pane le vetture a Milocca? - domandai. - Perché?
Perché c'è il progetto, - mi rispose il vetturino. - Il...? - Progetto,
sissignore. Anzi, tanti progetti, ci sono. C'è chi vuol portare la via
ferrata fino a Milocca, e chi dice il tram e chi l'automobile. Insomma si
studia, ecco, per poi riparare come faccia meglio al caso. - E intanto? - Intanto io mi
privo di comperare un altro legno e un'altra bestia, perché, capirà, se
mettono il treno o il tram o l'automobile, posso fischiare. Arrivai a
Milocca a sera chiusa. Non vidi nulla,
perché secondo il calendario doveva esserci la luna, quella sera; la luna
non c'era; i lampioni a petrolio non erano stati accesi; e dunque non ci
si vedeva neanche a tirar moccoli. Villa Tucci era
a circa mezz'ora dal paese. Ma, o che la rozza veramente non ne potesse piú
o che avesse fiutato la rimessa lí vicina, come diceva sacrando il
vetturino, il fatto è che non volle piú andare avanti nemmeno d'un
passo. E non seppi
darle torto, io. Dopo cinque ore
di compagnia, m'ero quasi quasi medesimato con quella bestia: non avrei
voluto piú andare avanti neanch'io. Pensavo: "Chi sa,
dopo tant'anni, come ritroverò Merigo Tucci! Già me lo ricordo cosí in
nebbia. Chi sa come si sarà abbrutito a furia di batter la testa contro
le dure, stupide realtà quotidiane d'una meschina vita provinciale! Da
compagno di scuola, egli mi ammirava; ma ora vuol essere ammirato lui da
me, perché - buttati via i libri - s'è arricchito; mentr'io, là! potrò
farmi giulebbare dal suocero dotto latinista, il quale, figuriamoci! mi
farà scontare a sudore di sangue le tre lirette spese per il mio libro. E
otto marmocchi poi, e la suocera, Dio immortale, e la nuora buona massaja.
E questo paese che Tucci mi ha decantato ricchissimo e che intanto si fa
trovare al bujo, dopo quella stradaccia lí e questo legnetto qua per
accogliere gli ospiti. Dove son venuto a cacciarmi?" Mentre mi
pascevo comodamente di queste dolci riflessioni, la rozza, piantata lí su
i quattro stinchi, si pasceva a sua volta d'una tempesta di frustate,
imperturbabilmente. Alla fine il vetturino, stanco morto di quella sua
gran fatica, disperato e furibondo, mi propose di andare a piedi. - È qui
vicino. La valigia gliela porto io. - E andiamo,
su! Sgranchiremo le gambe, - dissi io, smontando. - Ma la via è buona,
almeno? Con questo bujo... - Lei non tema.
Andrò io avanti; lei mi terrà dietro, piano piano, con giudizio. Fortuna ch'era
bujo! Quel ch'occhio non vede, cuore non crede. Quando però il giorno
dopo vidi quell'altra strada lí, restai basito, non tanto perché c'ero
passato, quanto per il pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso
che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali terribili prove vuol dire
che m'ha predestinato. Fu cosí forte
l'impressione che mi fece quella strada e poi l'aspetto di quel paese -
squallido, nudo, in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o
un orrendo cataclisma; senza vie, senz'acqua, senza luce -
che la villa dell'amico mio e l'accoglienza ch'egli mi fece con
tutti i suoi e l'ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a
confronto. - Ma come! -
dissi al Tucci. - Questo è il paese ricco e felice, tra i piú ricchi e
felici del mondo? E Tucci,
socchiudendo gli occhi: - Questo. E te
ne accorgerai. Mi venne di
prenderlo a schiaffi. Perché non s'era mica incretinito quel pezzo
d'omaccione là; pareva anzi che l'ingegno naturale, con l'alacrità e
l'esperienza della vita, nelle dure lotte contro la terra e gli uomini,
gli si fosse ingagliardito e acceso; e gli sfolgorava dagli occhi ridenti,
da cui io, sciupato e immalinconito dalle vane brighe della città, roso
dalle artificiose assidue cure intellettuali, mi sentivo commiserato e
deriso a un tempo. Ma se, ad onta
delle mie previsioni, dovevo riconoscer lui, Merigo Tucci, degno veramente
d'ammirazione, quel paesettaccio no e poi no, perdio! Ricco? felice? - Mi canzoni? -
gli gridai. - Non avete neanche acqua per bere e per lavarvi la faccia,
case da abitare, strade per camminare, luce la sera per vedere dove andate
a rompervi il collo, e siete ricchi e felici? Va' là, ho capito, sai. La
solita retorica! La ricchezza e la felicità nella beata ignoranza, è
vero? Vuoi dirmi questo? - No, al
contrario, - mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo
studiatamente alla mia stizza altrettanta calma. - Nella scienza, caro
mio! La felicità nostra è fondata nella scienza piú occhialuta che
abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sí, staremmo freschi
veramente, se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m'insegni. Che
salvaguardia può esser piú l'ignoranza in tempi come i nostri?
Promettimi che non mi domanderai piú nulla fino a questa sera. Ti farò
assistere a una seduta del nostro Consiglio comunale. Appunto questa sera
si discuterà una questione di capitalissima importanza: l'illuminazione
del paese. Tu avrai dalle cose stesse che vedrai e sentirai la
dimostrazione piú chiara e piú convincente di quanto ti ho detto.
Intanto, la ricchezza nostra è nelle meravigliose cascate di Chiarenza
che ti farò vedere, e nelle terre che sono, grazie a Dio, cosí fertili,
che ci dàn tre raccolti all'anno. Ora vedrai; vieni con me. Passò tutto;
mi sobbarcai a tutto; mi sorbii come decottini a digiuno tutti gli spassi
e le distrazioni della giornata, col pensiero fisso alla dimostrazione che
dovevo avere quella sera al Municipio della ricchezza e della felicità di
Milocca. Tucci, ad
esempio, mi fece visitare palmo per palmo i suoi campi? Gli sorrisi. Mi
fece una nuova e piú diffusa spiegazione della sua grande impresa lí su
i luoghi? Gli sorrisi. E davvero l'impeto delle correnti aveva sgrottato
tutte le terre e a lui era toccato asciugare e rialzar le campagne,
corredandole della belletta, del grassume prezioso? Sí? davvero? Oh che
piacere! Gli sorrisi. Ma far la roba è niente: a governarla ti voglio! E
dunque gli ulivi si governano ogni tre anni con tre o quattro corbelli di
sugo sostanzioso, pecorino? Sí? davvero? Oh che piacere! E gli sorrisi
anche quando in cantina, con un'aria da Carlomagno, mi mostrò quattro
lunghe andane di botti, e anche lí mi spiegò come valga piú saper
governare il tino che la botte e com'egli facesse piú colorito il vino e
come gli accrescesse forza e corpo mescolandovi certe qualità d'uve
scelte, spicciolate, ammostate da sé, senza mai erbe, mai foglie di
sambuco o di tiglio, mai tannino o gesso o catrame. E sorrisi anche
quando, piú morto che vivo, rientrai in villa e mi vidi venire incontro
la tribù dei marmocchi in processione, i quali, mostrandomi rotti i
giocattoli che avevo loro donati la sera avanti, mi domandavano con un
lungo, strascicato lamento, uno dopo l'altro, tra lagrime senza fine: - Peeerché
queeesto m'hai portaaato? - Peeerché
queeesto m'hai portaaato? Carini! carini!
carini! E sorrisi anche
al suocero, mio ammiratore, il quale -
sissignori - era
cieco, cieco da circa dieci anni e del mio libro non conosceva che qualche
paginetta che il genero gli aveva potuto leggere di sera, dopo cena.
Voleva egli ora che glielo leggessi io, il mio libro? Ma subito! E fu una
vera fortuna per lui, che non potesse vedere il mio sorriso, e tutti
quelli che gli porsi poi, ogni qualvolta il brav'uomo, ch'era
straordinariamente erudito, m'interrompeva nella lettura (oh, quasi a ogni
rigo!) per domandarmi con buona grazia se non credessi per avventura che
avrei fatto meglio a usare un'altra parola invece di quella che avevo
usata, o un'altra frase, o un altro costrutto, perché Daniello Bartoli,
sicuro, Daniello Bartoli... Finalmente
arrivò la sera! Ero vivo ancora, non avrei saputo dir come, ma vivo, e
potevo avere la famosa dimostrazione che Tucci mi aveva promesso. Andammo insieme
al Municipio, per la seduta del Consiglio comunale. Era, come la
maestra e donna di tutte le case del paese, la piú squallida e la piú
scura: una catapecchia grave in uno spiazzo sterposo, con in mezzo un
fosco cisternone abbandonato. Vi si saliva per una scalaccia buja,
intanfata d'umido, stenebrata a malapena da due tisici lumini filanti, di
quelli con le spere di latta, appiccati al muro quasi per far vedere come
ornati di stucco, no, per dir la verità, non ce ne fossero, ma gromme di
muffa, sí, e tante! Saliva con noi
una moltitudine di gente, attirata dalla discussione di gran momento che
doveva svolgersi quella sera; saliva con un contegno, anzi con un cipiglio
che doveva per forza meravigliare uno come me, abituato a non vedere mai
prendere sul serio le sedute d'un Consiglio comunale. La meraviglia
mi era poi accresciuta, dall'aria, dall'aspetto di quella gente, che non
mi pareva affatto cosí sciocca da doversi con tanta facilità contentare
d'esser trattata com'era, cioè a modo di cani, dal Municipio. Tucci fermò
per la scala un tozzo omacciotto aggrondato, barbuto, rossigno, che,
evidentemente, non voleva esser distratto dai pensieri che lo gonfiavano. - Zagardi, ti
presento l'amico mio... E disse il mio
nome. Quegli si voltò di mala grazia e rispose appena, con un grugnito,
alla presentazione. Poi mi domandò a bruciapelo: - Scusi, com'è
illuminata la sua città? - A luce
elettrica, - risposi. E lui, cupo: - La compiango.
Sentirà stasera. Scusi, ho fretta. E via, a balzi,
per il resto della scala. - Sentirai, -
mi ripeté Tucci, stringendomi il braccio. - È formidabile! Eloquenza
mordace, irruente. Sentirai! - E intanto ha
il coraggio di compiangermi? - Avrà le sue
ragioni. Su, su, affrettiamoci, o non troveremo piú posto. La mastra sala,
la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui quelli della
scala avevano ben poco da invidiare, pareva un'aula di pretura delle piú
sudice e polverose. I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano
della piú venerabile antichità; ma, a considerarli bene nelle loro
relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che ora
passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti
cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo
purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati cosí, ma per
la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che
in loro, naturalmente, erano divenuti tarli. Tucci mi mostrò
e mi nominò a dito i consiglieri piú autorevoli: l'Ansatti, tra i
giovani, rivale dello Zagardi, tozzo e barbuto anche lui, ma bruno; il
Colacci, vecchio gigantesco, calvo, sbarbato, dalla pinguedine floscia; il
Maganza, bell'uomo, militarmente impostato, che guardava tutti con
rigidezza sdegnosa. Ma ecco, ecco il sindaco in ritardo. Quello? Sí,
Anselmo Placci. Tondo, biondo, rubicondo: quel sindaco stonava. - Non stona,
vedrai, - mi disse Tucci. - È il sindaco che ci vuole. Nessuno lo
salutava; solo il Colacci gigantesco gli s'accostò per battergli forte la
mano su la spalla. Egli sorrise, corse a prender posto sul suo seggio,
asciugandosi il sudore, e sonò il campanello, mentre il capo-usciere gli
porgeva la nota dei consiglieri presenti. Non mancava nessuno. Il segretario,
senza aspettar l'ordine, aveva preso a leggere il verbale della seduta
precedente, che doveva essere redatto con la piú scrupolosa diligenza,
perché i consiglieri che lo ascoltavano accigliati approvavano di tratto
in tratto col capo, e infine non trovarono nulla da ridire. Prestai ascolto
anch'io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e sgomento, a
guardare l'amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava
come niente di Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in
quel verbale, e saltavan fuori nomi d'illustri scienziati d'ogni nazione e
calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui i capelli
del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man
mano ch'egli leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente.
Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in punta di piedi, recavano a
questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti. - Nessuno ha da
fare osservazioni al verbale? - domandò alla fine il sindaco,
stropicciandosi le mani paffutelle e guardando in giro. - Allora s'intende
approvato. L'ordine del giorno reca: - Discussione del Progetto presentato
dalla Giunta per un impianto idro-termo-elettrico nel Comune di Milocca. -
Signori Consiglieri! Voi conoscete già questo progetto e avete avuto
tutto il tempo d'esaminarlo e di studiarlo in ogni sua parte. Prima di
aprire la discussione, consentite che io, anche a nome dei colleghi della
Giunta, dichiari che noi abbiamo fatto di tutto per risolvere nel minor
tempo e nel modo che ci è sembrato piú conveniente, sia per il decoro e
per il vantaggio del paese, sia rispetto alle condizioni economiche del
nostro Comune, il gravissimo problema dell'illuminazione. Aspettiamo
dunque fiduciosi e sereni il vostro giudizio, che sarà equo certamente; e
vi promettiamo fin d'ora, che accoglieremo ben volentieri tutti quei
consigli, tutte quelle modificazioni che a voi piacerà di proporre,
ispirandovi come noi al bene e alla prosperità del nostro paese. Nessun segno
d'approvazione. E si levò
prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall'impostatura
militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú
che per distruggere e atterrare quel fantastico edificio di cartapesta
(sic), ch'era il progetto della Giunta, poche parole sarebbero bastate.
Poche parole e qualche cifra. E punto per
punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con
straordinaria lucidità d'idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei
lavori e delle spese; la sanzione che si doveva dare per l'acquisto della
concessione dell'acqua di Chiarenza; i rischi gravissimi a cui sarebbe
andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio
dell'esercizio; l'insufficienza della somma preventivata, che saltava agli
occhi di tutti coloro che avevano fatto impianti meccanici e sapevano come
fosse impossibile contener le spese nei limiti dei preventivi,
specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di
massima e con l'evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il
carattere impegnativo che aveva l'offerta dell'accollatario, fermi
restando i dati su i quali l'offerta medesima era fondata; dati che per
forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai
lavori idraulici, con varianti e aggiunte agl'impianti meccanici; e ciò
oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza maggiore, e a
tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero
mancati. Come poi fare appunti particolareggiati senza avere a
disposizione i disegni d'esecuzione e i dati necessarii? Eppure due enormi
lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le
spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire
lavori cosí grandiosi, cosí estesi, cosí varii e delicati, senza gravi
spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e amministrative; e
l'altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in
principio la Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente
ammetteva. E qui il
consigliere Maganza, con l'ajuto dei libri che gli avevano recati gli
uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione
scientifica, parlando della forza dei torrenti e delle cascate e di prese
e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e di condotte
elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza
idraulica, oltre la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison
di Milano e l'Alta Italia di Torino e ciò che per simili impianti s'era
fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino. Eran passate
circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di finire. Il
pubblico stipato pendeva dalle labbra dell'oratore, per nulla oppresso da
tanta copia d'irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú
fiato; eppure lo stupore mi teneva lí, con gli occhi sbarrati e a bocca
aperta. Ma, alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s'agitava, non già
per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse cosí: - La dura
esperienza in altre città, o signori, ha purtroppo dimostrato che
gl'impianti idro-termo-elettrici sono della massima difficoltà e serbano
dolorosissime sorprese. Nessuno può far miracoli, e tanto meno, su la
base d'un cosí fatto progetto, potrà farne il Municipio di Milocca! Scoppiarono
frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo banco ad
abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando
man mano al suo posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti: - Si osa
proporre, o signori, oggi, oggi, come se noi ci trovassimo dieci o venti
anni addietro, al tempo di Galileo Ferraris, si osa proporre un impianto
idro-termo-elettrico a Milocca! Ah come mi metterei a ridere, se potesse
parermi uno scherzo! Ma coi denari dei contribuenti, o signori della
Giunta, non è lecito scherzare, ed io non rido, io m'infiammo anzi di
sdegno! Un impianto idro-termo-elettrico a Milocca, quando già spunta su
l'orizzonte scientifico la gloria consacrata di Pictet? Non vi farò il
torto di credere, o signori, che voi ignoriate chi sia l'illustre
professor Pictet, colui che con un processo di produzione economica
dell'ossigeno industriale prepara una memoranda rivoluzione nel mondo
della scienza, della tecnica e dell'industria, una rivoluzione che
sconvolgerà tutto il macchinismo della vita moderna, sostituendo questo
nuovo elemento di luce e di calore a tutti quelli, di potenza molto
minore, che finora sono in uso! E con questo
tono e con crescente fuoco, il consigliere Ansatti spiegò al pubblico
attonito e affascinato la scoperta del Pictet, e come col sistema da lui
inventato le fiamme delle reticelle Auer sarebbero arrivate alle altissime
temperature di tre mila gradi, aumentando di ben venti volte la loro
luminosità; e come la luce cosí ottenuta sarebbe stata, a differenza di
tutte le altre, molto simile a quella solare; e che se poi, al posto del
gas, si fosse messa un'altra miscela derivante da un trattamento del
carbon fossile col vapore acqueo e l'ossigeno industriale, il potere
calorifico sarebbe aumentato di altre sei volte! Mentr'egli
spiegava questi prodigi, il consigliere Zagardi, suo rivale, quello che mi
aveva compianto per la scala, sogghignava sotto sotto. L'Ansatti se ne
accorse e gli gridò: - C'è poco da
sogghignare, collega Zagardi! Dico e sostengo di altre sei volte! Ci ho
qui i libri; te lo dimostrerò! E glielo
dimostrò, difatti; e alla fine, balzando da quella terribile
dimostrazione piú vivo e piú infocato di prima, concluse, rivolto alla
Giunta: - Ora in quali
condizioni, o ciechi amministratori, in quali condizioni d'inferiorità si
troverebbero il Municipio e il paese di Milocca, coi loro miserabili 1000
cavalli di forza elettrica, quando questo enorme rivolgimento sarà
nell'industria e nella vita un fatto compiuto? - Scusami, -
diss'io piano all'amico Tucci, mentre gli applausi scrosciavano nella sala
con tale impeto che il tetto pareva ne dovesse subissare, - levami un
dubbio: non è intanto al bujo il paese di Milocca? Ma Tucci non
volle rispondermi: - Zitto! Zitto!
Ecco che parla Zagardi! Sta' a sentire! Il tozzo
omacciotto barbuto s'era infatti levato, col sogghigno ancora su le
labbra, torcendosi sul mento, con gesto dispettoso, il rosso pelo
ricciuto. - Ho
sogghignato, - disse, - e sogghigno, collega Ansatti, nel vederti cosí
tutto fiammante d'ossigeno industriale, paladino caloroso del professor
Pictet! Ho sogghignato e sogghigno, collega Ansatti, non tanto di sdegno
quanto di dolore, nel vedere come tu, cosí accorto, tu, giovane e vigile
bracco della scienza, ti sia fermato alla nuova scoperta di quel professor
francese e, abbagliato dalla luce venti volte cresciuta delle reticelle
Auer, non abbia veduto un piú recente sistema d'illuminazione che il
Municipio di Parigi va sperimentando per farne poi l'applicazione generale
nella ville lumière. Io dico il Lusol, collega Ansatti, e non iscioglierò
inni in gloria della nuova scoperta, perché non con gl'inni si fanno le
rivoluzioni nel campo della scienza, della tecnica e dell'industria, ma
con calcoli riposati e rigorosi. E qui lo
Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta rossigna,
piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità
meravigliosa delle lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione
dello stoppino e la capillarità bastavano a determinare senz'alcun
meccanismo l'ascesa del liquido illuminante, la sua vaporizzazione e la
sua mescolanza alla forte proporzione d'aria che rendeva la fiamma piú
viva e sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per
un miserabilissimo centesimo si sarebbe ormai avuta la stessa luce che si
aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a otto o dieci con
l'ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol
non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né
canalizzazioni. Non aveva egli dunque ragione di sogghignare? O fosse per la
tempesta suscitata nella poca aria della sala dalle deliranti acclamazioni
e dai battimani del pubblico, o fosse per mancanza d'alimento, essendosi
la seduta già protratta oltre ogni previsione, il fatto è che, alla fine
del discorso dello Zagardi, i lumi si abbassarono di tanto, che si era
quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il vecchio
gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un
altro e poi un terzo entrarono come fantasmi nell'aula, reggendo ciascuno
una candela stearica. L'aspettazione nel pubblico era intensa;
indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata, nella
semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco
che con ampii gesti e voce tonante magnificava la Scienza, feconda madre
di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di sempre nuove energie e
di piú splendida vita. Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato
l'Ansatti e lo Zagardi, era piú possibile sostenere l'impianto
idro-termo-elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto il
paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo
delle grandi scoperte, e ogni Amministrazione che avesse veramente a cuore
il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle
sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro
d'interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi
consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista
dei nuovi studii e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la
luce al paese di Milocca. - Hai capito? - mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio. - E cosí per l'acqua, e cosí per le strade, e cosí per tutto. Da una ventina d'anni il Colacci si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare alla luce, mentre i lumi si spengono, e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte. Cosí noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te.
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