LA
PATENTE
Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d'occhi e di mani,
curvandosi, come chi regge rassegnatamente su le spalle un peso
insopportabile, il magro giudice D'Andrea soleva ripetere: «Ah, figlio
caro!» a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo
strambo modo di vivere!
Non era ancor
vecchio; poteva avere appena quarant'anni; ma cose stranissime e quasi
inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli
bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione
di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D'Andrea.
E pareva ch'egli,
oltre che della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse
notizia certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto
sparuto viso di bianco eran potuti venire quei capelli crespi gremiti da
negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli,
che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel
groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e
sconforto tutta la magra, misera personcina.
Così sbilenco, con
una spalla più alta dell'altra, andava per via di traverso, come i cani.
Nessuno però, moralmente, sapeva rigar più diritto di lui. Lo dicevano
tutti.
Vedere, non aveva
potuto vedere molte cose, il giudice D'Andrea; ma certo moltissime ne
aveva pensate, e quando il pensare è più triste, cioè di notte.
Il giudice D'Andrea
non poteva dormire.
Passava quasi tutte
le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi
capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come
polle di luce, guizzanti e pungenti le altre; e metteva le più vive in
rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e,
socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia
la luce d'una di quelle stelle, e tra l'occhio e la stella stabiliva il
legame d'un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l'anima a passeggiare
come un ragnetto smarrito.
Il pensare così di
notte non conferisce molto alla salute. L'arcana solennità che acquistano
i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sè una
certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla
sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria costipazione.
Costipazione d'anima, s'intende. E al giudice D'Andrea, quando si faceva
giorno, pareva una cosa buffa e atroce nello stesso tempo, ch'egli dovesse
recarsi al suo ufficio d'Istruzione ad amministrare - per quel tanto che a
lui toccava - la giustizia ai piccoli poveri uomini feroci.
Come non dormiva
lui, così sul suo tavolino nell'ufficio d'Istruzione non lasciava mai
dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore
il desinare e di rinunziar la sera, prima di cena, alla solita passeggiata
coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese.
Questa puntualità,
considerata da lui come dovere imprescindibile, gli accresceva
terribilmente il supplizio. Non solo d'amministrare la giustizia gli
toccava; ma d'amministrarla così, su due piedi.
Per poter essere
meno frettolosamente puntuale, credeva d'aiutarsi meditando la notte. Ma,
neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli
da negro e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a
quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua qualità di giudice
istruttore; così che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata
e ostacolata la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto
enormemente lo stento di tenersi stretto a quell'odiosa sua qualità di
giudice istruttore.
Eppure, per la
prima volta, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino
del giudice D'Andrea. E per quel processo che stava lì da tanti giorni in
attesa, egli era in preda a un'irritazione smaniosa, a una tetraggine
soffocante.
Si sprofondava
tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto,
gli si chiudevano. Con la penna in mano, dritto sul busto, il giudice
D'Andrea si metteva allora a pisolare, prima raccorciandosi, poi
attrappandosi come un baco infratito che non possa più fare il bozzolo.
Appena, o per
qualche rumore o per un crollo più forte del capo, si ridestava e gli
occhi gli andavano lì, a quell'angolo del tavolino dove giaceva
l'incartamento, voltava la faccia e, serrando le labbra, tirava con le
nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto più dentro
poteva, ad allargar le viscere contratte dall'esasperazione, poi la
ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si
portava una mano sul naso adunco a regger le lenti che, per il sudore, gli
scivolavano.
Era veramente
iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata
ingiustizia contro alla quale un pover'uomo tentava disperatamente di
ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C'era in quel processo una
vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela
con due, lì in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto
mano, e sissignori - la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza
remissione, ribadendo così, ferocemente, l'iniquità di cui quel
pover'uomo era vittima.
A passeggio, di
parlarne coi colleghi, ma questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro,
cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si
ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto
allungavano l'indice e il mignolo a far le corna, o s'afferravano sul
panciotto i gobbetti d'argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti
dalla catena dell'orologio. Qualcuno, più francamente, prorompeva:
- Per la Madonna
Santissima, ti vuoi star zitto?
Ma non poteva
starsi zitto il magro giudice D'Andrea. Se n'era fatta proprio una
fissazione, di quel processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne.
Per avere un qualche lume dai colleghi - diceva - per discutere così in
astratto il caso.
Perché, in verità,
era un caso insolito e speciosissimo quello d'un jettatore che si
querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto
gli occhi nell'atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.
Diffamazione? Ma
che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era
diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli
testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e
tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama,
ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei
due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il
gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra
tutti - eccoli là - gli stessi giudici?
E il D'Andrea si
struggeva; si struggeva di più incontrando per via gli avvocati, nelle
cui mani si erano messi quei due giovanotti, l'esile e patitissimo
avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello di rapina, e il grasso
Manin Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno
comperato per l'occasione e ridendo con tutta la pallida carnaccia di
biondo maiale eloquente, prometteva ai concittadini che presto in
tribunale sarebbe stata per tutti una magnifica festa.
Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella «magnifica
festa» alle spalle d'un povero disgraziato, il giudice D'Andrea prese
alla fine la risoluzione di mandare un usciere in casa del Chiàrchiaro
per invitarlo a venire all'ufficio d'Istruzione. Anche a costo di pagar
lui le spese, voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrandogli
quattro e quattr'otto che quei due giovanotti non potevano essere
condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile
sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una più crudele
persecuzione.
Ahimè, è proprio
vero che è molto più facile fare il male che il bene, non solo perché
il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno;
ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno di aver fatto il bene
rende spesso così acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero
beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo.
Se n'accorse bene
quella volta il giudice D'Andrea, appena alzò gli occhi a guardar il Chiàrchiaro,
che gli era entrato nella stanza, mentr'egli era intento a scrivere. Ebbe
uno scatto violentissimo e buttò all'aria le carte, balzando in piedi e
gridandogli:
- Ma fatemi il
piacere! Che storie son queste? Vergognatevi!
Il Chiàrchiaro
s'era combinata una faccia da jettatore, ch'era una meraviglia a vedere.
S'era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e
cespugliata; si era insellato sul naso un paio di grossi occhiali
cerchiati d'osso, che gli davano l'aspetto d'un barbagianni; aveva poi
indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.
Allo scatto del
giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse
sottovoce:
- Lei dunque non ci
crede?
- Ma fatemi il
piacere! - ripeté il giudice D'Andrea. - Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro!
O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua.
E gli s'accostò e
fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò
come un mulo, fremendo:
- Signor giudice,
non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com'è vero Dio, diventa cieco!
Il D'Andrea stette
a guardarlo freddamente, poi disse:
- Quando sarete
comodo... Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c'è una sedia,
sedete.
Il Chiàrchiaro
sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d'India a mo'
d'un matterello, si mise a tentennare il capo.
- Per il mio bene?
Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non
credere alla jettatura?
Il D'Andrea sedette
anche lui e disse:
- Volete che vi
dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene così?
- Nossignore, - negò
recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. - Lei
deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo!
- Questo sarà un
po' difficile, - sorrise mestamente il D'Andrea. - Ma vediamo di
intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete
preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.
- Via? porto? Che
porto e che via? - domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro.
- Né questa
d'adesso, - rispose il D'Andrea, - né quella là del processo. Già l'una
l'altra scusate, son tra loro così.
F il giudice
D'Andrea infrontò gl'indici delle mani per significai che le due vie gli
parevano opposte.
Il Chiàrchiaro si
chinò e tra i due indici così infrontati del giudice ne inserì uno suo,
tozzo, peloso e non molto pulito.
- Non è vero
niente, signor giudice! - disse, agitando quel dito.
- Come no? - esclamò
il D'Andrea. - Là accusate come diffamatori due giovani
perché vi credono
jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di
jettatore e pretendete anzi ch'io creda alla vostra jettatura.
- Sissignore.
- E non vi pare che
ci sia contraddizione?
Il Chiàrchiaro
scosse più volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa
commiserazione.
- Mi pare
piuttosto, signor giudice, - poi disse, - che lei non capisca niente.
Il D'Andrea lo
guardò un pezzo, imbalordito.
- Dite pure, dite
pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è
scappata dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non
capisco niente.
- Sissignore.
Eccomi qua, - disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola. - Non solo le
farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio
mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene.
Il mio più acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto
il patrocinio dell'avvocato Manin Baracca?
- Sì. Questo lo
so.
- Ebbene,
all'avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato
a fornire le prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da più
d'un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove
anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi
su cui è edificata incrollabilmente, incrollabilmente, capisce, signor
giudice? La mia fama di jettatore!
- Voi? Dal Baracca?
- Sissignore, io.
Il giudice lo guardò,
più imbalordito che mai:
- Capisco anche
meno di prima. Ma come? Per render più sicura l'assoluzione di quei
giovanotti? E perché allora vi siete querelato?
Il Chiàrchiaro
ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice
D'Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria:
- Ma perché io
voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non
capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia
potenza spaventosa, che è ormai l'unico mio capitale!
E ansimando,
protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d'India e rimase
un pezzo impostato in quell'atteggiamento grottescamente imperioso.
Il giudice D'Andrea
si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté: Povero caro
Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne
fai? che te ne fai?
- Che me ne faccio?
- rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. - Lei, padrone mio, per esercitare
codesta professione di giudice, anche così male come la esercita, mi dica
un po', non ha dovuto prender la laurea?
- La laurea, sì.
- Ebbene, voglio
anch'io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col
bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.
- E poi?
- E poi? Me lo
metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno
assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov'ero
scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far
debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie
paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più
sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da
Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini,
e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi
resta altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono
parato così, con questi occhiali, con quest'abito; mi sono lasciato
crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi
domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!
- Io?
- Sissignore. Perché
mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli
altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in
questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir
nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a
tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti,
tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico la tassa
della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto
odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo
d'avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta
una intera città!
Il giudice
D'Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che
l'angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non
volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli
occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte
forte, a lungo.
Questi lo lasciò
fare.
- Gli vuol bene
davvero? - gli domandò. E allora istruisca subito il processo, e in modo
da farmi avere al più presto quello che desidero.
- La patente?
Il Chiàrchiaro
protese di nuovo il braccio, batté la canna d'India sul pavimento e,
portandosi l'altra mano al petto, ripeté con tragica solennità:
- La patente.
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