O
DI UNO O DI NESSUNO
Chi era stato? Uno de' due, certamente. O forse un
terzo, ignoto. Ma no: in coscienza né l'uno né l'altro de' due amici
avevano alcun motivo di sospettarlo. Melina era buona, modesta; e poi, così
disgustata dell'antica sua vita; a Roma non conosceva nessuno; viveva
appartata e, se non proprio contenta, si dimostrava gratissima della
condizione che le avevano fatta, richiamandola due anni addietro da
Padova, dove, studenti allora d'università, l'avevano conosciuta.
Vinto insieme un
concorso al Ministero della guerra, collegata la loro vita in tutto, Tito
Morena e Carlino Sanni avevano stimato prudente e giudizioso, due anni
addietro, cioè ai primi aumenti dello stipendio, provvedere anche insieme
al bisogno indispensabile d'una donna, che li curasse e salvasse dal
rischio a cui erano esposti, seguitando ciascuno per suo conto a cercare
una qualche sicura stabilità d'amore, di contrarre un tristo legame, non
men gravoso d'un matrimonio, per adesso e forse per sempre conteso loro
dalle ristrettezze finanziarie e difficoltà della vita.
E avevano pensato a
Melina, tenera e dolce amica degli studenti padovani, che erano soliti
andar a trovare in via del Santo, nelle sere d'inverno e di primavera lassù.
Melina sarebbe stata la più adatta per loro: avrebbe recato con sè da
Padova tutti i lieti ricordi della prima, spensierata gioventù. Le
avevano scritto; aveva accettato; e allora (giudiziosamente, come sempre)
avevano disposto che ella non coabitasse con loro. Le avevano preso in
affitto due stanzette modeste in un quartiere lontano, fuori di porta, e
li andavano a trovarla, ora l'uno ora l'altro, così come s'erano
accordati, senza invidia e senza gelosia.
Tutto era andato
bene per due anni, con soddisfazione d'entrambi.
D'indole mitissima,
di poche parole e ritegnosa, Melina si era mostrata amica a tutt'e due,
senz'ombra di preferenza né per l'uno né per l'altro. Erano due bravi
giovani, bene educati e cordiali. Certo, uno - Tito Morena - era più
bello; ma Carlino Sanni (che non era poi brutto neanche lui, quantunque
avesse la testa d'una forma curiosa) molto più vivace e grazioso
dell'altro.
L'annunzio
inatteso, di quel caso impreveduto, gettò i due amici in preda a una
profonda costernazione.
Un figlio!
Uno di loro due era
stato, certamente; chi de' due, né l'uno né l'altro, né la stessa
Melina potevano sapere. Era una sciagura per tutti e tre; e nessuno de'
due amici s'arrischiò a domandare dapprima alla donna: « Tu chi
credi? » per timore che l'altro potesse sospettare ch'egli intendesse
con ciò di sottrarsi alla responsabilità, rovesciandola soltanto addosso
a uno; né Melina tentò minimamente d'indurre l'uno o l'altro a credere
che il padre fosse lui.
Ella era nelle mani
di tutti e due, e a tutti e due, non all'uno né all'altro, voleva
affidarsi. Uno era stato; ma chi de' due ella non solo non poteva dire, ma
non voleva nemmeno supporre.
Legati ancora alla
propria famiglia lontana, con tutti i ricordi dell'intimità domestica,
Carlino Sanni e Tito Morena sapevano che quest'intimità non poteva più
essere per loro, staccati come già ne erano per sempre. Ma, in fondo,
erano rimasti come due uccellini che, sotto le penne già cresciute e per
necessità abituate al volo, avessero serbato e volessero custodir
nascosto il tepore del nido che li aveva accolti implumi. Ne provavano
intanto quasi vergogna, come per una debolezza che, a confessarla, avrebbe
potuto renderli ridicoli.
E forse
l'avvertimento di questa vergogna cagionava loro un segreto rimorso. E il
rimorso, a loro insaputa, si manifestava in una certa acredine di parole,
di sorrisi, di modi, che essi credevano invece effetto di quella vita
arida, priva di cure intime, in cui più nessun affetto vero avrebbe
potuto metter radici, che eran costretti a vivere e a cui dovevano ormai
abituarsi, come tanti altri. E negli occhi chiari, quasi infantili, di
Tito Morena lo sguardo avrebbe voluto avere una durezza di gelo. Spesso lo
aveva; ma pure talvolta quello sguardo gli si velava per la commozione
improvvisa di qualche lontano ricordo; e allora quella velatura di gelo
era come l'appannarsi dei vetri d'una finestra, per il caldo di dentro e
il freddo di fuori. Carlino Sanni, dal canto suo, si raschiava con le
unghie le gote rase e rompeva con lo stridore dei peli rinascenti certi
angosciosi silenzii interiori e si richiamava all'ispida realtà del suo
vigor maschile che, via, gl'imponeva ormai d'esser uomo, vale a dire, un
po' crudele.
S'accorsero,
all'annunzio inatteso della donna, che, senza saperlo e senza volerlo,
ciascuno, dimenticandosi dell'altro e anche della voluta durezza e della
voluta crudeltà, aveva messo in quella relazione con Melina tutto il
proprio cuore, per quel segreto, cocente bisogno d'intimità familiare. E
avvertirono un sordo astio, un'agra amarezza di rancore, non propriamente
contro la donna, ma contro il corpo di lei che nell'incoscienza
dell'abbandono, aveva evidentemente dovuto prendersi più dell'uno che
dell'altro. Non gelosia, perché il tradimento non era voluto. Il
tradimento era della natura; ed era un tradimento quasi beffardo.
Cecamente, di soppiatto, la natura s'era divertita a guastar quel nido che
essi volevano credere costruito più dalia loro saggezza, che dal loro
cuore.
Che fare, intanto?
La maternità in
quella ragazza assumeva per la loro coscienza un senso e un valore, che li
turbava tanto più profondamente in quanto sapevano che ella non si
sarebbe affatto ribellata, se essi non avessero voluto rispettargliela; ma
li avrebbe in cuor suo giudicati ingiusti e cattivi.
Era in lei tanta
dolcezza dolente e rassegnata! Con gli occhi, il cui sguardo talvolta
esprimeva il sorriso mesto delle labbra non mosse, diceva chiaramente che
lei, non ostante quell'ambiguo suo stato, da due anni, mercé loro, si
sentiva rinata. E appunto da questo suo rinascere alla modestia degli
antichi sentimenti, dovuto a loro, al modo con cui essi, quasi a loro
insaputa, l'avevano trattata, proveniva la sua maternità, il rifiorire di
essa che, nella trista arsura del vizio non amato, s'era per tanti anni
isterilita.
Ora, non sarebbero
venuti meno, d'improvviso, crudelmente, alla loro opera stessa,
ricacciando Melina nell'avvilimento di prima, impedendole di raccogliere
il frutto di tutto il bene che le avevano fatto?
Questo i due amici
avvertivano in confuso nel turbamento della coscienza. E forse, se
ciascuno dei due avesse potuto esser sicuro che il figlio era suo, non
avrebbe esitato ad assumersene il peso e la responsabilità, persuadendo
l'altro a ritrarsi. Ma chi poteva dare all'uno o all'altro questa
certezza?
Nel dubbio
inovviabile i due amici decisero che, senza dirne nulla per adesso a
Melina, quando sarebbe stata l'ora l'avrebbero mandata a liberarsi in
qualche ospizio di maternità, da cui quindi sarebbe ritornata a loro,
sola.
II
Melina non chiese nulla: intuì la loro decisione; ma intuì pure con
quale animo entrambi la avevano presa. Lasciò passare qualche tempo;
quando le parve il momento opportuno, a Carlino Sanni che quella sera si
trovava con lei, mostrò con gli occhi bassi e un timido sorriso sulle
labbra una pezza di tela comperata il giorno avanti co' suoi risparmi.
- Ti piace?
Il giovine finse,
dapprima, di non comprendere. Esaminò, appressandosi al lume la tela, con
gli occhi, col tatto:
- Buona, - disse. -
E... quanto l'hai pagata?
Melina alzò gli
occhi, ove la malizietta sorrideva implorante:
- Oh, poco, -
rispose. - Indovina?
- Quanto?
- No... dico, perché
l'ho comperata.
Carlino si strinse
nelle spalle, fingendo ancora di non comprendere.
- Oh bella! perché
ti bisognava. Ma l'hai comperata da te, e non dovevi. Potevi dirci che ti
bisognava.
Melina allora alzò
la tela e vi nascose la faccia. Stette un pezzo così; poi, con gli occhi
pieni di lagrime, scotendo amaramente il capo, disse:
- Dunque, no?
proprio no, è vero? non debbo... non debbo preparar nulla?
E vedendo, a questa
domanda supplichevole, restare il giovine tra confuso e seccato e
commosso, subito gli prese una mano, lo attirò a sè e s'affrettò a
soggiungere con foga:
- Senti, Carlino,
senti, per carità! io non voglio nulla, non chiedo nulla di più. Come ho
comperato questa tela, così con altri piccoli risparmi potrei provvedere
io a tutto. No, senti, stammi prima a sentire, senz'alzar le spalle, senza
farmi cotesti occhiacci. Guarda, ti giuro, ti giuro che non n'avrete mai
nessun fastidio, nessun peso, mai! Lasciami dire. M'avanza tanto tempo,
qua. Ho imparato a lavorare per voi; seguiterò sempre a lavorare; oh,
potete star sicuri che non vi mancheranno mai le mie cure! Ma ecco, vedi,
badando a voi, come faccio, alla vostra biancheria, ai vostri abiti,
m'avanza ancora tanto tempo, tanto che - lo sai - ho imparato a leggere e
a scrivere, da me! Ebbene, ora lascerò questo, e cercherò altro lavoro,
da fare qui in casa; e sarò felice, credimi! credimi! Non vi chiederò
mai nulla, Carlino, mai nulla! Concedetemi questa grazia, per carità! Sì?
sì?
Carlino schivava di
guardarla, voltando la testa di qua e di là, e alzava una spalla e apriva
e chiudeva le mani e sbuffava.
Prima di tutto,
via, ci voleva poco a intendere che lui, così su due piedi, e senza
consultare l'altro, non poteva darle nessuna risposta. E poi, sì, era
presto detto nessun peso, nessun fastidio. Il peso, il fastidio sarebbero
stati il meno! La responsabilità, la responsabilità d'una vita, perdio,
che a uno dei due apparteneva di certo, ma a quale dei due non si poteva
sapere. Ecco, era questo! era questo!
- Ma a me, Carlino?
- rispose pronta, con ardore, Melina. - A me appartiene di certo! E la
responsabilità... perché dovete assumervela voi? Me l'assumo io, ti
dico, intera.
- E come? - gridò
il giovine.
- Come? Ma così,
me l'assumo! Stammi a sentire, per carità! Guarda, tra dieci anni,
Carlino, chi sa quante cose potranno accadere a voi due! Tra dieci anni...
E quand'anche voleste seguitare a vivere così, tutti e due insieme, tra
dieci anni, che sarò più io? non sarò più certo buona per voi; vi
sarete certo stancati di me. Ebbene: fino a dieci anni sarà ancora
ragazzo il mio figliuolo, e non vi darà né spesa né fastidio perché
provvederò io a tutto col mio lavoro. Ma capisci che ora che ho imparato
a lavorare, non posso più buttarlo via? Lo terrò con me; mi darà qui
conforto e compagnia; e poi, quando voi non mi vorrete più, avrò lui
almeno, avrò lui, capisci? Lo so, non devi né puoi dirmi di sì, per
ora, da solo. Perché l'ho detto prima a te, e non a Tito? Non lo so! Il
cuore mi ha suggerito così. E anche lui tanto buono, Tito! Parlagliene
tu, come credi, quando credi. Io sono qua, in mano vostra. Non dirò più
nulla. Farò come voi vorrete.
Carlino Sanni parlò
a Tito Morena il giorno dopo.
Si mostrò
seccatissimo di Melina, e veramente credeva di avercela con lei; ma appena
vide Tito accordarsi con lui nel disapprovare la proposta di Melina, si
accorse che aveva la stizza in corpo non per lei, ma perché prevedeva
l'opposizione di Tito. Prevedeva l'opposizione; eppure forse, in fondo,
sperava che Tito invece si assumesse contro a lui la parte di contentare
Melina; cioè quella stessa parte che molto volentieri si sarebbe assunta
lui, ove non avesse temuto di far peggio. Si stizzì del subitaneo
accordo, e Tito rimase stordito di quella stizza inattesa; lo guardò un
poco; gli domandò:
- Ma scusa, non
dici quello che dico io?
E Carlino:
- Ma sì! ma sì!
ma sì!
A ragionare,
infatti, non potevano non esser d'accordo. E anche il sentimento avevano
entrambi comune. Se non che, questo sentimento comune, anziché
accordarli, non solo li divideva, ma li rendeva l'uno all'altro nemici.
Tito, ch'era il più
calmo in quel momento, comprese bene che, a lasciar prorompere il
sentimento, sarebbe di certo e subito avvenuta tra loro una rottura
insanabile; avrebbe voluto perciò lasciar lì il discorso ove la sua
ragione e quella dell'amico, freddamente e così fuor fuori, potevano
restar d'accordo.
Ma Carlino, turbato
dalla stizza, non seppe trattenersi. Tanto disse, che alla fine fece
perdere la calma anche a Tito. E, tutt'a un tratto, i due, finora l'uno
accanto all'altro amici cordialissimi, si scoprirono negli occhi, l'uno di
fronte all'altro, cordialissimi nemici.
- Vorrei sapere,
intanto, perché prima l'ha detto a te e non a me!
- Perché iersera
c'ero io; e l'ha detto a me.
- Poteva bene
aspettar domani, e dirlo a me! Se l'ha detto iersera, che c'eri tu, è
segno che t'ha creduto più tenero di cuore e più disposto a venir meno a
ciò che tutti e due insieme, di pieno accordo, avevamo stabilito.
- Ma nient'affatto!
Perché io le ho detto di no, di no, di no, precisamente come dici tu! Ma
capirai che ella ha insistito, ha pianto, ha scongiurato, ha fatto tante
promesse e tanti giuramenti; e, di fronte a queste lagrime e a queste
promesse, io non so, non potevo sapere, come saresti rimasto tu, e se
anche tu per tuo conto avresti voluto risponderle di noi
- Ma non s'era
stabilito no? Dunque, no!
Carlino Sanni si
scrollò rabbiosamente.
- Va bene! E ora
andrai a dirglielo tu.
- Bello! Mi piace!
- squittì Tito. - Così la parte del cuor duro, del tiranno, la faccio
io, e tu rimani per lei quello che si era piegato, commosso e intenerito.
- E se fosse così?
- salto sì Carlino, guardandolo da presso negli occhi. - Sei sicuro tu,
che non ti saresti «piegato, commosso e intenerito» al posto mio? E
avresti avuto il coraggio, così commosso e intenerito, di dirle di no,
anche per conto di un altro, che forse al tuo posto si sarebbe, come te,
commosso e intenerito? Rispondi a questo! Rispondi!
Così sfidato, con
gli occhi negli occhi, Tito non volle darsi per vinto, e mentì,
imperterrito.
- Io, commosso? Chi
te lo dice?
- E dunque è vero,
- esclamò allora Carlino trionfante, - che il cuor duro sei tu, e puoi
bene andarglielo a dire!
- Oh sai che ti
dico io, invece? - fremé Tito al colmo del dispetto. - Che ne ho
abbastanza io, di codesta storia, e voglio farla finita.
Carlino gli
s'appressò di nuovo, minaccioso:
- Cioè... cioè....
cioè... piano piano, caro mio, aspetta: farla finita, adesso, in che
modo?
- Oh, - fece Tito
con un sorriso stirato, guardandolo dall'alto in basso, - non ti credere
che voglia venir meno a quanto debbo! Seguiterò a dare la parte mia,
finché lei sarà in quello stato; poi faccia quello che vuole; se vuol
tenersi il figlio, se lo tenga: se vuol buttarlo via, lo butti. Per me,
non vorrò più saperne.
- E io? - domandò
Carlino.
- Ma farai anche tu
ciò che ti pare!
- Non è mica vero!
- Perché no?
- Lo capisci bene
perché no! Se non ci vai più tu, non potrò più andarci neanche io!
- E perché?
- Perché da solo,
sai bene che non posso accollarmi tutto il peso del mantenimento; non
posso e non debbo, del resto perché non so di certo se il figlio sia mio,
e tu non puoi lasciarmi su le spalle il peso d'un figlio che può esser
tuo.
- Ma se ti dico che
seguiterò a dar la parte mia.
- Grazie tante! Non
posso accettare! Già, in mezzo resterei sempre io, di più.
- Perché vuoi
restarci!
- Ma scusa, ma
scusa, ma scusa, e perché non vuoi tu restare ai patti? Che cosa chiede
lei alla fine, che tu non possa accordarle? Se non ci fa nessun carico del
figliuolo! Se lo terrà per sé. Ma senti... ma ascolta...
E Carlino prese a
inseguir per la stanza Tito che si allontanava scrollandosi, per
trattenerlo a ragionare. E non intendeva che, assumendo ora quel tono
persuasivo, quella pacata difesa della donna, faceva peggio.
Tito stesso, alla
fine, glielo gridò:
- Sarà un sospetto
ingiusto, ma che vuoi farci? m'è entrato; non posso più scacciarlo! Non
posso seguitare, così insieme, una relazione, che era solo possibile a
patto che nessun contrasto sorgesse tra noi.
- Ma andiamo tutti
e due insieme, allora, - propose Carlino, - tutti e due insieme a dirle di
no. Io già gliel'ho detto per conto mio; ora andiamo a ripeterglielo
insieme; e se vuoi, parlerò io più forte; le dimostrerò io che non è
possibile accordarle quello che chiede!
- E poi? - fece
Tito. - Credi che ella sarebbe più, quale è stata finora? Se desidera
tanto di tenersi il figlio! La faremmo infelice, credi, Carlino,
inutilmente. Perché... lo sento, lo sento bene, per me è finita! Sarà
un dispetto sciocco: non mi passa; sento che non mi passa. E allora? Io
non posso, non voglio più tornarci, ecco!
- E dovremmo
abbandonarla così? - domandò Carlino accigliato.
- Ma nient'affatto,
abbandonarla! - esclamò Tito. - T'ho detto e ripetuto che seguiterò a
dar la mia parte. finché ella si troverà in questo stato e non troverà
modo di provvedere a sé altrimenti. Tu poi, per conto tuo, fa' quello che
credi. Te lo dico proprio senz'astio, bada! e con la massima franchezza.
Carlino rimase
muto, ingrugnato, a raschiarsi con le unghie le gote rase. E, per quel
giorno, il discorso finì lì.
III
Non fu più ripreso. Ma seguitò nell'animo d'entrambi, e a mano a mano
tanto più violento, quanto più cresceva la violenza che l'uno e l'altro
si facevano, per tacere.
Nessuno de' due andò
più a trovar Melina. E Carlino, non andando, voleva dimostrare a Tito che
la violenza la commetteva lui; che gl'impediva lui d'andare; e Tito, dal
canto suo, che Carlino voleva lui, invece, usargli violenza con quel suo
astenersi d'andare. Ma sì! per forzarlo, così, a recedere dal suo
proposito, e averla vinta, pur essendo venuto meno, di sorpresa, a quanto
già tra loro d'accordo si era stabilito.
Doveva passar sopra
a tutto? Far quello che volevano loro, tutt'e due insieme, contro di lui?
Non bastava che seguitasse a pagare, lasciando all'altro la libertà
d'andare a trovar la donna?
Nossignori. Di
questa libertà Carlino non voleva profittare, non solo, ma neppure dargli
merito. La negava! Senza comprendere che, se egli avesse ceduto, se fosse
tornato da Melina per farci andare anche lui, tutta la vittoria sarebbe
stata di loro due, poich'egli alla fine avrebbe fatto quello che essi
volevano. E non era una violenza, questa? No, perdio! Seguitava a pagare,
e basta!
Per quanto, però,
con questi argomenti cercasse di raffermarsi nella risoluzione di non
cedere e volesse concludere che la ragione stava dalla sua, Tito si
sentiva di giorno in giorno crescer l'orgasmo per la passiva ostinazione
di Carlino; sentiva che il fosco silenzio del compagno assumeva per la sua
coscienza un peso, che egli da solo non voleva sopportare.
Se quella ragazza,
da loro invitata a venir da Padova a Roma, resa madre da uno di loro due,
ora, in quello stato, si dibatteva in una incertezza angosciosa, di chi la
colpa? Che pretendeva ella infine, senza fastidio, senza peso, né
responsabilità da parte loro? Che non si commettesse la violenza di
buttar via il figlio, che o dell'uno o dell'altro era di certo.
Ebbene, lo volevano
lasciar solo a sentire il rimorso di questa violenza.
Se Carlino avesse
seguitato ad andare da Melina, egli avrebbe potuto, almeno in parte,
togliersi questo rimorso col pensiero che, pur seguitando a pagare, non si
prendeva più nessun piacere dalla donna.
Ma nossignori!
Carlino non andava più neppur lui, Carlino non si prendeva più neppur
lui nessun piacere dalla donna, e così non solo gl'impediva di togliersi
il rimorso con quel pensiero, ma anzi glielo aggravava. Privandosi egli
solo del piacere e pur non di meno seguitando a dar la parte sua, avrebbe
potuto anche pensare, che faceva un sacrifizio sciocco e fors'anche
superfluo, giacché non era mica provato, che egli dovesse avere il
rimorso di voler buttare il proprio figliuolo, potendo questo benissimo
essere, invece, dell'altro. Eh già; ma a ragionare così, ad ammettere
cioè che il figlio fosse dell'altro, poteva egli allora pretendere che
quest'altro si assumesse intero il rimorso di buttar via il proprio
figliuolo, per far piacere a lui? Se egli, Tito, avesse avuto la certezza
d'essere il padre e Carlino avesse preteso che il figliuolo fosse buttato
via, non si sarebbe egli ribellato?
Questa certezza non
c'era!
Ma ecco, nel dubbio
stesso, Carlino voleva che quella violenza non si commettesse.
Dovevano essere
insieme, d'accordo, tutti e tre, a volere e a commettere la violenza. Il
rimorso, condiviso, sarebbe stato minore. Ebbene, gli avevano fatto questo
tradimento. E tanto più ne era arrabbiato, quanto più vedeva che la
vendetta, che istintivamente si sentiva spinto a trarne, lo rendeva,
contro il suo stesso sentimento, crudele; quanto più vedeva che anche a
non trarne alcuna vendetta, esso, il tradimento, restava, restava pur
sempre l'accordo di quei due nel venir meno per i primi a quanto si era
stabilito; cosicché sempre sarebbe rimasta, attaccata a lui soltanto, la
parte odiosa. E dunque, no, perdio, no! Perché cedere adesso? Sarebbe
stato anche inutile!
Venne, intanto, il
momento, che entrambi si videro costretti a riparlar di Melina: cadeva il
mese, e bisognava farle avere il denaro per provvedere a sé e pagar la
pigione delle due stanzette.
Tito avrebbe voluto
schivare il discorso. Tratta dal portafogli la sua quota, l'aveva posata
sul tavolino senza dir nulla.
Carlino, guardati
un pezzo quei denari, alla fine uscì a dire:
- Io non glieli
porto.
Tito si voltò a
guardarlo e disse seccamente:
- E io neppure.
Il silenzio, in cui
l'uno e l'altro, dopo questo scambio di parole, con estremo sforzo si
tennero per un lungo tratto, vibrò di tutto il loro interno ribollimento
e rese a ciascuno spasimosa l'attesa che l'altro parlasse.
La voce uscì
prima, sorda, opaca, dalle labbra di Carlino:
- Allora le si
scrive. Le si mandano per posta.
- Scrivi, - disse
Tito.
- Scriveremo
insieme.
- Insieme, va bene;
poiché ti piace di far la parte della vittima, e ch'io faccia quella del
tiranno.
- Io fo, - rispose
Carlino, alzandosi, - precisamente quello che fai tu, né più né meno.
- E va bene, -
ripeté Tito. - E dunque puoi scriverle, che da parte mia sono disposto a
rispettare il suo sentimento e a fare tutto ciò che vuole; disposto a
pagare, finché lei stessa non dirà basta.
- Ma allora? -
scappò sì dal cuore a Carlino.
Tito, a questa
esclamazione, non seppe più frenarsi e uscì dalla stanza, scrollandosi
furiosamente con le braccia per aria e gridando:
- Ma che allora!
che allora! che allora!
Rimasto solo,
Carlino pensò un pezzo al senso da cavare da quella prima condiscendenza
di Tito, a cui poi, così bruscamente, era seguito lo scatto, che nel modo
più aperto raffermava la sua irremovibile decisione. Pareva che con
Melina, ora, non ce l'avesse più, se era disposto a rispettare il
sentimento di lei e a fare ciò che ella voleva. Dunque ce l'aveva con
lui? Era chiaro! E perché, se adesso erano d'accordo? Per non aver
riconosciuto prima di non aver ragione d'opporsi? Eh già! Ora gli pareva
troppo tardi, e non si voleva più dare per vinto. Ah, che sbaglio aveva
commesso Melina, non rivolgendosi prima a Tito! E un altro sbaglio, più
grosso, aveva poi commesso lui, riferendo a Tito la proposta di lei. No,
no; egli non doveva riferirgliela; doveva dire a Melina che ne parlasse a
Tito direttamente, e che anzi non gli facesse intravedere di averne prima
parlato a lui. Ecco come avrebbe dovuto fare! Ma poteva mai immaginarsi
che Tito se la pigliasse così a male?
Carlino era sicuro,
adesso, che se Melina si fosse prima rivolta all'altro, lui non ci avrebbe
trovato nulla da ridire.
Basta. Bisognava
scrivere la lettera, adesso. Che dire a quella povera figliuola, in quello
stato? Meglio non dirle nulla di quanto era avvenuto tra loro due; trovare
una scusa plausibile di quel non andare nessuno de' due a trovarla. Ma che
scusa? L'unica, poteva esser questa: che volevano lasciarla tranquilla
nello stato in cui era. Tranquilla? Eh, troppa grazia, per una povera
donna come lei, avvezza a così poca considerazione da parte degli uomini.
E poi, tranquilla, va bene; ma perché non andavano nemmeno a vederla? a
domandarle come stesse? se avesse bisogno di qualche cosa? Tanta
considerazione per un verso e tanta noncuranza per un altro, bella
tranquillità le avrebbero data!
Ma, via, infine,
nella lettera poteva darle la più ferma assicurazione che non le sarebbe
venuto meno l'assegno e tutto quell'aiuto che avrebbe potuto aver da loro.
Bisognava che si contentasse di questo, per ora.
E Carlino scrisse
la lettera in questo senso, con molta circospezione, perché Tito,
leggendola (e voleva che la leggesse), non pigliasse altra ombra.
Pochi giorni dopo,
com'era da aspettarsi, arrivò a entrambi la risposta di Melina. Poche
righe, quasi indecifrabili che, impedendo la commozione per il modo
ridicolo con cui l'ambascia e la disperazione erano espresse, produssero
uno strano effetto di rabbia negli animi dei due giovani.
La poverina
scongiurava che tutti e due insieme andassero a trovarla, ripetendo che
era pronta a fare quel che essi volevano.
- Vedi? Per causa
tua!
Tutti e due si
trovarono sulle labbra le stesse parole; Carlino per l'ostinazione di Tito
a non cedere: Tito per quella di Carlino a non andare. Ma né l'uno né
l'altro poterono proferirle. Si guardarono. Ciascuno lesse negli occhi
dell'altro la sfida a parlare. Ma lessero anche chiaramente l'odio, che
adesso li univa, in luogo dell'antica amicizia; e subito compresero che
non potevano e non dovevano più parlare su quell'argomento.
Quell'odio
comandava loro non solo di non far prorompere la rabbia, ond'erano
divorati, ma anzi d'indurir ciascuno il proprio proposito in una livida
freddezza.
Dovevano rimanere
insieme, per forza.
- Le si scrive di
nuovo, che stia tranquilla, - fischiò tra i denti Carlino.
Tito si voltò
appena a guardarlo, con le ciglia alzate:
- Ma sì, puoi
dirglielo: tranquillissima!
IV
Ora, ogni sera, uscendo dal Ministero, non andavano più insieme, come
prima, a passeggio, o in qualche caffè. Si salutavano freddamente, e uno
prendeva di qua, l'altro di là. Si riunivano a cena; ma spesso, non
arrivando alla trattoria alla stess'ora e non trovando posto da sedere
accanto, l'uno cenava a un tavolino e l'altro a un altro. Ma meglio così.
Tito s'accorse, che aveva provato sempre vergogna, senza dirselo, del
troppo appetito che Carlino dimostrava, mangiando. Anche dopo cena,
ciascuno si avviava per suo conto a passar fuori le due o tre ore prima
d'andare a letto.
S'incupivano sempre
più, covando in quella solitudine il rancore.
Ma l'uno non voleva
dare a vedere all'altro la macerazione che aveva da quella catena non
trascinata più di conserva per una stessa via, ma tirata, strappata di
qua e di là Rispettosamente, in quella finzione di libertà, che volevano
darsi.
Sapevano che la
catena, pur tirata e strappata così, non poteva e non doveva spezzarsi;
ma lo facevano apposta, per farsi più male, quanto più male potevano.
Forse, in questa macerazione, cercavano di stordir la pena cocente e il
rimorso per la donna, che seguitava invano a chieder conforto e pietà.
Già da un pezzo
ella si era arresa a ciò che credeva la loro volontà. Ma no: erano essi,
ora, a volere assolutamente che ella si tenesse il figliuolo. E perché
allora avrebbero sofferto tanto, e tanto la avrebbero fatta soffrire?
Tornare indietro come prima, non era più possibile, ormai. E dunque, no,
no: ella doveva tenersi il figliuolo. Nessuna discussione più su questo
punto
Uniti com'erano
dallo stesso sentimento, che non poteva più in alcun modo svolgersi in un
azione comune d'amore, non potevano ammettere che esso, ora, venisse a
mancare; volevano che durasse per svolgersi invece, così,
necessariamente, in un'azione di reciproco odio.
E tanto quest'odio
li accecava, che nessuno dei due per il momento pensava, che cosa
avrebbero fatto domani di fronte a quel figliuolo, che non avrebbero
potuto entrambi amare insieme.
Esso doveva vivere:
non potendo né per l'uno né per l'altro esclusivamente, sarebbe vissuto
per la madre, ai loro costi, così, senza che nessuno de' due neppur lo
vedesse.
E difatti, nessuno
de' due, quantunque entrambi se ne sentissero struggere dalla voglia,
cedette all'invito di Melina, di correre a vedere il bambino appena nato.
Inesperti della
vita, non si figuravano neppur lontanamente tra quali atroci difficoltà
si fosse dibattuta quella poveretta, così sola, abbandonata, nel mettere
al mondo quel bambino. Ne ebbero la rivelazione terribile, alcuni giorni
dopo, quando una vecchia, vicina di casa della poveretta, venne a
chiamarli, perché accorressero subito al letto di lei, che moriva.
Accorsero e
restarono allibiti davanti a quel letto, da cui uno scheletro vestito di
pelle, con la bocca enorme, arida, che scopriva già orribilmente tutti i
denti, con enormi occhi, i cui globi parevan già appesiti e induriti
dalla morte, voleva loro far festa.
Quella, Melina?
No, no... là, -
diceva la poveretta, indicando la culla: che l'avrebbero ritrovata là, la
Melina che conoscevano, cercando là, in quella culla, e tutt'intorno,
nelle cose preparate per il suo bimbo, e nelle quali si era distrutta, o
piuttosto, trasfusa.
Qua sul letto,
ormai, ella non c'era più: non c'eran più che i resti di lei, miseri,
irriconoscibili; appena un filo d'anima trattenuto a forza, per riveder
loro un'ultima volta. Tutta l'anima sua, tutta la sua vita, tutto il suo
amore, erano in quella culla, e là, là, nei cassetti del canterano,
ov'era il corredino del bimbo, pieno di merletti, di nastri e di ricami,
tutto preparato da lei, con le sue mani.
- Anche... anche
cifrato, sì, di rosso... Tutto... capo per capo...
Capo per capo volle
che la vecchia vicina lo mostrasse loro: le cuffiette, ecco... ecco le
cuffiette, sì... quella coi fiocchi rossi... no, quell'altra,
quell'altra... e i bavaglini, e le camme, e la vestina lunga, ricamata,
del battesimo, col trasparente di seta rossa... rossa, sì, perché era
maschio, maschio il suo Nillì... e...
S'abbandonò a un
tratto; crollò sul letto, riversa. Nell'accensione di quella festa, forse
insperata, si consumò subito quell'ultimo filo d'anima trattenuto a forza
per loro.
Atterriti da quel
traboccare improvviso sul letto, i due accorsero, per sollevarla.
Morta.
Si guardarono.
L'uno cacciò nell'anima dell'altro, fino in fondo, con quello sguardo, la
lama d'un odio inestinguibile.
Fu un attimo.
Il rimorso, per ora
li sbigottiva. Avrebbero avuto tempo di dilaniarsi, tutta la vita. Per
ora, qua, bisognava procedere ancora d'accordo: provvedere alla vittima,
provvedere al bambino.
Non potevano
piangere, l'uno di fronte all'altro. Sentivano che, se per poco,
nell'orgasmo, avessero ceduto al sentimento, l'uno al suono del pianto
dell'altro sarebbe diventato feroce, l'uno si sarebbe avventato alla gola
dell'altro per soffocarlo, quel pianto. Non dovevano piangere! Tremavano
tutti e due; non potevano più guardarsi. Sentivano che rimaner così, a
guardare con gli occhi bassi la morta, non potevano; ma come muoversi?
Come parlar tra loro? Come assegnarsi le parti? Chi de' due doveva pensare
alla morta, pei funerali? Chi de' due, al bambino, per una balia?
Il bambino!
Era là, nella
culla. Di chi era? Morta la madre, esso restava a tutti e due. Ma come?
Sentivano che nessuno dei due poteva più accostarsi a quella culla. Se
l'uno avesse fatto un passo verso di essa, l'altro sarebbe corso a
strapparlo indietro.
Come fare? Che
fare?
Lo avevano
intravisto appena, là, tra i veli, roseo, placido nel sonno.
La vecchia vicina
disse:
- Quanto penò! E
mai un lamento dalle sue labbra! Ah, povera creatura! Non gliela doveva
negare Dio questa consolazione del figlio, dopo tutto quello che penò per
lui. Povera, povera creatura! E ora? Per me, se vogliono... eccomi qua...
Si tolse lei
l'incarico d'attendere al cadavere, insieme con altre vicine. Quanto al
bimbo... - all'ospizio, no, è vero? - ebbene conosceva lei una balia, una
contadina di Alatri, venuta a sgravarsi all'ospedale di San Giovanni: era
uscita da parecchi giorni; il figlietto le era morto, e quella sera stessa
sarebbe ripartita per Alatri: buona, ottima giovine; maritata, sì; il
marito le era partito da pochi mesi per l'America, sana, forte, il
figlietto le era morto per disgrazia, nel parto, non già per malattia.
Del resto, potevano farla visitare da un medico, ma non ce n'era bisogno.
Già il bimbo, per altro, da due giorni s'era attaccato a lei, poiché la
povera mamma non avrebbe potuto allevarlo, ridotta in quello stato.
I due lasciarono
parlar sempre la vecchia approvando col capo ogni proposta, dopo essersi
guardati un attimo con la coda dell'occhio, aggrondati. Migliore occasione
di quella non poteva darsi. E meglio, sì, meglio che il bimbo andasse
lontano, affidato alla balia. Sarebbero andati a vederlo, ad Alatri, un
mese l'uno e un mese l'altro, giacché insieme non potevano.
- No! no! -
gridarono a un tempo alla vecchia, impedendo che lo mostrasse loro.
S'accordarono con
lei circa alle disposizioni da prendere per il trasporto del cadavere e il
seppellimento. La vecchia fece un conto approssimativo; essi lasciarono il
denaro, e uscirono insieme, senza parlare.
Tre giorni dopo,
allorché il bimbo fu partito con la balia per Alatri con tutto il corredo
preparato dalla povera Melina, si divisero per sempre.
V
Fu, nei primi tempi, una distrazione quella gita d'un giorno, un mese sì
e un mese no, ad Alatri. Partivano la sera del sabato; ritornavano la
mattina del lunedì.
Andavano come per
obbligo a visitare il bambino. Questo, quasi non esistendo ancora per se,
non esisteva neppure propriamente per loro, se non così, come un obbligo;
ma non gravoso: prendevano, infine, una boccata d'aria; facevano, benché
soli, una scampagnata: dall'alto dell'acropoli, su le maestose mura
ciclopiche, si scopriva una vista meravigliosa. E quella visita mensile,
in fondo, non aveva altro scopo che d'accertarsi se la balia curasse bene
il bambino.
Provavano
istintivamente una certa diffidenza ombrosa, se non proprio una decisa
ripugnanza per lui. Ciascuno dei due pensava, che quel batuffolo di carne
lì poteva anche non esser suo, ma di quell'altro; e, a tal pensiero, per
l'odio acerrimo che l'uno portava all'altro, avvertivano subito un
ribrezzo invincibile non solo a toccarlo, ma anche a guardarlo.
A poco a poco, però,
cioè non appena Nillì cominciò a formare i primi sorrisi, a muoversi, a
balbettare, l'uno e l'altro, istintivamente, furono tratti a riconoscer
ciascuno se stesso in quei primi segni, e a escludere ogni dubbio, che il
figlio non fosse suo.
Allora, subito,
quel primo sentimento di repugnanza si cangiò in ciascuno in un
sentimento di feroce gelosia per l'altro. Al pensiero che l'altro andava lì,
con lo stesso suo diritto, a togliersi in braccio il bambino e a baciarlo,
a carezzarlo per una intera giornata, e a crederlo suo, ciascuno de' due
sentiva artigliarsi le dita, si dibatteva sotto la morsa d'un'indicibile
tortura. Se per un caso si fossero incontrati insieme là, nella casa
della balia, l'uno avrebbe ucciso l'altro, sicuramente, o avrebbe ucciso
il bimbo, per la soddisfazione atroce di sottrarlo alla carezza
dell'altro, intollerabile.
Come durare a lungo
in questa condizione? Per ora, Nillì era piccino piccino, e poteva star lì
con la balia, che assicurava di volerlo tenere con sé, come un figliuolo,
almeno fino al ritorno del marito dall'America. Ma non ci poteva star
sempre! Crescendo, bisognava pur dargli una certa educazione.
Sì, era inutile,
per adesso, amareggiarsi di più il sangue, pensando all'avvenire. Bastava
la tortura presente.
L'uno e l'altro
s'erano confidati con la balia, la quale, impressionata dal fatto che quei
due zii non venivano mai insieme a visitare il nipotino, ne aveva chiesto
ingenuamente la ragione. Ciascuno dei due aveva assicurato la balia, che
il figlio era suo, traendone la certezza da questo e da quel tratto del
bimbo, il quale, certo, non somigliava spiccatamente né all'uno né
all'altro, perché aveva preso molto dalla madre; ma, ecco, per esempio,
la testa... non era forse un po' come quella di Carlino? poco, sì....
appena appena... un'idea..., ma era pure un segno, questo! Gli occhi
azzurri del bimbo, invece, erano un segno rivelatore per Tito Morena che
li aveva azzurri anche lui; sì, ma anche la madre, per dire la verità,
li aveva azzurri, ma non così chiari e tendenti al verde, ecco.
- Già, pare... -
rispondeva all'uno e all'altro la balia, dapprima costernata e afflitta da
quell'accanita contesa, sul bimbo, ma poi raffinata appieno, per il
consiglio che le aver ano dato i parenti e i vicini, che fosse meglio, cioè,
per lei e anche per il bimbo, tenerli così a bada tutti e due,
senz'affermare mai e senza negare recisamente. Era difatti una gara, tra i
due, d'amorevolezza, di pensieri squisiti, di regali, per guadagnarsi
quanto più potevano il cuore del bimbo, a cui ella intanto dava
istruzione non di malizia, ma d'accortezza: se veniva zio Carlo, non
parlare di zio Tito, e viceversa; se uno gli domandava qualcosa
dell'altro, risponder poco, un sì, un no, e basta; se poi volevano sapere
a chi egli volesse più bene, rispondere a ciascuno: - Più a te! - solo
per contentarli, ecco, perché poi egli doveva voler bene a tutti e due
allo stesso modo.
E veramente a Nillì
non costava alcuno sforzo rispondere, secondo i consigli della balia,
all'uno e all'altro dei due zii: - Più a te! - perché, stando con l'uno
o con l'altro, gli sembrava ogni volta che non si potesse star meglio,
tanto amore e tante cure gli prodigavano entrambi, pronti a soddisfare
ogni suo capriccio, pendendo ciascuno da ogni suo minimo cenno.
D'improvviso, ma
quando già Carlino Sanni e Tito Morena erano più che mai sprofondati
nella costernazione circa ai provvedimenti da prendere per l'educazione di
Nillì che aveva ormai compiuti i cinque anni, arrivò alla balia una
lettera del marito, che la chiamava in America.
Carlino Sanni e
Tito Morena, senza che l'uno sapesse dell'altro, nel ricevere questo
annunzio, andarono da un giovane avvocato, loro comune amico, conosciuto
tempo addietro nella trattoria, dove prima si recavano a desinare insieme.
L'avvocato ascoltò
prima l'uno e poi l'altro, senza dire all'uno che l'altro era venuto
poc'anzi a dirgli le stessissime cose e a fargli la stessissima proposta,
che cioè il ragazzo, suo o non suo, fosse lasciato interamente a suo
carico (nessuno dei due diceva al suo affetto), pur d'uscire da quella
insopportabile situazione.
Ma non c'era, né
ci poteva essere modo a uscirne, finché nessuno dei due voleva abbandonar
del tutto all'altro il ragazzo. Né il giudizio di Salomone era
applicabile. Salomone si era trovato in condizioni molto più facili,
perché si trattava allora di due madri, e una delle due poteva essere
certa che il figlio era suo. Qua l'uno e l'altro, non potendo aver questa
certezza ed essendo animati da un odio reciproco così feroce, avrebbero
lasciato spaccare a metà il ragazzo per prendersene mezzo per uno. Non si
poteva, eh? Dunque, un rimedio. L'unico, per il momento, era di mettere in
collegio il ragazzo, e accordarsi d'andarlo a visitare una domenica l'uno
e una domenica l'altro, e che le feste le passasse un po' con l'uno e un
po' con l'altro. Questo, per il momento. Se poi volevano veramente
risolvere la situazione, il giovane avvocato non ci vedeva altro mezzo,
che questo: che il figlio, non potendo essere di uno soltanto, non fosse
più di nessuno dei due. Come? Cercando qualcuno che volesse adottarlo. Se
i due volevano, egli poteva assumersi quest'incarico.
Nessuno dei due
volle. Recalcitrarono, si scrollarono furiosamente alla proposta; l'uno
tornò a gridar contro l'altro le ingiurie più crude, per la
sopraffazione che intendeva usare: il figlio era suo! era suo! non poteva
esser che suo! per questo segno e per questo altro! E Carlino Sanni
credeva anche di aver maggior diritto, perché lui, lui, Tito, aveva fatto
morire quella povera donna, di cui egli aveva avuto sempre pietà! Ma allo
stesso modo Tito Morena credeva anche d'avere maggior diritto, perché non
aveva sofferto meno, lui, della durezza che era stato costretto a usare
verso Melina, per colpa di Carlino!
Inutile, dunque,
tentare di metterli d'accordo. Nillì fu chiuso in collegio. Ricominciò,
con la vicinanza, più aspra e più fiera la tortura di prima. E durò un
anno. S'offerse da sé, infine, un caso, che rese possibile e accettabile
ai due la proposta del giovane avvocato.
Nillì, nel
collegio, durante quell'anno, aveva stretto amicizia con un piccolo
compagno, unico figliuolo d'un colonnello, a cui tanto Carlino Sanni,
quanto Tito Morena, avevano dovuto per forza accostarsi, giacché i due
piccini (i più piccoli del collegio) entravano nel salone delle visite
domenicali tenendosi per mano senza volersi staccare l'uno dall'altro. Il
colonnello e la moglie erari molto grati a Nillì dell'affetto e della
protezione che esso aveva per il piccolo amico, il quale, pur essendo
della sua età, appariva minore, per la bionda gracilità feminea e la
timidezza. Nillì, cresciuto in campagna, era bruno, robusto, sanguigno e
vivacissimo. L'amore di quel piccolino per Nillì aveva qualcosa di
morboso; e inteneriva assai la moglie del colonnello. Sulla fine dell'anno
scolastico, esso morì all'improvviso, una notte, lì nel collegio, come
un uccellino, dopo aver chiesto e bevuto un sorso d'acqua.
Il colonnello, per
contentar la moglie inconsolabile, saputo dal direttore del collegio che
Nillì era orfano, e che quei due signori che venivano la domenica a
visitarlo, erano zii, fece per mezzo del direttore stesso la proposta
d'adottare il ragazzo, a cui il piccino defunto era legato di tanto amore.
Carlino Sanni e
Tito Morena chiesero tempo per riflettere: considerarono che la loro
condizione e quella di Nillì sarebbe divenuta con gli anni sempre più
difficile e triste; considerarono che quel colonnello e sua moglie erano
due ottime persone; che la moglie era molto ricca e che perciò per Nillì
quell'adozione sarebbe stata una fortuna; domandarono a Nillì, se aveva
piacere di prendere il posto del suo amicuccio nel cuore e nella casa di
quei due poveri genitori; e Nillì, che per i discorsi e i consigli della
balia doveva aver capito, così in aria, qualcosa, disse di sì, ma a
patto che i due zii venissero a visitarlo spesso, ma insieme,
sempre insieme, in casa dei genitori adottivi.
E così Carlino
Sanni e Tito Morena, ora che il figlio non poteva più essere né dell'uno
né dell'altro, ritornarono a poco a poco di nuovo amici come prima.
|