SOLE
E OMBRA
Tra i rami degli alberi che formavano quasi un portico
verde e lieve al viale lunghissimo attorno alle mura della vecchia città,
la luna, comparendo all'improvviso, di sorpresa, pareva dicesse a un uomo
d'altissima statura, che, in un'ora così insolita, s'avventurava solo a
quel bujo mal sicuro:
«Sì, ma io ti
vedo.»
E come se veramente
si vedesse scoperto, l'uomo si fermava e, spalmando le manacce sul petto,
esclamava con intensa esasperazione:
- Io, già! io!
Ciunna!
Via via, sul suo
capo, tutte le foglie allora, frusciando infinitamente, pareva si
confidassero quel nome: - «Ciunna... Ciunna...» - come se,
conoscendolo da tanti anni, sapessero perché egli, a quell'ora,
passeggiava così solo per il pauroso viale. E seguitavano a bisbigliar di
lui con mistero e di quel che aveva fatto... ssss... Ciunna!
Ciunna!
Lui allora si
guardava dietro, nel bujo lungo del viale interrotto qua e là da tante
fantasime di luna; chi sa qualcuno... ssss...
Si guardava intorno
e, imponendo silenzio a se stesso e alle foglie... ssss... si
rimetteva a passeggiare, con le mani afferrate dietro la schiena.
Zitto zitto,
duemila e settecento lire. Duemila e settecento lire sottratte alla cassa
del magazzino generale dei tabacchi. Dunque reo... ssss... di
peculato.
Domani sarebbe
arrivato l'ispettore:
«- Ciunna, qui
mancano duemila e settecento lire.
«- Sissignore. Me
le son prese io, signor Ispettore.
«- Prese? Come?
«- Con due dita,
signor Ispettore.
«Ah sì? Bravo
Ciunna! Prese come un pizzico di rapè? Le mie congratulazioni, da una
parte; dall'altra, se non vi dispiace, favorite in prigione.
«- Ah no, ah mi
scusi, signor cavaliere. Mi dispiace anzi moltissimo. Tanto che, se lei
permette, guardi: domani Ciunna se ne scenderà in carrozza giù alla
Marina. Con le due medaglie del Sessanta sul petto e un bel ciondolo di
dieci chili legato al collo come un abitino, si butterà a mare, signor
cavaliere. La morte è brutta; ha le gambe secche; ma Ciunna, dopo
sessantadue anni di vita intemerata, in prigione non ci va.»
Da quindici giorni,
questi strambi soliloquii dialogati, con accompagnamento di gesti
vivacissimi. E, come tra i rami la luna, facevan capolino in questi
soliloquii un po' tutti i suoi conoscenti, che eran soliti di pigliarselo
a godere per la comica stranezza del carattere e il modo di parlare.
«Per te,
Niccolino!» seguitava infatti il Ciunna, rivolgendosi mentalmente al
figliuolo. - Per te ho rubato! Ma non credere che ne sia pentito. Quattro
bambini, signore Iddio, quattro bambini in mezzo alla strada! E tua
moglie, Niccolino, che fa? Niente, ride incinta di nuovo. Quattro e uno,
cinque. Benedetta! Prolifica, figliuolo mio, prolifica; popola di piccoli
Ciunna il paese! Visto che la miseria non ti concede altra soddisfazione,
prolifica, figliuolo! I pesci, che domani si mangeranno tuo papà, avranno
poi l'obbligo di dar da mangiare a te e alla numerosa tua figliolanza.
Paranze della Marina, un carico di pesci ogni giorno per i miei nipotini!»
Quest'obbligo dei
pesci gli sovveniva adesso; perché, fino a pochi giorni addietro, s'era
invece esortato così:
«Veleno! veleno!
la meglio morte! Una pilloletta, e buona notte!»
E s'era procurato,
per mezzo dell'inserviente dell'Istituto chimico, alcuni pezzetti
cristallini d'anidride arseniosa. Con quei pezzetti in tasca, era anzi
andato a confessarsi.
«Morire, sta bene;
ma in grazia di Dio.»
Col veleno intanto,
no! - soggiungeva adesso. - Troppi spasimi. L'uomo è vile; grida aiuto; e
se mi salvano? No no, lì, meglio: a mare. Le medaglie, sul petto; il
ciondolino al collo e patapùmfete. Poi: tanto di pancia. Signori,
un garibaldino galleggiante: cetaceo di nuova specie! Di' su, Ciunna, che
c'è in mare? Pesciolini, Ciunna, che hanno fame, come i tuoi nipotini in
terra, come gli uccellini in cielo.
Avrebbe fissato la
vettura per il domani. Alle sette del mattino, col frescolino, in via;
un'oretta per scendere alla Marina; e, alle otto e mezzo, addio Ciunna!
Intanto,
proseguendo per il viale, formulava la lettera da lasciare. A chi
indirizzarla? Alla moglie, povera vecchia, o al figliuolo, o a qualche
amico? No: al largo gli amici! Chi lo aveva aiutato? Per dir la verità,
non aveva chiesto aiuto a nessuno; ma perché sapeva in precedenza che
nessuno avrebbe avuto pietà di lui. E la prova eccola qua: tutto il paese
lo vedeva da quindici giorni andar per via come una mosca senza capo:
ebbene, neppure un cane s'era fermato per domandargli: - Ciunna, che hai?
II
Svegliato, la mattina dopo, dalla serva alle sette in punto, si stupì
d'aver dormito saporitamente tutta la notte.
- C'è già la
carrozza?
- Sissignore, è giù
che aspetta.
- Eccomi pronto!
Ma, oh, le scarpe, Rosa! Aspetta: apro l'uscio.
Nello scendere dal
letto per prendere le scarpe, altro stupore: aveva lasciato al solito, la
sera avanti, le scarpe fuori dell'uscio, perché la serva le ripulisse.
Come se gli avesse importato d'andarsene all'altro mondo con le scarpe
pulite.
Terzo stupore
innanzi all'armadio, dal quale si recò per trarne l'abito, che era solito
indossare nelle gite, per risparmiar l'altro, il cittadino, un po'
più nuovo, o meno vecchio.
- E per chi lo
risparmio adesso?
Insomma, tutto come
se lui stesso in fondo non credesse ancora che tra poco si sarebbe ucciso.
Il sonno... le scarpe... l'abito... Ed ecco qua, ora sta a lavarsi la
faccia; e ora si fa davanti allo specchio, al solito, per annodarsi con
cura la cravatta.
«Ma che scherzo?»
No. La lettera.
Dove l'aveva messa? Qua, nel cassetto del comodino. Eccola!
Lesse
l'intestazione: «Per Niccolino».
«Dove la metto?»
Pensò di metterla
sul guanciale del letto, proprio nel posto in cui aveva posato la testa
per l'ultima volta.
«Qua la vedranno
meglio.»
Sapeva che la
moglie e la serva non entravano mai prima di mezzogiorno a rifar la
camera.
«A mezzogiorno
saran più di tre ore...»
Non terminò la
frase; volse in giro uno sguardo, come per salutar le cose che lasciava
per sempre; scorse al capezzale il vecchio crocifisso d'avorio ingiallito,
si tolse il cappello e piegò le gambe in atto d'inginocchiarsi.
Ma in fondo ancora
non si sentiva neanche sveglio del tutto.
Aveva ancora nel
naso e sugli occhi, pesante e saporito, il sonno.
- Dio mio... Dio
mio... - disse alla fine, improvvisamente smarrito.
E si strinse forte
la fronte con una mano.
Ma poi pensò che
giù la carrozza aspettava, e uscì a precipizio.
- Addio, Rosa. Di'
che torno prima di sera.
Traversando in
carrozza, di trotto, il paese (quella bestia del vetturino aveva messo le
sonagliere ai cavalli come per una festa in campagna), il Ciunna si sentì,
all'aria fresca, risvegliar subito l'estro comico che era proprio della
sua natura, e immaginò che i sonatori della banda municipale, coi
pennacchi svolazzanti degli elmetti, gli corressero dietro, gridando e
facendo cenni con le braccia perché si fermasse o andasse più piano, ché
gli volevano sonare la marcia funebre. Dietro, così a gambe levate, non
potevano.
«Grazie tante!
Addio, amici! Ne faccio a meno volentieri! Mi basta questo strepito dei
vetri della carrozza, e quest'allegria qua dei sonaglioli!»
Oltrepassate le
ultime case, allargò il petto alla vista della campagna che pareva
allagata da un biondo mare di massi, su cui sornuotavano qua e là
mandorli e olivi.
Vide alla sua
destra sbucar da un carrubo una contadina con tre ragazzi; contemplò un
tratto il grande albero nano, e pensò: «È come la chioccia che tien
sotto i suoi pulcini». Lo salutò con la mano. Era in vena di salutare
ogni cosa, per l'ultima volta, ma senz'alcuna afflizione; come se, con la
gioia che in quel momento provava, si sentisse compensato di tutto.
La carrozza ora
scendeva stentatamente per lo stradone polveroso, più che mai ripido.
Salivano e scendevano lunghe file di carretti. Non aveva mai fatto caso al
caratteristico abbrigliamento dei muli che tira vano quei carretti. Lo notò
adesso, come se quei muli si fossero parati di tutte quelle nappe e quei
fiocchi e festelli variopinti per far festa a lui.
A destra, a
sinistra, qua e là su i mucchi di brecciame, stavan seduti a riposarsi
alcuni mendicanti, storpii o ciechi, che dalla borgata marina salivano
alla città sul colle, o da questa scendevano a quella per un soldo o un
tozzo di pane promessi per quel tal giorno.
Della vista di
costoro s'afflisse, e subito gli saltò in mente di invitarli tutti a
salire in carrozza con lui: «Allegri! allegri! Andiamo a buttarci a mare
tutti quanti! Una carrozzata di disperati! Su, su, figliuoli! salite
salite! La vita è bella e non dobbiamo affliggerla con la nostra vista».
Si trattenne, per
non svelare al vetturino lo scopo della gita. Sorrise però di nuovo,
immaginando tutti quei mendicanti in carrozza con lui; e, come se
veramente li avesse lì, vedendone qualche altro per via, ripeteva tra sé
e sé l'invito:
«Vieni anche tu,
sali! Ti do viaggio gratis!»
III
Nella borgata marina il Ciunna era noto a tutti.
- Immenso Ciunna! -
si sentì infatti chiamare, appena smontato dalla vettura; e si trovò tra
le braccia d'un tal Tino Imbrò, suo giovane amico, che gli scoccò due
sonori baci, battendogli una mano su la spalla.
- Come va? Come va?
Che è venuto a far qui, in questo paesettaccio di piediscalzi?
- Un affaruccio...
- rispose il Ciunna sorridendo imbarazzato.
- Questa vettura è
a sua disposizione?
- Sì, l'ho presa a
nolo!
- Benone. Dunque:
vetturino, va' a staccare! Caro Ciunna, per male che si senta, occhi
pallidi, naso pallido, labbra pallide, io la sequestro. Se ha mal di capo,
glielo faccio passare; le faccio passare la qualunquissima cosa!
- Grazie, Tino mio,
- disse il Ciunna intenerito dalla festosa accoglienza dell'allegro
giovinetto. - Guarda, ho davvero un affare molto urgente da sbrigare. Poi
bisogna che torni su di fretta. Tra l'altro, non so, forse oggi m'arriva
di botto, tra capo e collo, l'ispettore.
- Di domenica ? E
poi, come? senza preavviso?
- Ah sì! - replicò
il Ciunna. - Vorresti anche il preavviso? Ti piombano addosso quando meno
te l'aspetti.
- Non sento
ragione, - protestò l'altro. - Oggi è festa, e vogliamo ridere. Io la
sequestro. Sono di nuovo scapolo, sa? Mia moglie, poverina, piangeva notte
e giorno... «Che hai, carina mia, che hai?» «Voglio mammà! voglio
papà!» «O mi piangi per questo? Sciocchina, va' da mammà, va' da
papà, che ti daranno la bobona, le toserelle belle belle...»
Lei che è mio maestro, ho fatto bene?
Rise anche dalla
cassetta il vetturino. E allora l'Imbrò:
- Scemo, sei ancora
lì? Marche! T'ho detto: Va' a staccare!
- Aspetta, - disse
allora il Ciunna, cavando dalla tasca in petto il portafogli. - Pago
avanti.
Ma l'Imbrò gli
trattenne il braccio:
- Non sia mai!
Pagare e morire, più tardi che si può!
- No: avanti, -
insisté il Ciunna. - Devo pagare avanti. Se mi trattengo, sia pure per
poco, in questo paese di galantuomini, capirai, c'è pericolo mi rubino
finanche le suole delle scarpe, appena alzo il piede per camminare.
- Ecco il mio
vecchio maestro! Alfin ti riconosco! Paghi, paghi e andiamo via.
Il Ciunna tentennò
lievemente il capo, con un sorriso amaro su le labbra; pagò il vetturino
e poi domandò all'Imbrò:
- Dove mi porti?
Bada, per una mezzoretta soltanto.
- Lei scherza. La
carrozza è pagata: può aspettar fino a sera. Senza no no: ora concerto
io la giornata. Vede? ho con me la borsetta: andavo al bagno. Venga con
me.
- Ma neanche per
idea! - negò energicamente il Ciunna. - Io, il bagno? Altro che bagno,
caro mio!
Tino Imbrò lo
guardò meravigliato.
- Idrofobia?
- No, senti, -
replicò il Ciunna, puntando i piedi come un mulo. - Quando ho detto no,
è no. Il bagno, io, se mai, me lo farò più tardi.
- Ma l'ora è
questa! - esclamò l'Imbrò. - Un buon bagno, e poi, con tanto d'appetito,
di corsa al Leon d'oro: pappatoria e trinchesvàine! Si lasci
servire!
- Un festino
addirittura. Ma che! Mi fai ridere. Per altro, vedi, sono sprovvisto di
tutto: non ho maglia, non ho accappatoio. Penso ancora alla decenza, io.
- Eh via! - esclamò
quello, trascinando il Ciunna per un braccio. - Troverà tutto
l'occorrente alla rotonda.
Il Ciunna si
sottomise alla vivace, affettuosa tirannia del giovanotto.
Chiuso, poco dopo,
nel camerino dei Bagni, si lasciò cadere su una seggiola e appoggiò la
testa cascante alla parete di tavole, con tutte le membra abbandonate e
impressa sul volto una sofferenza quasi rabbiosa.
- Un piccolo
assaggio dell'elemento, - mormorò.
Sentì picchiare
alle tavole del camerino accanto, e la voce dell'Imbrò:
- Ci siamo? Io sono
già in maglia. Tinino dalle belle gambe!
Il Ciunna sorse in
piedi:
- Ecco, mi svesto.
Cominciò a
svestirsi. Nel trarre dal taschino del panciotto l'orologio, per
nasconderlo prudentemente dentro una scarpa, volle guardar l'ora. Erano
circa le nove e mezzo, e pensò: «Un'ora guadagnata!». Si mise a
scendere la scaletta bagnata, tutto in preda alla sensazione del freddo.
- Giù, giù in
acqua! - gli gridò l'Imbrò che già s'era tuffato, e minacciava con una
mano di fargli una spruzzata.
- No, no! - gridò
a sua volta il Ciunna, tremante e convulso, con quell'angoscia che
confonde o rattiene davanti alla mobile, vitrea compattezza dell'acqua
marina. - Bada, me ne risalgo! Non sarebbe uno scherzo... non ci
resisto... Brrr, com'è fredda! - aggiunse, sfiorando l'acqua con la punta
del piede rattratto. Poi, come colpito improvvisamente da un'idea, si tuffò
giù tutto sott'acqua.
- Bravissimo! -
gridò l'altro appena il Ciunna si rimise in piedi, grondante come una
fontana.
- Coraggioso, eh? -
disse il Ciunna, passandosi le mani sul capo e su la faccia.
- Sa nuotare?
- No, m'arrabatto.
- Io m'allontano un
po'.
L'acqua nel recinto
era bassa. Il Ciunna s'accoccolò, tenendosi con un braccio a un palo e
battendo leggermente l'acqua con l'altra mano, come se volesse dirle: sta'
bonina! sta' bonina! a più tardi !
Era veramente
un'irrisione atroce, quel bagno: lui, in mutandine, accoccolato e
sostenuto dal palo, che se l'intendeva con l'acqua.
Poco dopo però
l'Imbrò, rientrando nel recinto e volgendo in giro lo sguardo, non lo
ritrovò più. Già risalito? E s'avviava per accertarsene verso la
scaletta del camerino, quand'ecco a un tratto, se lo vide springar
davanti, dall'acqua, paonazzo in volto, con uno sbruffo strepitoso.
- Ohé! Ma è
matto? Che ha fatto? Non sa che così le può scoppiare qualche vena del
collo?
- Lascia scoppiare.
- fece il Ciunna ansimando, mezz'affogato, con gli occhi fuori
dell'orbita.
- Ha bevuto?
- Un poco.
- Ohé, dico, -
fece l'Imbrò e con la mano accennò di nuovo il dubbio che il suo vecchio
amico fosse impazzito. Lo guardò un po' gli domandò: - Ha voluto
provarsi il fiato o s'è sentito male?
- Provarmi il
fiato, - rispose cupo il Ciunna, passandosi di nuovo le mani su i capelli
zuppi.
- Dieci con lode al
ragazzino! - esclamò l'Imbrò. - Andiamo, via, andiamo a rivestirci!
Troppo fredda oggi l'acqua. Tanto, l'appetito già c'è. Ma dica la verità:
si sente proprio male?
Il Ciunna s'era
messo ad arcoreggiare come un tacchino.
- No, - disse,
quand'ebbe finito. - Benone mi sento! È passato! Andiamo, andiamo pure a
rivestirci!
- Spaghetti ai
vongoli, e glo glo, glo glo... un vinetto! Lasci fare; ci penso io. Regalo
dei parenti di mia moglie, buon'anima. Me ne resta ancora un barilotto.
Sentirà!
IV
Si levarono di tavola, ch'erano circa le quattro. Il vetturino s'affacciò
alla porta della trattoria: - Debbo attaccare?
- Se non te ne vai!
- minacciò l'Imbrò acceso in volto, tirandosi con un braccio il Ciunna
sul petto e ghermendo con l'altra mano un fiasco vuoto.
Il Ciunna, non meno
acceso, si lasciò attirare: sorrise, non replicò; beato come un bambino
di quella protezione.
- T'ho detto che
prima di sera non si riparte! - riprese l'Imbrò.
- Si sa! Si sa! -
approvarono a coro molte voci.
Perché la sala da
pranzo s'era riempita d'una ventina d'amici del Ciunna e dell'Imbrò e gli
altri avventori della trattoria si erano messi a desinare insieme,
formando così una gran tavolata, allegra prima, poi a mano a mano più
rumorosa: risa, urli, brindisi per burla, baccano d'inferno.
Tino Imbrò saltò
su la seggiola. Una proposta! Tutti quanti a bordo del vapore inglese
ancorato nel porto.
- Col capitano
siamo peggio che fratelli! È un giovanotto di trent'anni, pieno di
barba e di virtù: con certe bottiglie di Gin che non vi dico!
La proposta fu
accolta da un turbine di applausi.
Verso le sei,
scioltasi la compagnia dopo la visita al vapore, il Ciunna disse all'Imbrò:
- Caro Tinino, è
tempo di far via! Non so come ringraziarti.
- A questo non ci
pensi, - lo interruppe l'Imbrò. - Pensi piuttosto che ha da attendere
ancora all'affaruccio di cui mi parlò stamattina.
- Ah, già, hai
ragione, - disse il Ciunna aggrottando le ciglia e cercando con una mano
la spalla dell'amico, come se stesse per cadere. - Sì, sì, hai ragione.
E dire ch'ero sceso per questo. Bisogna infatti che vada.
- Ma se può farne
a meno, - gli osservò l'Imbrò.
- No, - rispose il
Ciunna, torvo; e ripeté: - Bisogna che vada. Ho bevuto, ho mangiato, e
ora... Addio, Tinino. Non posso farne a meno.
- Vuole che
l'accompagni? - domandò questi.
- No! Ah ah,
vorresti accompagnarmi? Sarebbe curiosa. No no, grazie, Tinino mio,
grazie. Vado solo, da me. Ho bevuto, ho mangiato, e ora... Addio, eh!
- Allora l'aspetto
qua, con la carrozza, e ci saluteremo. Faccia presto!
- Prestissimo!
prestissimo! Addio, Tinino!
E s'avviò.
L'Imbrò fece una
smusata e pensò: «E gli anni! gli anni! Pare impossibile che Ciunna...
In fin dei conti, che avrà bevuto?».
Il Ciunna si voltò
e, alzando e agitando un dito all'altezza degli occhi che ammiccavano
furbescamente, gli disse:
- Tu non mi
conosci.
Poi si diresse
verso il più lungo braccio del porto, quello di ponente, ancora senza
banchina, tutto di scogli rammentati l'uno su l'altro, fra i quali il mare
si cacciava con cupi tonfi, seguiti da profondi risucchi. Si reggeva male
sulle gambe. Eppure saltava da uno scoglio all'altro, forse con l'intento,
non preciso, di scivolare, di rompersi uno stinco, o di ruzzolare, così
quasi senza volerlo, in mare. Ansava, sbuffava, scrollava il capo per
levarsi dal naso un certo fastidio, che non sapeva se gli venisse dal
sudore, dalle lacrime o dalla spruzzaglia delle ondate che si cacciavano
tra gli scogli. Quando fu alla punta della scogliera, cascò a sedere, si
levò il cappello, serrò gli occhi, la bocca, e gonfiò le gote, quasi
per prepararsi a buttar via, con tutto il fiato che aveva in corpo,
l'angoscia, la disperazione, la bile che aveva accumulato.
- Auff, vediamo un
po', - disse alla fine, dopo lo sbuffo, riaprendo gli occhi.
Il sole tramontava.
Il mare, d'un verde vitreo presso la riva, s'indorava intensamente in
tutta la vastità tremula dell'orizzonte. Il cielo era tutto in fiamme, e
limpidissima l'aria, nella viva luce, su tutto quel tremolio d'acque
incendiate.
- Io là? - domandò
il Ciunna poco dopo, guardando il mare, oltre gli ultimi scogli. - Per
duemila e settecento lire?
Gli parvero
pochissime. Come togliere a quel mare una botte d'acqua.
- Non si ha il
diritto di rubare, lo so. Ma è da vedere se non se ne ha il dovere,
perdio, quando quattro bambini ti piangono per il pane e tu questo
schifoso denaro lo hai tra le mani e lo stai contando. La società non te
ne dà il diritto; ma tu, padre, hai il dovere di rubare in simili casi. E
io sono due volte padre per quei quattro innocenti là! E se muoio io,
come faranno? Per la strada a mendicare? Ah, no, signor Ispettore; la farò
piangere io, con me. E se lei, signor Ispettore, ha il cuore duro come
questo scoglio qua, ebbene, mi mandi pure davanti ai giudici: voglio
vedere se avranno cuore loro da condannarmi. Perdo il posto? Ne troverò
un altro, signor Ispettore! Non si confonda. Là, io, non mi ci butto!
Ecco le paranze! Compro un chilo di triglie grosse così, e ritorno a casa
a mangiarmele coi miei nipotini!
Si alzò. Le
paranze entravano a tutta vela, virando. Si mosse in fretta per arrivare
in tempo al mercato del pesce.
Comprò, tra la
ressa e le grida, le triglie ancora vive, guizzanti. Ma - dove metterle?
Un panierino da pochi soldi: àliga, dentro; e: - non dubiti, signor
Ciunna, arriveranno ancora vive vive al paese.
Su la strada,
innanzi al Leon d'oro, ritrovò l'Imbrò, che subito gli fece con
le mani un gesto espressivo:
- Svaporato?
- Che cosa? Ah, il
vino... Credevi? Ma che! - fece il Ciunna. - Vedi, ho comperato le
triglie. Un bacio, Tinino mio, e un milione di grazie.
- Di che?
- Un giorno forse
te lo dirò. Oh, vetturino, su il mantice: non voglio esser veduto.
V
Appena fuori della borgata, cominciò l'erta penosa.
I due cavalli
tiravano la carrozza chiusa, accompagnando con un moto della testa china
ogni passo allungato a stento, e i sonagli ciondolanti pareva misurassero
la lentezza e la pena.
Il vetturino, di
tratto in tratto, esortava le povere magre bestie con una voce lunga e
lamentosa.
A mezza via, era già
sera chiusa.
Il bujo
sopravvenuto, il silenzio quasi in attesa d'un lieve rumore nella
solitudine brulla di quei luoghi mal guardati, richiamarono lo spirito del
Ciunna ancora tra annebbiato dai vapori del vino e abbagliato dallo
splendore del tramonto sul mare.
A poco a poco, col
crescere dell'ombra, aveva chiuso gli occhi, quasi per lusingar se stesso
che poteva dormire. Ora, invece, si ritrovava con gli occhi sbarrati nel
bujo della vettura, fissi sul vetro dirimpetto, che strepitava
continuamente.
Gli pareva che
fosse or ora uscito, inavvertitamente, da un sogno. E, intanto, non
trovava la forza di riscuotersi, di muovere un dito. Aveva le membra come
di piombo e una tetra gravezza al capo. Sedeva quasi sulla schiena,
abbandonato, col mento sul petto, le gambe contro il sedile di fronte, e
la mano sinistra affondata nella tasca dei calzoni.
Oh che! Era davvero
ubriaco?
- Ferma, - borbottò
con la lingua grossa.
E immaginò, senza
scomporsi, che scendeva dalla vettura e si metteva a errare per i campi,
nella notte, senza direzione. Udì un lontano abbaiare, e pensò che quel
cane abbaiasse a lui errante laggiù laggiù, per la valle.
- Ferma, - ripeté
poco dopo, quasi senza voce, riabbassando su gli occhi le palpebre lente.
No! - egli doveva,
zitto zitto, saltare dalla vettura, senza farla fermare, senza farsi
scorgere dal vetturino; aspettare che la vettura s'allontanasse un po' per
l'erto stradone, e poi cacciarsi nella campagna e correre, correre fino al
mare là in fondo.
Intanto non si
moveva.
- Plumf! -
si provò a fare con la lingua torpida.
A un tratto un
guizzo nel cervello lo fece sobbalzare, e con la mano destra convulsa
cominciò a grattarsi celermente la fronte:
- La lettera... la
lettera...
Aveva lasciato la
lettera per il figliuolo sul guanciale del letto. La vedeva. A quell'ora,
in casa lo piangevano morto. Tutto il paese, a quell'ora, era pieno della
notizia del suo suicidio. E l'ispettore? L'Ispettore era certo venuto: «Gli
avranno consegnato le chiavi; si sarà accorto del vuoto di cassa. La
sospensione disonorante, la miseria, il ridicolo, il carcere».
E la vettura
intanto seguitava ad andare, lentamente, con pena.
No, no. In preda a
un tremito angoscioso, il Ciunna avrebbe voluto fermarla. E allora? No,
no. Saltare dalla vettura? Trasse la mano sinistra dalla tasca e col
pollice e l'indice s'afferrò il labbro inferiore, come per riflettere,
mentre con l'altre dita stringeva, stritolava qualcosa. Aprì quella mano,
sporgendola dal finestrino, al chiaro di luna, e si guardò nella palma.
Restò. Il veleno. Lì, in tasca, il veleno dimenticato. Strizzò gli
occhi, se lo cacciò in bocca: inghiottì. Rapidamente ricacciò la mano
in tasca, ne trasse altri pezzetti: li inghiottì. Vuoto. Vertigine. Il
petto, il ventre gli s'aprivano, squarciati. Sentì mancarsi il fiato e
sporse il capo dal finestrino.
- Ora muojo.
L'ampia vallata
sottoposta era allagata da un fresco e lieve chiarore lunare; gli alti
colli di fronte sorgevano neri e si disegnavano nettamente nel cielo
opalino.
Allo spettacolo di
quella deliziosa quiete lunare una grande calma gli si fece dentro.
Appoggiò la mano allo sportello, piegò il mento sulla mano e attese,
guardando fuori.
Saliva dal basso
della valle un limpido assiduo scampanellare di grilli, che pareva la voce
del tremulo riflesso lunare sulle acque correnti d'un placido fiume
invisibile.
Alzò gli occhi al
cielo, senza levare il mento dalla mano, poi guardò i colli neri e la
valle di nuovo, come per vedere quanto ormai rimaneva per gli altri, poiché
nulla più era per lui. Tra breve, non avrebbe veduto, non avrebbe udito
più nulla. S'era forse fermato il tempo? Come mai non sentiva ancora
nessun accenno di dolore?
- Non muojo?
E subito, come se
il pensiero gli avesse dato la sensazione attesa, si ritrasse, e con una
mano si strinse il ventre. No: non sentiva ancor nulla. Però... Si passò
una mano sulla fronte: ah! era già bagnata d'un sudor gelido! Il terrore
della morte, alla sensazione di quel gelo, lo vinse: tremò tutto sotto
l'enorme, nera, orrida imminenza irreparabile, e si contorse nella
vettura, addentando un cuscino per soffocar l'urlo del primo spasimo
tagliente alle viscere.
Silenzio. Una voce.
Chi cantava? E quella luna...
Cantava il
vetturino monotonamente mentre i cavalli stanchi trascinavano con pena la
carrozza nera per lo stradone polveroso, bianco di luna.
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