SUA
MAESTA'
Accanto alla tragedia, però, si ebbe anche la farsa a
Costanova, quando fu sciolto il Consiglio comunale e arrivò da Roma il
Regio Commissario.
Quel giorno,
Melchiorino Palì, nella sala d'aspetto della stazione, picchiandosi il
petto con tutte e due le manine perdute in un vecchio paio di guanti grigi
Foracchiati nelle punte, si sfogava a dire:
- Ma la faremo noi,
noi, la rivoluzione... One. Noi!
I suoi colleghi del
Consiglio disciolto (icconsiglio andato a male, come diceva sotto
sotto il guardasala, ch'era un vecchietto toscano, ascritto, com'era
allora di regola, alla lega socialista dei ferrovieri) avevano, dopo lungo
dibattito, deciso di venire alla stazione per accogliere l'ospite,
quantunque avversario. Ed erano venuti in abito lungo e cappello a staio.
Il Palì aveva cercato di dissuaderli, dimostrando loro che non si doveva
in nessun modo. Non c'era riuscito e alla fine era venuto anche lui. Coi
miseri panni giornalieri, però. In segno di protesta.
Piccino, piccino,
con la barbetta rossa e gli occhiali azzurri, oppresso da un cappello
duro, roso, inverdito che gli sprofondava fin su la nuca, gli orecchi
curvi sotto le tese, oppresso da un greve soprabito color tabacco,
continuava a sfogarsi, gestendo furiosamente. Ma si rivolgeva ora di
preferenza ai manifesti illustrati, appesi alle pareti della sala
d'aspetto, visto che nessuno dei colleghi gli dava più ascolto.
Il vecchio
guardasala, intanto, se lo stava a godere, con un sorrisetto canzonatorio
su le labbra.
Da uno di quei
manifesti, un bel tocco di ragazza scollacciata gli offriva ridendo una
tazza di birra dalla spuma traboccante, come per farlo tacere. Ma invano.
- Rivoluzione!
Rivoluzione! - incalzava Melchiorino Palì, il quale, quand'era così
eccitato, soleva ripetere due o tre volte le ultime sillabe delle parole,
come se egli stesso si facesse l'eco: - One... one...
Era indignato non
tanto per lo scioglimento del Consiglio (glien'importava un fico... ico...
un fico secco... ecco... a lui, se non era più consigliere) quanto
per lo spettacolo stomachevole che il Governo dava all'intera nazione
trescando spudoratamente col partito socialista, fino a darla vinta a quei
quattro mascalzoni che a Costanova andavano per via col garofano rosso
all'occhiello, protetti dall'on. Mazzarini, deputato del collegio, che a
Costanova però non aveva raccolto più di ventidue voti... oti.
Ora questa,
senz'alcun dubbio, era una vendetta del Mazzarini, il quale, partendo per
Roma, aveva giurato di dare una lezione memorabile al paese che gli si era
dimostrato così accerrimamente nemico... ico. Ma che lezione? Lo
scioglimento del Consiglio? Eh via! Miserie! Melchiorino Palì considerava
da un punto più alto la questione... one. Dieci, venti, trenta
lire al giorno a un tramviere, a un ferroviere? Quattro, cinque mesi di
preparazione, seppure! E un professor di liceo, un giudice, che han dovuto
studiar vent'anni per strappare una laurea e affrontare esami e concorsi
difficilissimi, non le avevano, non le avevano trenta lire al giorno! E
tutte le commiserazioni, intanto, e tutte le cure per il così detto
proletariato... ato!... ato!
A questo punto, non
si sa come, la ragazza scollacciata di quel manifesto, quasi fosse stufa
di offrire invano la sua tazza di birra a uno che le avventava contro
tanta furia di gesti irosi, si staccò dalla parete e precipitò con
fracasso sul divano di cuojo, ove stava seduto l'ex-sindaco, cav. Decenzio
Cappadona.
- Vai! È ito via
icchiodo! - esclamò allora, accorrendo e sghignando, il vecchietto
guardasala.
Il Cappadona balzò
in piedi sacrando e tirò una spinta così furiosa a Melchiorino Palì
rimasto a bocca aperta e con le dieci dita per aria, che lo mandò a
schizzare addosso a uno dei colleghi.
- Io? Che c'entro
io? So un corno io se il chiodo si stacca! - si rivoltò furibondo il Palì;
quindi, parandosi di faccia a quel collega e prendendogli un bottone sul
petto della finanziera: - Non ti pajono sacrosante ragioni? Perché,
sissignore, io ci sto: trenta lire al giorno... orno... al
tramviere, al ferroviere... ci sto! ma datene allora cento al giudice, al
professore... ore... e se no, perdio, la faremo noi, la
rivoluzione... one... perdio! Noi!
Quel collega si
guardava il bottone. Aveva un tubino spelacchiato, ma lo portava con tanta
dignità e s'era tutto aggiustato con tanta cura, che si sentiva
struggere, ora, a quel discorso e approvava e sbuffava e strabuzzava gli
occhi. Alla fine, non ne poté più: lo lasciò lì in asso e s'accostò
al cavalier Cappadona per pregarlo che, avvalendosi della sua autorità,
facesse tacere quell'energumeno. Era un'indecenza strillare così, con
tutta quella trucia addosso. Comprometteva, ecco!
Ma il cavalier
Decenzio Cappadona, che s'era già ricomposto e se ne stava ora astratto e
assorto, fece un atto appena appena con la mano e seguitò a lisciarsi il
gran pizzo regale.
Lo chiamavano a
Costanova Sua Maestà, perché era il ritratto spiccicato di
Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore: la stessa corporatura, gli
stessi baffi, lo stesso pizzo, lo stesso naso rincagnato all'insù;
Vittorio Emanuele II insomma, purus et putus, purus et putus, come
soleva ripetere il notajo Colamassimo che sapeva il latino.
Anche lui, il
cavalier Cappadona, era venuto coi panni giornalieri; ma che c'entra! era
noto a tutti ch'egli non cambiava mai, neanche nelle più solenni
occasioni, quel suo splendido abito di velluto alla cacciatora e gli
stivali e il cappellaccio a larghe tese con la penna infitta da un lato
nel nastro, che erano tali e quali quelli che il Gran Re portava nel
ritratto famoso che al cavalier Decenzio serviva da modello.
I maligni dicevano
che non aveva altri titoli per esser sindaco di Costanova fuor che quella
straordinaria somiglianza, e che non aveva fatto in vita sua altri studii
oltre a quello attentissimo sul ritratto del primo re d'Italia.
Questa seconda
malignazione poteva forse avere qualche fondamento di verità: la prima
no.
Non bastava,
infatti, nemmeno a quei tempi, somigliare a Vittorio Emanuele II per esser
sindaco di un comune d'Italia. Tanto vero che in ogni città era raro il
caso che non ci fosse per lo meno uno che non somigliasse o non si
sforzasse di somigliare a Vittorio Emanuele II, o anche a Umberto I,
senz'esser per questo nemmeno consigliere della minoranza.
In verità, ci
voleva qualcos'altro.
E questo qualcos'altro
il cavalier Decenzio Cappadona lo aveva. Milionario, poteva pigliarsi il
gusto di sfogare esclusivamente tutta l'attività morale e materiale di
cui era capace nella professione di quella somiglianza.
A Costanova era re;
la sua casa, una reggia; teneva in campagna una numerosa scorta di
campieri in divisa, ch'erano come il suo esercito; tutti gli abitanti,
tranne quel pugno di buffoni capitanati dal repubblicano Leopoldo Paroni,
eran per lui più sudditi che elettori; aveva una scuderia magnifica, una
muta di cani preziosa; amava le donne, amava la caccia; e dunque chi più
Vittorio Emanuele di lui?
Ora, durante
l'ultima amministrazione, qualcuno degli assessori aveva dovuto commettere
qualche piccola sciocchezza amministrativa: il cavalier Decenzio non
sapeva bene: era re, lui: regnava e non governava. Il fatto è che il
Consiglio era stato sciolto. A momenti sarebbe arrivato il Regio
Commissario; il cavalier Decenzio s'era incomodato a venire alla stazione;
lo avrebbe accolto cortesemente, nella certezza che anche costui sarebbe
diventato suo suddito temporaneo devotissimo; si sarebbero fatte le nuove
elezioni, e sarebbe stato rieletto sindaco, riacclamato re, senz'alcun
dubbio.
L'avvisatore
elettrico cominciò a squillare. Il cavalier Cappadona sbadigliò, si alzò,
si batté il frustino su gli stivali, facendo al solito con le labbra: - Bembé...
Bembé... - e uscì, seguito dagli altri, sotto la tettoja della
stazione. Melchiorino Palì ripeteva ancora una volta che dobbiamo farla
noi la rivolò... ma vide due carabinieri alla porta della sala d'aspetto,
e le ultime sillabe della parola gli rimasero in gola: ne venne fuori,
poco dopo, al solito, l'eco soltanto, attenuata:
- One... one...
La cornetta del
casellante strepé in distanza: s'intese il fischio del treno.
- Campana! - ordinò
allora il capostazione, che s'era avvicinato a ossequiare il cavalier
Cappadona.
Ed ecco il treno,
sbuffante, maestoso. Tutti si allineano, in attesa, ansiosi e con
quell'eccitazione che l'arrivo del convoglio con la sua imponenza rumorosa
e violenta suoi destare; i ferrovieri corrono ad aprir gli sportelli
gridando: Costanova! Costanova! Da una vettura di prima classe uno
spilungone miope, squallido, con certi baffi biondicci alla cinese, tende
una valigia al facchino e gli dice piano:
- Regio
Commissario.
Gli aspettanti lo
mirano delusi, toccandosi sotto sotto coi gomiti, e il cavalier Decenzio
Cappadona si fa avanti con la sua impastatura regale, quando tutto un
tratto - è uno scherzo? un'allucinazione? - dietro quello spilungone
miope scende maestoso su la predella della vettura un altro Vittorio
Emanuele II, più Vittorio Emanuele II del cavalier Decenzio Cappadona.
I due uomini, così
davanti a petto, si guatano allibiti. Nessuno degli ex-consiglieri osa
farsi avanti; anche il capostazione, che s'era proposto di presentare
l'ex-sindaco al Regio Commissario, rimane inchiodato al suo posto; e
quell'altro Vittorio Emanuele che è il commendatore Amilcare Zegretti,
proprio lui, il Regio Commissario, passa tra tutti quegli uomini quasi
esterrefatti, e si caccia con un acuto sgrigliolìo delle scarpe, che pare
esprima la nerissima stizza ond'è preso, nella sala d'aspetto, seguito
dal suo allampanato segretario particolare.
- Mi.. mi... mi..
Non trova più la
voce. Quegli intanto non ardisce alzare gli occhi a guardarlo in faccia.
- Mi chiami il
ca... il capostazione, la prego.
Sotto la tettoja,
il capostazione è rimasto a guardare a uno a uno i membri del Consiglio
disciolto, tutti ancora intronati, e il cavalier Decenzio Cappadona basito
addirittura e quasi levato di cervello. Il segretario particolare gli
s'accosta, timido, vacillante:
- Scusi, signor
Capo, una parolina.
Il capostazione
accorre premuroso alla sala d'aspetto e vi trova il commendator Zegretti
con tanto d'occhi sbarrati e fulminanti e una mano spalmata sotto il naso
in atteggiamento pensieroso, sì, ma che par fatto apposta per nascondere
baffi e appendici.
- Quei... quei
signori, scusi...
- Del Consiglio
disciolto, sissignore. Venuti apposta per ossequiarla, signor
Commendatore.
- Grazie, e... c'è,
scusi, c'è anche il... come si chiama?
- L'ex-sindaco?
Cavalier Cappadona, sissignore. Sarebbe anzi appunto...
- Va bene, va bene.
Me lo ringrazii tanto, ma dica che... che io son venuto anche per fare
una... una piccola inchiesta, ecco. Non sarebbe dunque prudente... Ci
vedremo al Municipio. Mi faccia venire qua, la prego, il mio segretario.
Dov'è? dove s'è cacciato?
Il segretario,
sotto la tettoja, era assediato dai membri del Consiglio disciolto.
Melchiorino Palì aveva posto crudamente il dilemma:
- O si rade l'uno o
si rade l'altro.
Ma che! ma no!
bisognava che si radesse il nuovo arrivato, per forza; perché del
Cappadona era nota a tutti la somiglianza con Vittorio Emanuele II, e
perciò, se si fosse raso lui e il Regio Commissario fosse entrato in sua
vece da Vittorio Emanuele in Costanova, lo scandalo non si sarebbe
evitato. Scandalo inaudito, perché a Costanova l'arrivo di quel Regio
Commissario rappresentava un vero e proprio avvenimento. Una fischiata
generale sarebbe scoppiata; tutto il paese sarebbe crepato dalle risa; fin
le case di Costanova avrebbero traballato per un sussulto di spaventosa
ilarità; fino i ciottoli delle vie sarebbero saltati fuori, scoprendosi
come tanti denti, in una convulsione di riso.
- Mazzarini!
Mazzarini! - strillava più forte degli altri Melchiorino Palì. - È
stato lui, l'on. Mazzarini! Ecco la vendetta che ci ha giurato! la lezione
memorabile! L'ha scelto lui, a Roma, il Regio Commissario per Costanova...
ova... ova... Mascalzone! Offesa alla memoria, alla effigie
del nostro Gran Re! Irrisione, attentato al prestigio dell'autorità!
Bisognava a ogni
costo impedirlo; mandare presto presto per un barbiere fidato; e lì
stesso, nella sala d'aspetto, indurre il Regio Commissario a sacrificare
almeno il pappafico... sì, e un pochino pochino anche i baffi, prima
d'entrare in paese.
Ma chi si prendeva
l'accollo di fare una simile proposta al commendator Zegretti?
Il cavalier
Decenzio Cappadona s'era allontanato, fosco, e col frustino si sfogava
contro la innocente ruchetta bianca e il crespignolo dai fiori gialli, che
crescevano di tra le crepe dell'antica spalletta che impedisce l'ingresso
alla stazione.
- Marcocci! - tonò
in quel punto il commendator Zegretti, facendosi su la soglia della sala
d'aspetto, furibondo.
Il povero
segretario, schiacciato sotto l'incarico che gli avevano dato gli
ex-consiglieri, accorse come un cane che fiuti in aria le busse.
- Una vettura!
- Aspetti...
perdoni, signor Commendatore... - si provò a dire il Marcocci. - Se... se
lei volesse... dicevano quei signori... prima d'entrare in paese... qui
stesso... dicevano quei signori... perché, lei ha veduto? c'è qui...
quello che... l'ex-sindaco, lei ha veduto? Ora, dicevano quei signori...
- Insomma si
spieghi! - gli urlò lo Zegretti.
- Ecco,
sissignore... qui stesso, si potrebbe... se lei volesse... dicevano...
mandare per un... come si chiama? e farsi... un pochino pachino almeno...
ecco, i baffi soltanto, signor Commendatore, dicevano quei signori.
- Che? - ruggì il
commendator Zegretti e gli si parò di fronte, quasi per scoppiargli
addosso, gonfio com'era di collera e di sdegno. - Sa lei che io sono qua,
adesso, la prima autorità del paese?
- Sissignore!
sissignore! come non lo so?
- E dunque? Una
vettura! Marche!
E s'avviò innanzi,
col petto in fuori, aggrondato, i baffoni in aria, il naso al vento.
Naturalmente a
Costanova accadde quel che i membri del Consiglio disciolto avevano
purtroppo preveduto.
Più fiera vendetta
di quella l'on. Mazzarini non poteva prendersi, non solo contro il
cavalier Decenzio Cappadona, suo acerrimo avversario, ma anche contro
l'autorità costituita; lui socialista.
Retrogrado,
conservatore, il paese di Costanova? Là, due re! Di cui l'uno il ritratto
dell'altro, e l'un contro l'altro armato.
Ora, come un leone
in gabbia, il commendator Zegretti nella magna sala del Municipio,
ripensando all'impegno di quel deputato a Roma, perché lui e non altri
fosse mandato quale Regio Commissario a Costanova; ripensando alla grande
soddisfazione che egli per quell'impegno aveva provato, fremeva di rabbia,
s'arrotolava i baffoni fino a storcersi il labbro di qua e di là, si
stirava il gran pizzo, si affondava le unghie nelle palme delle mani,
vedeva rosso!
Come fare il Regio
Commissario in quel paese, a cui non poteva mostrarsi, senza promuover
subito uno scoppio di risa?
Se non ci fosse
stato quell'altro, egli avrebbe certo ispirato maggior reverenza col suo
aspetto, che attestava devozione alla monarchia, culto anche fanatico
della memoria del Gran Re. Ma ora... così... E se qualcuno ne avesse
scritto a Roma, ai giornali? se qualche deputato ne avesse parlato alla
Camera?
Così pensando, il
commendator Zegretti sentiva di punto in punto crescer l'orgasmo;
passeggiava, si fermava, passeggiava ancora un po', si riformava,
sbuffando ogni volta e scotendo in aria le pugna.
Quella sala del
Municipio era magnifica, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di
dorature. Il cavalier Decenzio Cappadona l'aveva fatta decorare e
addobbare sontuosamente a sue spese. Nella parete di fondo troneggiava un
gran ritratto a olio del primo re d'Italia, che il Cappadona stesso aveva
fatto eseguire lì a Costanova, da un pittore di passaggio, sedendo lui
per modello.
- Imbecille!
Buffone! Così nero? Quando mai Vittorio Emanuele II fu così nero?
Biondo scuro e con
gli occhi cilestri: ecco com'era Vittorio Emanuele II; com'era lui,
insomma, il commendator Zegretti, che aveva perciò quasi un diritto
naturale a professarne la somiglianza. Eh, ma allora, qualunque
mascalzone, purché avesse il naso un po' in sé e un po' di crescenza nei
peli della faccia, poteva figurare da Vittorio Emanuele II; se non si
doveva tener conto del colore del pelo, del colore degli occhi.
Più d'uno a
Costanova dava ragione al Regio Commissario, sosteneva cioè che veramente
egli più del Cappadona somigliava a Vittorio Emanuele II con quegli occhi
da vitellone; altri invece sosteneva il contrario; e le discussioni si
facevano di giorno in giorno più calorose. Appena lo vedevano passare per
via tutti uscivano fuori dalle botteghe, s'affacciavano alle finestre) si
fermavano a mirarlo:
- Ma bello, vah!
magnifico! guardatelo!
Nessuno poté
assistere però alla scena più buffa, che si svolse nella sala del
Municipio, dove una mattina dovettero pur trovarsi di fronte tutt'e due,
quei Vittorii Emanueli. E ce n'era pure un terzo, lì, dipinto a olio,
grande al vero, che se li godeva dall'alto della parete, così ammusati.
Una gran folla,
quella mattina, all'annunzio dell'invito che il Regio Commissario aveva
fatto al Cappadona per interrogarlo sull'ultima gestione amministrativa,
s'era raccolta sotto il Municipio. Figurarsi dunque l'animo del cavalier
Decenzio nel recarsi, tra tanta gente assiepata, a quel convegno; e
l'animo del commendator Zegretti, a cui ne saliva dalla piazza il brusio.
Oltre l'irrisione,
che era patente nella curiosità di tutti quegli oziosi, qualche altra
cosa irritava sordamente il cavalier Cappadona.
Quantunque molto
munifico al paese, era pur non di meno gelosissimo di tutti i suoi doni al
Comune.
Ora, da più
giorni, passando sotto il Municipio, aveva veduto spalancate al sole le
ampie finestre poste davanti, ch'eran quelle appunto del salone. Povere
tende, dunque! poveri mobili, a quella luce sfacciata! e chi sa quanta
polvere! che disordine!
Quando, introdotto
dal segretario Marcocci, vide il gran tappeto persiano, che copriva da un
capo all'altro il pavimento, ridotto in uno stato miserando, come se ci
fosse passato sopra un branco di porci, si sentì tutto rimescolare. Ma
sentì addirittura artigliarsi le dita nel vedere che colui lo accoglieva
senza il minimo riguardo. Signori miei, quell'intruso lì! Quell'intruso,
che dimostrandosi fino a tal segno villano e indegno d'abitare in un luogo
addobbato con tanto decoro e tanto sfarzo - osava pure scimmiottare
l'imagine d'un re.
Il commendator
Zegretti stava seduto innanzi a un'elegantissima scrivania, piena zeppa di
carte, che s'era fatta trasportare lì nel salone, e scriveva. Senza
neppure alzar gli occhi, disse seccamente:
- S'accomodi.
Ma s'era già
accomodato da sé, senz'invito, il Cappadona, sulla poltrona di faccia.
Il Regio
Commissario, tenendo ancora gli occhi bassi, prese a esporre
all'ex-sindaco la ragione per cui lo aveva invitato a venire.
A un certo punto il
Cappadona, che lo guardava fieramente, scattò in piedi, serrando le
pugna.
- Scusi, - disse, -
non si potrebbero almeno accostare un tantino queste finestre?
Due, tre fischi
partirono in quel momento dalla folla raccolta nella piazza sottostante.
Il commendator
Zegretti alzò il capo, stirandosi un baffo con aria grave, e disse:
- Ma io non ho
paura, sa.
- E chi ha paura? -
fece il Cappadona. - Dico per queste povere tende... per questo tappeto,
capirà...
Il commendator
Zegretti guardò le tende, guardò il tappeto, si buttò indietro su la
spalliera del seggiolone e, accarezzandosi ora l'interminabile pizzo:
- Mah! - sospirò.
- Mi piace, sa, mi piace lavorare alla luce del sole!
- Eh, - squittì il
Cappadona, - se non si rovinasse la tappezzeria... Capisco che a lei non
importa nulla; ma, se permette, le faccio osservare che importa a me,
perché è roba mia.
- Del Municipio, se
mai...
- No! Mia, mia,
mia. Fatta a mie spese! Mia la sedia, su cui lei siede; mia la scrivania,
su cui lei scrive. Tutto quello che lei vede qua, mio, mio, mio, fatto col
denaro mio, lo sappia! E se si vuole prendere il disturbo d'affacciarsi un
pochino alla finestra, le faccio vedere là l'edificio delle scuole, che
ho fatto levare io di pianta e costruire a mie spese e arredare di tutto
punto: io! E ci sono anche le scuole tecniche che il signor Mazzarini,
deputato del collegio, non è stato buono a ottenere dal Governo, come era
d'obbligo, e che mantengo io, a mie spese: io! Se si vuole alzare un
pachino e affacciare alla finestra, le faccio vedere, più là, un altro
edificio, l'ospedale, costruito, arredato e mantenuto anche da me, a mie
spese.. E questa, ora, è la ricompensa, caro signore! Mi si manda qua
lei, non so perché: aspetto che lei me lo dica... mi spieghi bene che
cosa sia venuto a far qua, lei... Ma già lo vedo... già lo vedo...
E il cavalier
Decenzio Cappadona, aprendo le braccia, si mise a guardare il tappeto
rovinato.
Con fredda calma
ostentata, il commendator Zegretti, inarcando le ciglia a mezzaluna:
- Ma io, - disse, -
io invece, sa? sono qua per vedere che cosa ha fatto lei, piuttosto.
- Gliel'ho detto,
che cosa ho fatto io! E ci sono le prove lì: c'è tutto il paese che può
rispondere per me! Chi è lei? che cosa vuole da me?
- Io rappresento
qua il Governo! - rispose infoscandosi il commendator Zegretti, e poggiò
ambo le mani su la scrivania.
Il Cappadona si
scrollò tutto, tre volte:
- Ma nossignore! ma
che Governo! ma non ci creda! Glielo dico io che cosa rappresenta lei qua.
- Oh insomma! -
gridò il Regio Commissario, levandosi in piedi anche lui. - Io non posso
assolutamente tollerare che lei si dia codeste arie davanti a me!
E i due Vittorii
Emanueli si guardarono finalmente negli occhi, pallidi e vibranti d'ira.
- Io, le arie? -
fece con un sogghigno il Cappadona. - Ma se le dà lei, mi pare, le arie.
Non si è degnato nemmeno d'alzarsi, quando io sono entrato, come se fosse
entrato il signor nessuno qua, dove pure tutto mi appartiene.
- Ma io non le so,
non le voglio, né le debbo sapere io, codeste cose! - rispose, sempre più
eccitandosi, il commendator Zegretti. - Questa è la sede del Municipio.
- Benissimo! Del
Municipio! Non stalla, dunque!
- Lei m'offende!
- Come le pare
- Ah sì? E allora
io la invito a uscir fuori ! Là!
E il commendator
Zegretti additò fieramente la porta.
Si videro, ora,
l'uno addosso all'altro, i due re: i baffi tremavano, tremavano i
pappafichi, e i nasi all'erta fremevano.
- A me osa dir
questo? - tonò il Vittorio Emanuele paesano.
La sua voce
s'intese nella piazza sottostante e un uragano di fischi e di grida
scomposte si levò minaccioso.
- Proprio a lei!
sissignore! Perché io non ho paura! - inveì, pallidissimo, il
commendator Zegretti. - E se trovo qua, fra queste carte, qualche
irregolarità...
- Mi manda in
galera? - compì la frase il Cappadona, sghignazzando. - Ma si provi, si
provi; vedrà che cosa succede... Lei qua non rappresenta che quattro
mascalzoni messi su da quel farabutto del Mazzarini, deputato socialista,
nemico della patria e del re, ha capito? Del re, del re; glielo grido sul
muso a lei mascherato a codesto modo!
Trasecolò, nel suo
furore, il commendator Zegretti.
- Io, mascherato? -
disse. - Come... E lei? Ci vuole un bel coraggio, perdio! Ma si levi! Ma
vada via! Io, mascherato? Ma dove, ma quando lo vide mai lei, Vittorio
Emanuele, che ha fatto calunniare lì, in quel ritratto? Non era mica così
nero, sa? come lei se l'immagina, Vittorio Emanuele II!
- Ah, no? com'era?
rosso? nero? repubblicano? socialista come voi? protettore di farabutti?
Ma radetevi! radetevi! ci farete miglior figura! Non profanate così
l'immagine del Re! E basta, non vi dico altro. Ce la vedremo, caro
signore, alle prossime elezioni!
E il cavalier
Decenzio Cappadona, col volto in fiamme, uscì tutto sbuffante di
fierissimo sdegno.
In piazza fu
accolto da un fragoroso scoppio d'applausi. Agli amici più intimi, che lo
attendevano ansiosi, non poté rispondere fuorché queste parole:
- Faccio nascere un
macello, parola d'onore!
E la guerra cominciò, ferocissima, tra i due re.
Com'era però da
prevedersi, la sconfitta fu per il commendator Zegretti, avendo il
Cappadona tutto il paese dalla sua.
Appena si mostrava
per via, due, tre lo chiamavano forte:
- Cavaliere! Signor
sindaco!
Tirava via di
lungo: e un quarto, ecco, lo raggiungeva di corsa, gli batteva
amichevolmente una mano su la spalla.
- Caro Decenzio!
Si voltava di
scatto, con gli occhi che gli schizzavano fiamme; e subito:
- Ah, scusi, signor
Commendatore! Credevo che fosse il cavalier Cappadona... Capirà!
Perdoni...
Rientrava al
Municipio? Lungo l'androne c'erano parecchie porte murate; rimanevano però,
di qua e di là, gli sguanci nella grossezza del muro, come tante nicchie:
bene: da ciascuna saltava fuori un monello, al passaggio del Commendatore.
Un saluto militare; uno strillo: - Maestà! - e via a gambe levate.
Il commendator
Zegretti licenziò allora il guardaportone ch'era un povero vecchietto
allogato lì per carità e che non ne aveva nessuna colpa. Egli, infatti,
lasciava in custodia alla moglie l'entrata e andava in giro tutto il
giorno, domandando ad alta voce, da lontano, se per caso ci fosse qualcuno
che volesse farsi la barba.
Buttato in mezzo
alla strada, se n'andò a piangere dal cavalier Cappadona. Sua Maestà
gli promise che, rifatte le elezioni, lo avrebbe riassunto in servizio, e
intanto gli diede da vivere per sé e per la sua famiglia. Contento, il
vecchietto mostrò le forbici al cavalier Cappadona:
- Non dubiti,
signor Cavaliere, che se m'avviene di ripigliarlo a comodo, lo acciuffo e
lo toso di prepotenza. Baffi e pappafico, signor Cavaliere!
Questa minaccia
arrivò agli orecchi del commendator Zegretti, il quale d'allora in poi
prese a uscire seguito da due guardie. E allora, da lontano, fischi, urli
e altri rumori sguajati, che arrivavano al cielo.
Fu peggio, quando
il segretario Marcocci, divenuto d'un estremo squallore e molto più miope
dal giorno dell'arrivo, una sera, cercando in uno sgabuzzino alcune carte,
si bruciò per disgrazia con la candela che teneva in mano uno di quei
suoi baffi biondicci alla cinese, e fu perciò costretto a radersi anche
l'altro.
Tutto il paese, il
giorno dopo, vedendolo così raso lo riaccompagnò quasi in trionfo al
Municipio, come se quel pover'uomo si fosse raso per dare una
soddisfazione al Comune di Costanova e il buon esempio al suo principale.
Il commendator
Zegretti non si lasciò più vedere per il paese. Il giorno per le
elezioni era ormai vicino. Per prudenza, prevedendo l'esplosione del
giubilo popolare per la vittoria incontrastabile del Cappadona, domandò
al Prefetto del capoluogo un rinforzo di soldati.
Ma la popolazione
di Costanova, ben pagata ed eccitata dal vino delle cantine di Sua
Maestà, non si lasciò intimidire da quel rinforzo; e il giorno
segnato insorse in una frenetica dimostrazione. Le guardie che
presidiavano il Municipio caricarono violentemente la folla; ma le spinte,
gli urtoni, che scaraventavano di qua e di là i dimostranti e li
lasciavano un pezzo, compressi da tutte le parti, a boccheggiar come
pesci, non giovarono a nulla: riprendevano fiato quei demonii scatenati e
urlavano più forte di prima.
- Abbasso Zegrettììì!
Abbasso il pappaficòòò! Si rada! si radààà! Viva Cappadonààà! Ràditi,
Zegrettììì!
Un pandemonio.
Ma radersi, no. Ah,
radersi, no! Piuttosto il commendator Zegretti, non per paura, ma per non
darla vinta a colui che indegnamente si credeva il ritratto di Vittorio
Emanuele II, e per non far fuggire sconfitta nella sua persona la vera
immagine del gran Re, s'era lasciati crescere da parecchi giorni i peli su
le guance.
La sera stessa di
quel giorno memorabile, egli, profondamente accorato, se ne andò con una
barbaccia da padre cappuccino, mentre l'altro s'insediava di nuovo
trionfante nel Municipio di Costanova più Vittorio Emanuele che mai.
|