SOPRA
E SOTTO
Eran venuti su per la buia, erta scaletta di legno; su,
in silenzio, quasi di furto, piano piano. Il professor Carmelo Sabato
tozzo pingue calvo - con in braccio, come un bamboccetto in fasce, un
grosso fiasco di vino. Il professor Lamella, antico alunno del Sabato, con
due bottiglie di birra, una per mano.
E da più d'un'ora,
su l'alta terrazza sui tetti, irta di comignoli, di fumaioli di stufe, di
tubi d'acqua, sotto lo sfavillio fitto, continuo delle stelle che
pungevano il cielo senz'allargar le tenebre della notte profonda,
conversavano.
E bevevano.
Vino, il professor
Sabato: vino, fino a schiattarne: voleva morire. Il professor Lamella,
birra: non voleva morire.
Dalle case, dalle
vie della città non saliva più, da un pezzo, nessun rumore. Solo, di
tratto in tratto, qualche remoto rotolio di vettura.
La notte era afosa,
e il professor Carmelo Sabato s'era dapprima snodata la cravatta e
sbottonato il colletto davanti, poi anche sbottonato il panciotto e aperta
la camicia sul petto velloso: alla fine, nonostante l'ammonimento di
Lamella: «Professore, voi vi raffreddate» s'era tolta la giacca, e con
molti sospiri, ripiegatala, se l'era messa sotto, per star più comodo su
la panchetta bassa, di legno, a sedere con le gambe distese e aperte, una
qua, una là, sotto il tavolinetto rustico, imporrito dalla pioggia e dal
sole.
Teneva ciondoloni
il testone calvo e raso, socchiusi gli occhi bovini torbidi, venati di
sangue, sotto le foltissime sopracciglia spioventi, e parlava con voce
languida, velata, stiracchiata, come se si lamentasse in sogno:
- Enrichetto,
Enrichetto mio, - diceva, - mi fai male... t'assicuro che mi fai male...
tanto male...
Il Lamella,
biondino, magro, itterico, nervosissimo, stava sdraiato su una specie
d'amaca sospesa di qua a un anello nel muro del terrazzo, di là a due
bacchette di ferro sui pilastrini del parapetto. Allungando un braccio,
poteva prendere da terra la bottiglia: prendeva quasi sempre la vuota, e
si stizziva; tanto che, alla fine, con una manata la mandò a rotolare sul
pavimento in pendio, con grande angoscia, anzi terrore del vecchio
professor Sabato, che si buttò subito a terra, gattoni, e le corse dietro
per pararla, fermarla, gemendo, arrangolando:
- Per carità...
per carità... sei matto? giù parrà un tuono.
Parlando, il
Lamella si storceva tutto, non poteva star fermo un momento, si
raggricchiava, si stirava, dava calci e pugni all'aria.
- Vi farò male; ne
sono persuaso, caro professore; ma apposta lo faccio: voi dovete guarire!
vi voglio rialzare! E vi ripeto che le vostre idee sono antiquate,
antiquate, antiquate... Rifletteteci bene, e mi darete ragione!
- Enrichetto,
Enrichetto mio, non sono idee, - implorava quello, con voce stiracchiata,
lamentosa. - Forse prima erano idee. Ora sono il sentimento mio, quasi un
bisogno, figliuolo: come questo vino: un bisogno.
- E io vi dimostro
che è stupido! - incalzava l'altro. - E vi levo il vino e vi faccio
cangiar di sentimento...
- Mi fai male...
- Vi faccio bene!
State a sentire. Voi dite: Guardo le stelle, è vero? no, voi dite rimiro...
è più bello, sì, rimiro le stelle, e subito sento la nostra infinita,
inferma piccolezza inabissarsi! Ma sentite come parlate ancora bene voi,
professore? E ricordo che sempre avete parlato così bene voi, anche
quando ci facevate lezione. Inabissarsi è detto benissimo! - Che
cosa diventa la terra, voi domandate, l'uomo, tutte le nostre glorie,
tutte le nostre grandezze? E vero? dite così?
Il professor Sabato
fece di sì più volte col testone raso. Aveva una mano abbandonata, come
morta, su la Banchetta, e con l'altra, sotto la camicia, s'acciuffava sul
petto i peli da orso.
Il Lamella riprese
con furia:
- E vi sembra
serio, questo, egregio professore? Ma scusate! Se l'uomo può intendere e
concepire così la infinita sua piccolezza, che vuoi dire? Vuoi dire
ch'egli intende e concepisce l'infinita grandezza dell'universo! E come si
può dir piccolo, dunque, l'uomo?
- Piccolo...
piccolo - diceva, come da una lontananza infinita, il professor Sabato.
E il Lamella,
sempre più infuriato:
- Voi scherzate!
Piccolo? Ma dentro di me dov'esserci per forza, capite? qualcosa di
quest'infinito, se no io non lo intenderei, come non lo intende... che so?
questa mia scarpa, putacaso, o il mio cappello. Qualcosa che, se io
affiso... così... gli occhi alle stelle, ecco, s'apre, egregio
professore, s'apre e diventa, come niente, plaga di spazio, in cui roteano
mondi, dico mondi, di cui sento e comprendo la formidabile grandezza. Ma
questa grandezza di chi è? E mia, caro professore! Perché è sentimento
mio!
E come potete
dunque dire che l'uomo è piccolo, se ha in sé tanta grandezza?
Un improvviso,
curioso strido - zrì - ferì il silenzio succeduto vastissimo
all'ultima domanda del Lamella. Questi si voltò di scatto:
- Come? che dite?
Ma vide il
professor Sabato immobile, come morto, con la fronte appoggiata allo
spigolo del tavolinetto.
Era stato forse lo
strido d'un pipistrello.
In quella positura,
più volte, il professor Carmelo Sabato, ascoltando le parole del Lamella,
aveva gemuto:
- Tu mi rovini...
tu mi rovini...
Ma a un tratto,
balenandogli un'idea, levò il capo irosamente e gridò all'antico alunno:
- Ah, tu così
ragioni? Questo, prima di tutto, l'ha detto Pascal. Ma va' avanti! va'
avanti, perdio! Dimmi ora che significa. Significa che la grandezza
dell'uomo, se mai, è solo a patto di sentire la sua infinita piccolezza!
significa che l'uomo è solo grande quando al cospetto dell'infinito si
sente e si vede piccolissimo; e che non è mai così piccolo, come quando
si sente grande! Questo significa! E che conforto, che consolazione ti può
venir da questo? che l'uomo è dannato qua a questa atroce disperazione:
di vedere grandi le cose piccole - tutte le cose nostre, qua, della terra
- e piccole le grandi là, le stelle?
Diede di piglio al
fiasco, furiosamente, e ingollò due bicchieri di vino, uno sopra l'altro,
come se li fosse meritati e ne avesse acquistato un incontrastabile
diritto, dopo quanto aveva detto.
- E che c'entra? e
che c'entra? - gridava intanto il Lamella, tirate le gambe fuori
dall'amaca, e agitandole insieme con le braccia, come se volesse lanciarsi
sul professore. - Conforto? consolazione? Voi cercate questo, lo so! Voi
avete bisogno di vedervi, di sapervi piccolo...
- Piccolo, sì...
piccolo, piccolo...
- Piccolo, tra cose
piccole e meschine...
- Sì... così...
- Su un corpuscolo
infinitesimale dello spazio, è vero?
- Sì, sì...
infinitesimale...
- Ma perché? Per
seguitare ad abbrutirvi, a incarognirvi!
Il professor Sabato
non rispose: aveva in bocca di nuovo il bicchiere, che già gli ballava in
mano: accennò di sì col testone, seguitando a bere.
- Vergognatevi!
Vergognatevi! - inveì il Lamella. - Se la vita ha in sè, se l'uomo ha in
sé quella sventura che voi dite, sta a noi di sopportarla nobilmente! Le
stelle sono grandi, io sono piccolo, e dunque m'ubriaco, è vero? Questa
è la vostra logica! Sia le stelle sono piccole, piccole, se voi non le
concepite grandi: la grandezza dunque è in voi! E se voi siete così
grande da concepir grandi le cose che paiono piccole, perché poi volete
vedere piccole e meschine quelle che a tutti paiono grandi e gloriose?
Paiono e sono, professore! Perché non è piccolo, come voi credete,
l'uomo che le ha fatte, l'uomo che ha qua, qua in petto, in sé la
grandezza delle stelle, quest'infinito, quest'eternità dei cieli, l'anima
dell'universo immortale. Che fate? ah, voi piangete? ho capito! Siete già
ubriaco, professore!
Il Lamella saltò
dall'amaca e si chinò sul professor Sabato che, appoggiato al muro, si
scoteva tutto, sussultando, quasi ruttando i singhiozzi, che a uno a uno
gli rompevano dal fondo delle viscere, fetidi di vino.
- Su, su,
smettetela, perdio! - gli gridò. - Mi fate rabbia, perché mi fate pietà!
Un uomo del vostro ingegno, dei vostri studii, ridursi così! vergogna!
Voi avete un'anima, un'anima, un'anima. Me la ricordo io, la vostra anima
nobile, accesa di bene; me la ricordo io!
- Per carità...
per carità... - gemeva, implorava il professor Carmelo Sabato, tra le
lagrime, sussultando. - Enrichetto... Enrichetto mio... no, per carità...
non mi dire che ho un'anima immortale... Fuori! fuori! Ecco, sì, ecco
quello che io dico: fuori; sarà fuori l'anima immortale... e tu la
respiri, tu sì, perché non ti sei ancora guastato... la respiri come
l'aria, e te la senti dentro... certi giorni più, certi giorni meno...
Ecco quello che io dico! Fuori... fuori... per carità, lasciala fuori,
l'anima immortale... Io, no... io, no... mi sono guastato apposta per non
respirarla più... m'empio di vino apposta, perché non la voglio più,
non la voglio più dentro di me... la lascio a voi... sentitevela dentro
voi... io non ne posso più... non ne posso più...
A questo punto, una
voce dolce chiamò dal fondo della terrazza:
- Signore...
Il Lamella si
volse. Là, nel vano nero dell'usciolo biancheggiavano le ampie ali della
cornetta d'una suora di carità.
Il giovane
professore accorse, confabulò piano con la suora, poi tutt'e due vennero
premurosamente verso l'ubriaco e lo tirarono per le braccia su in piedi.
Il professor
Carmelo Sabato, scamiciato, col testone ciondolante, il viso bagnato di
lagrime, sbirciò l'uno e l'altra, sorpreso, intontito da tanta premura
silenziosa; non disse nulla; si lasciò condurre, cempennante.
La discesa per la
buia, angusta, ripida scaletta di legno fu difficile: il Lamella, avanti,
con quasi tutto il peso addosso di quel corpaccio cascante; la suora,
dietro, curva a trattener con ambedue le braccia, quanto più poteva, quel
peso.
Alla fine,
sorreggendolo per le ascelle, lo introdussero a traverso due stanzette
buie nella camera in fondo, illuminata da due candele or ora accese sui
due comodini ai lati del letto matrimoniale.
Rigido, impalato
sul letto, con le braccia in croce, stava il cadavere della moglie, dal
viso duro, arcigno, illividito dal riverbero delle candele sul soffitto
basso, opprimente della camera.
Un'altra suora
pregava inginocchiata e a mani giunte a piè del letto.
Il professor
Carmelo Sabato, ancora sorretto per le ascelle, ansimante, guardò un
pezzo la morta, quasi atterrito, in silenzio. Poi si volse al Lamella,
come a fargli una domanda:
- Ah?
La suora, senza
sdegno, con umiltà dolente e paziente gli fe' cenno di mettersi in
ginocchio, ecco, così come faceva lei.
- L'anima, eh? -
disse alla fine il Sabato, con un sussulto. - L'anima immortale, eh?
- Signore! -
supplicò l'altra suora più anziana.
- Ah? sì... sì...
subito... - si rimise, come spaurito, il professor Carmelo Sabato,
calandosi faticosamente sui ginocchi.
Cadde, carponi, con
la faccia a terra, e stette così un pezzo, picchiandosi il petto col
pugno. Ma a un tratto dalla bocca, lì contro terra, gli venne fuori con
suono stridulo e imbrogliato il ritornello d'una canzonettaccia francese:
«Mets-la en trou, mets-la en trou...» seguito da un ghigno: ih ih
ih ih...
Le due suore si
voltarono, inorridite; il Lamella si chinò subito a strapparlo da terra e
trascinarlo via nella stanza accanto; lo pose a sedere su una seggiola e
lo scrollò forte, forte, a lungo, intimandogli:
- Zitto! zitto!
- Sì, l'anima... -
disse piano, ansimando, l'ubriaco, - anche lei... l'anima... la plaga...
la plaga di spazio... dove... dove roteano mondi, mondi...
- Statevi zitto! -
seguitava a gridargli in faccia, con voce soffocata, il Lamella,
scrollandolo. - Statevi zitto!
Il Sabato, allora,
contro la sopraffazione provò di levarsi fiero in piedi; non poté; alzò
un braccio; gridò:
- Due figlie...
costei... due figlie mi buttò alla perdizione... due figlie!
Accorsero le due
suore a scongiurarlo di calmarsi, di tacere, di perdonare; egli si rimise
di nuovo, cominciò a dir di sì, di sì col capo, aspettando il pianto,
che alla fine gli proruppe, dapprima con un mugolio dalla gola serrata,
poi in tremendi singhiozzi. A poco a poco si calmò esortato dalle due
suore; poi non pensando d'aver lasciato su nella terrazza la giacca,
cominciò a frugarsi in petto con una mano.
- Che cercate? -
gli domandò il Lamella.
Guardando
smarritamente le due suore e l'antico alunno, ora l'una ora l'altro,
rispose:
- M'hanno scritto.
Tutt'e due. Volevano veder la madre. M'hanno scritto.
Socchiuse gli occhi
e aspirò col naso, a lungo, deliziosamente, accompagnando l'aspirazione
con un gesto espressivo della mano:
- Che profumo...
che profumo... Lauretta, da Torino... l'altra, da Genova...
Tese una mano e
afferrò un braccio del Lamella.
- Quella che volevi
tu...
Il Lamella,
mortificato davanti alle due suore, s'infoscò in volto.
- Giovannina...
Vanninella, sì... Célie... ah ah ah... Célie Bouton... La
volevi tu...
- Statevi zitto,
professore! - muggì il Lamella, contraffatto dall'ira e dallo sdegno.
Il Sabato insaccò
il capo fra le spalle, per paura, ma guardò da sotto in sé con malizia
l'antico alunno:
- Hai ragione sì...
Enrichetto, non mi far male... hai ragione... L'hai sentita all'Olympia? Mets-la
en trou, mets-la en trou...
Le due suore
alzarono le mani come a turarsi gli orecchi, col viso atteggiato di
commiserazione, e ritornarono alla camera della defunta, chiudendone
l'uscio.
Inginocchiate di
nuovo a piè del letto funebre, udirono a lungo la contesa di quei due
rimasti al bujo.
- Vi proibisco di
ricordarlo! - gridava, soffocato, il giovine.
- Va' a guardare le
stelle... va' a guardare le stelle... - diceva l'altro.
- Siete un buffone!
- Sì... e sai?
Vanninella m'ha... m'ha anche mandato un po' di danaro... e io non
gliel'ho rimandato, sai? Sono andato alla Posta, a riscuotere il vaglia,
e...
- E...?
- E ci ho comprato
la birra per te, idealista.
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