L'AVEMARIA
DI BOBBIO
Un caso singolarissimo era accaduto, parecchi anni
addietro, a Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i più stimati.
Nel poco tempo che
la professione gli lasciava libero, si era sempre dilettato di studii
filosofici, e molti e molti libri d'antica e nuova filosofia aveva letti e
qualcuno anche riletto e profondamente meditato.
Purtroppo Bobbio
aveva in bocca più di un dente guasto. E niente, secondo lui, poteva
meglio disporre allo studio della filosofia, che il mal di denti. Tutti i
filosofi, a suo dire, avevano dovuto avere e dovevano avere in bocca
almeno un dente guasto. Schopenhauer, certo, più d'uno.
Il mal di denti, lo
studio della filosofia; e lo studio della filosofia, a poco a poco, aveva
avuto per conseguenza la perdita della fede, fervidissima un tempo, quando
Bobbio era fanciullino e ogni mattina andava a messa con la mamma e ogni
domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al
Carmine.
Ciò che conosciamo
di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che
siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo
coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo d'un pozzo
senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti
della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché
veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con
pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati in noi, cancellati,
spenti; ma che al richiamo improvviso di una sensazione, sia sapore, sia
colore o suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in
noi un altro essere insospettato.
Marco Saverio
Bobbio, ben noto a Richieri non solo per la sua qualità di eccellente e
scrupolosissimo notajo, ma anche e forse più per la gigantesca statura,
che la tuba, tre menti e la pancia esorbitante rendevano spettacolosa;
ormai senza fede e scettico, aveva tuttora dentro - e non lo sapeva - il
fanciullo che ogni mattina andava a messa con la mamma e le due sorelline
e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola
al Carmine; e che forse tuttora, all'insaputa di lui, andando a letto con
lui, per lui giungeva le manine e recitava le antiche preghiere, di cui
Bobbio forse non ricordava più neanche le parole.
Se n'era accorto
bene lui stesso, parecchi anni fa, quando appunto gli era occorso questo
singolarissimo caso.
Si trovava a villeggiare con la famiglia in un suo poderetto a circa due
miglia da Richieri. Andava la mattina col somarello (povero somarello!) in
città, per gli affari dello studio, che non gli davano requie; ritornava,
la sera.
La domenica, però,
ah la domenica voleva passarsela tutta, e beatamente, in vacanza. Venivano
parenti, amici; e si facevano gran tavolate all'aperto: le donne
attendevano a preparare il pranzo o cicalavano; i ragazzi facevano il
chiasso tra loro; gli uomini andavano a caccia o giocavano alle bocce.
Era uno spasso e
uno spavento veder correre Bobbio dietro alle bocce, con quei tre menti e
il pancione traballanti.
- Marco, - gli
gridava la moglie da lontano, - non ti strapazzare! Bada, Marco, se
starnuti!
Perché, Dio liberi
se Bobbio starnutava! Era ogni volta una terribile esplosione da tutte le
parti; e spesso, tutto sgocciolante, doveva correre ai ripari con una mano
davanti e l'altra dietro.
Non aveva il
governo di quel suo corpaccio. Pareva che esso, rompendo ogni freno, gli
scappasse via, gli si precipitasse sbalestrato, lasciando tutti con
l'anima pericolante in atto di pararglielo. Quando poi gli ritornava in
dominio, riequilibrato, gli ritornava con certi strani dolori e guasti
improvvisi, a un braccio, a una gamba, alla testa.
Più spesso, ai
denti.
I denti, i denti
erano la disperazione di Bobbio! Se n'era fatti strappare cinque, sei, non
sapeva più quanti; ma quei pochi che gli erano restati pareva si fossero
incaricati di torturarlo anche per gli altri andati via.
Una di quelle
domeniche, ch'era sceso in villa da Richieri il cognato con tutta la
famiglia, moglie e figli e parenti della moglie e parenti dei parenti,
cinque carrozzate, e si era stati allegri più che mai, paf!
all'improvviso, sul tardi, giusto nel momento di mettersi a tavola, uno di
quei dolori... ma uno di quelli!
Per non guastare
agli altri la festa, il povero Bobbio s'era ritirato in camera con una
mano sulla guancia, la bocca semiaperta, e gli occhi come di piombo,
pregando tutti che attendessero a mangiare senza darsi pensiero di lui.
Ma, un'ora dopo, era ricomparso come uno che non sapesse più in che mondo
si fosse, se un molino a vapore, proprio un molino a vapore, strepitoso,
rombante, era potuto entrargli nella testa e macinargli in bocca, sì, sì,
in bocca, in bocca, furiosamente. Tutti erano restati sospesi e costernati
a guardargli la bocca, come se davvero s'aspettassero di vederne colar
farina. Ma che farina! bava, bava gli colava. Non questo soltanto, però,
era assurdo: tutto era assurdo nel mondo, e mostruoso, e atroce. Non
stavano lì tutti a banchettare festanti, mentre lui arrabbiava,
impazziva? mentre l'universo gli si sconquassava nella testa?
Ansando, con gli
occhi stravolti, la faccia congestionata, le mani sfarfallanti, levava
come un orso ora una cianca ora l'altra da terra, e dimenava la testa,
come se la volesse sbattere alle pareti. Tutti gli atti e i gesti erano,
nell'intenzione, di rabbia e violenti: ma si manifestavano molli e invano,
quasi per non disturbare il dolore, per non arrabbiarlo di più.
Per carità, per
carità, a sedere! a sedere! Oh, Dio! Lo volevano fare impazzire peggio,
saltandogli addosso così? A sedere! a sedere! Niente. Nessuno poteva
dargli ajuto! Sciocchezze... imposture... Niente, per carità! Non poteva
parlare... Uno solo... andasse giù uno solo a far attaccare subito i
cavalli a una delle carrozze arrivate la mattina. Voleva correre a
Richieri a farsi strappare il dente. Subito! subito! Intanto, tutti a
sedere. Appena pronta la carrozza... Ma no, voleva andar su, solo! Non
poteva sentir parlare, non poteva veder nessuno... Per carità, solo!
solo!
Poco dopo, in
carrozza - solo, come aveva voluto - abbandonato, sprofondato, perduto nel
rombo dello spasimo atroce, mentre lungo lo stradone in salita i cavalli
andavano quasi a passo nella sera sopravvenuta... Ma che era accaduto?
Nello sconvolgimento della coscienza, Bobbio all'improvviso aveva provato
un tremore, un tremito di tenerezza angosciosa per se stesso, che
soffriva, oh Dio, soffriva da non poterne più. La carrozza passava in
quel momento davanti a un rozzo tabernacolo della SS. Vergine delle
Grazie, con un lanternino acceso, pendulo innanzi alla grata, e Bobbio, in
quel fremito di tenerezza angosciosa, con la coscienza sconvolta, senza
sapere più quello che si facesse, aveva fissato lo sguardo lagrimoso a
quel lanternino, e...
«Ave Maria, piena
di grazie, il Signore è con Te, benedetta tra tutte le donne, e benedetto
il frutto del Tuo ventre, Gesù. Santa Maria madre di Dio, prega per noi
peccatori, ora e nell'ora della nostra morte. Così sia.»
E, all'improvviso,
un silenzio, un gran silenzio gli s'era fatto dentro; e, anche fuori, un
gran silenzio misterioso, come di tutto il mondo: un silenzio pieno di
freschezza, arcanamente lieve e dolce.
Si era tolta la
mano dalla guancia, ed era rimasto attonito, sbalordito, ad ascoltare. Un
lungo, lungo respiro di refrigerio, di sollievo, gli aveva ridato l'anima.
Oh Dio! Ma come? Il mal di denti gli era passato, gli era proprio passato,
come per un miracolo. Aveva recitato l'avemaria, e... Come, lui? Ma sì,
passato, c'era poco da dire. Per l'avemaria? Come crederlo? Gli era venuto
di recitarla così, all'improvviso, come una feminuccia...
La carrozza,
intanto, aveva seguitato a salire verso Richieri; e Bobbio, intronato,
avvilito, non aveva pensato di dire al vetturino di ritornare indietro,
alla villa.
Una pungente
vergogna di riconoscere, prima di tutto, il fatto che lui, come una
feminuccia, aveva potuto recitare l'avemaria, e che poi, veramente, dopo
l'avemaria il mal di denti gli era passato, lo irritava e lo sconcertava;
e poi il rimorso di riconoscere anche, nello stesso tempo, che si mostrava
ingrato non credendo, non potendo credere, che si fosse liberato dal male
per quella preghiera, ora che aveva ottenuto la grazia; e infine un
segreto timore che, per questa ingratitudine, subito il male lo potesse
riassalire.
Ma che! Il male non
lo aveva riassalito. E, rientrando nella villa, leggero come una piuma,
ridente, esultante, a tutti i convitati, che gli erano corsi incontro,
Bobbio aveva annunziato:
- Niente! Mi è
passato tutt'a un tratto, da sé, lungo lo stradone, poco dopo il
tabernacolo della Madonna delle Grazie. Da sé!
Orbene, a questo suo caso singolarissimo di parecchi anni fa pensava
Bobbio con un risolino scettico a fior di labbra, un dopopranzo, steso su
la greppina dello studio, col primo volume degli Essais di
Montaigne aperto innanzi agli occhi.
Leggeva il capitolo
XXVII, ov'è dimostrato che c'est folie de rapporter le vray et le faux
à notre suffisance.
Era, non ostante
quel risolino scettico, alquanto inquieto e, leggendo, si passava di
tratto in tratto una mano su la guancia destra.
Montaigne diceva:
«Quand nous
lisons dans Bouchet les miracles des reliques de sainct Hilaire, passe;
son credit n'est pas assez grand pour nous oster la licence d'y
contredire; mais de condamner d'un train toutes pareilles histoires me
semble singuliere imprudence. Ce grand sainct Augustin tesmoigne...»
- Eh già! - fece
Bobbio a questo punto, accentuando il risolino. - Eh già! Ce grand
sainct Augustin attesta, o diciamo, autentica d'aver veduto, su le
reliquie di San Gervaso e Protaso a Milano, un fanciullo cieco
riacquistare la vista; una donna a Cartagine, guarire d'un cancro col
segno della croce fattovi sopra da una donna di recente battezzata... Ma
allo stesso modo il gran Sant'Agostino avrebbe potuto affermare, o
diciamo, autenticare su la mia testimonianza, che Marco Saverio Bobbio,
notajo a Richieri tra i più stimati, guarì una volta all'improvviso d'un
feroce mal di denti, recitando un'avemaria....
Bobbio chiuse gli
occhi, accomodò la bocca ad o, come fanno le scimmie, e mandò fuori un
po' d'aria.
- Fiato cattivo!
Strinse le labbra
e, piegando la testa da un lato, sempre con gli occhi chiusi, si passò di
nuovo, più forte, la mano su la mandibola.
Perdio, il dente! O
non gli faceva male di nuovo, il dente? E forte, anche, gli faceva male.
Perdio, di nuovo.
Sbuffò; si levò
in piedi faticosamente; buttò il libro su la greppina, e si mise a
passeggiare per la stanza con la mano su la guancia e la fronte contratta
e il naso ansante. Si recò davanti allo specchio della mensola; si cacciò
un dito a un angolo della bocca e la stirò per guardarvi dentro il dente
cariato. All'impressione dell'aria, sentì una fitta più acuta di dolore,
e subito serrò le labbra e contrasse tutto il volto per lo spasimo; poi
levò il volto al soffitto e scosse le pugna, esasperato.
Ma sapeva per
esperienza che, ad avvilirsi sotto il male o ad arrabbiarsi, avrebbe fatto
peggio. Si sforzò dunque di dominarsi; andò a buttarsi di nuovo su la
greppina e vi rimase un pezzo con le palpebre semichiuse, quasi a covar lo
spasimo; poi le riaprì; riprese il libro e la lettura.
«...une lemme
nouvellement baptisée lui fit, Hesperius... no, appresso... Ah,
ecco... une femme en une procession ayant touché à la chasse sainct
Estienne d'un bouquet, et de ce bouquet s'estant frottée les yeux, avoir
recouvré la veuë qu'elle avoit pieça perdue...»
Bobbio ghignò. Il
ghigno gli si contorse subito in una smorfia, per un tiramento improvviso
del dolore, ed egli vi applicò la mano sì, forte, a pugno chiuso. Il
ghigno era di sfida.
- E allora, -
disse, - vediamo un po': Montaigne e Sant'Agostino mi siano testimonii.
Vediamo un po' se mi passa ora, come mi passò allora.
Chiuse gli occhi e,
col sorriso frigido su le labbra tremanti per lo spasimo interno, recitò
pian piano, con stento, cercando le parole, l'avemaria, questa volta in
latino... gratia piena... Dominus tecum... fructus ventris tui... nunc
et in hora mortis... Riaprì gli occhi. Amen... Attese un po',
interrogando in bocca il dente... Amen...
Ma che! Non gli
passava. Gli si faceva anzi più forte... Ecco, ahi ahi... più forte...
più forte...
- Oh Maria! oh
Maria!
E Bobbio rimase
sbalordito. Quest'ultima, reiterata invocazione non era stata sua; gli era
uscita dalle labbra con voce non sua, con fervore non suo. E già...
ecco... una sosta... un refrigerio... Possibile? Di nuovo?... Ma che, no!
Ahi ahi... ahi ahi...
- Al diavolo
Montaigne! Sant'Agostino!
E Bobbio si cacciò
tutta la tuba in capo e, aggrondato, feroce, con la mano su la guancia, si
precipitò in cerca d'un dentista.
Recitò o non recitò,
durante il tragitto, senza saperlo, di nuovo, l'avemaria? Forse sì...
forse no... Il fatto è che, davanti alla porta del dentista, si fermò di
botto, più che mai aggrondato, con rivoli di sudore per tutto il
faccione, in tale buffo atteggiamento di balorda sospensione, che un amico
lo chiamò:
- Signor notajo!
- Ohé...
- E che fa lì?
- Io? Niente...
avevo un... un dente che mi faceva male..
- Le è passato?
- Già... da sé...
- E lo dice così?
Sia lodato Dio!
Bobbio lo guardò
con una grinta da cane idrofobo.
- Un corno! - gridò.
- Che lodato Dio! Vi dico, da sè! Ma perché vi dico così, vedrete che
forse, di qui a un momento, mi ritornerà! Ma sapete che faccio? Non mi
duole più; ma me lo faccio strappare lo stesso! Tutti me li faccio
strappare, a uno a uno, tutti, ora stesso me li faccio strappare. Non
voglio di questi scherzi... non voglio più di questi scherzi, io! Tutti,
a uno a uno, me li faccio strappare!
E si cacciò,
furibondo, tra le risa di quell'amico, nel portoncino del dentista.
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