LA
RALLEGRATA
Appena il capostalla se n'andò, bestemmiando più del
solito, Fofo si volse a Nero, suo compagno di mangiatoja, nuovo arrivato,
e sospirò:
- Ho capito!
Gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Cominci bene, caro mio! Oggi è di prima
classe.
Nero voltò la
testa dall'altra parte. Non sbruffò, perché era un cavallo bene educato.
Ma non voleva dar confidenza a quel Fofo.
Veniva da una
scuderia principesca, lui, dove uno si poteva specchiare nei muri: greppie
di faggio a ogni posta, campanelle di ottone, battifianchi imbottiti di
cuojo e colonnini col pomo lucente.
Mah!
Il giovane
principe, tutto dedito ora a quelle carrozze strepitose, che fanno -
pazienza, puzzo - ma anche fumo di dietro e scappano sole, non contento
che già tre volte gli avessero fatto correre il rischio di rompersi il
collo, subito appena colpita di paralisi la vecchia principessa (che di
quelle diavole là, oh benedetta!, non aveva voluto mai saperne), s'era
affrettato a disfarsi, tanto di lui, quanto di Corbino, gli ultimi rimasti
nella scuderia, per il placido landò della madre.
Povero Corbino, chi
sa dov'era andato a finire, dopo tant'anni d'onorato servizio!
Il buon Giuseppe,
il vecchio cocchiere, aveva loro promesso che, andando a baciar la mano
con gli altri vecchi servi fidati alla principessa, relegata ormai per
sempre in una poltrona, avrebbe interceduto per essi.
Ma che! Dal modo
con cui il buon vecchio, ritornato poco dopo, li aveva accarezzati al
collo e sui fianchi, subito l'uno e l'altro avevano capito che ogni
speranza era perduta e la loro sorte decisa. Sarebbero stati venduti.
E difatti...
Nero non
comprendeva ancora, dove fosse capitato. Male, proprio male, no. Certo,
non era la scuderia della principessa. Ma una buona scuderia era anche
questa. Più di venti cavalli, tutti mori e tutti anzianotti, ma di bella
presenza, dignitosi e pieni di gravità. Oh, per gravità, forse ne
avevano anche troppa!
Che anch'essi
comprendessero bene l'ufficio a cui erano addetti, Nero dubitava. Gli
pareva che tutti quanti, anzi, stessero di continuo a pensarci, senza
tuttavia venirne a capo. Quel dondolio lento di code prolisse, quel
raspare di zoccoli, di tratto in tratto, certo erano di cavalli
cogitabondi.
Solo quel Fofo era
sicuro, sicurissimo d'aver capito bene ogni cosa.
Bestia volgare e
presuntuosa!
Brocco di
reggimento, scartato dopo tre anni di servizio, perché - a suo dire - un
tanghero di cavalleggero abruzzese lo aveva sgroppato, non faceva che
parlare e parlare.
Nero, col cuore
ancor pieno di rimpianto per il suo vecchio amico, non poteva soffrirlo.
Più di tutto lo urtava quel tratto confidenziale, e poi la continua
maldicenza sui compagni di stalla.
Dio, che lingua!
Di venti, non se ne
salvava uno! Questo era così, quello cosà.
«La coda...
guardami là, per piacere, se quella è una coda! se quello è un modo di
muovere la coda! Che brio, eh?
«Cavallo da
medico, te lo dico io.
«E là, là,
guardami là quel bel truttrù calabrese, come crolla con grazia le
orecchie di porco. E che bel ciuffo! e che bella barbozza! Brioso anche
lui, non ti pare?
«Ogni tanto si
sogna di non esser castrone, e vuol fare all'amore con quella cavalla là,
tre poste a destra, la vedi? con la testa di vecchia, bassa davanti e la
pancia fin a terra.
«Ma quella è una
cavalla? Quella è una vacca, te lo dico io. E se sapessi come la va con
passo di scuola! Pare che si scotti gli zoccoli, toccando terra. Eppure,
certe saponate, amico mio! Già, perché è di bocca fresca. Deve ancor
pareggiare i cantoni, figùrati!»
Invano Nero
dimostrava in tutti i modi a quel Fofo di non volergli dare ascolto. Fofo
imperversava sempre più.
Per fargli
dispetto.
«Sai dove siamo
noi? Siamo in un ufficio di spedizione. Ce n'è di tante specie. Questo è
detto delle pompe funebri.
«Pompa funebre sai
che vuol dire? Vuol dire tirare un carro nero di forma curiosa, alto, con
quattro colonnini che reggono il cielo, tutto adorno di balze e paramenti
e dorature. Insomma, un bel carrozzone di lusso. Ma roba sprecata, non
credere! Tutta roba sprecata, perché dentro vedrai che non ci sale mai
nessuno.
«Solo il
cocchiere, serio serio, in serpe.
«E si va piano,
sempre di passo. Ah, non c'è pericolo che tu sudi e ti strofinino al
ritorno, né che il cocchiere ti dia mai una frustata o ti solleciti in
qualche altro modo!
«Piano - piano -
piano.
«Dove devi
arrivare, arrivi sempre a tempo.
«E quel carro lì
- io l'ho capito bene - dev'essere per gli uomini oggetto di particolare
venerazione.
«Nessuno, come
t'ho detto, ardisce montarci sopra; e tutti, appena lo vedono fermo
davanti a una casa, restano a mirarlo con certi visi lunghi spauriti; e
certi gli vengono attorno coi ceri accesi; e poi appena cominciamo a
muoverci, tanti dietro, zitti zitti, lo accompagnano.
«Spesso, anche,
davanti a noi, c'è la banda. Una banda, caro mio, che ti suona una certa
musica, da far cascare a terra le budella.
«Tu, ascolta bene,
tu hai il vizio di sbruffare e di muover troppo la testa. Ebbene, codesti
vizii te li devi levare. Se sbruffi per nulla, figuriamoci che sarà
quando ascolterai quella musica!
«Il nostro è un
servizio piano, non si nega; ma vuole compostezza e solennità. Niente
sbruffi, niente beccheggio. È già troppo, che ti concedano di dondolar
la coda, appena appena.
«Perché il carro
che noi tiriamo, torno a dirtelo, è molto rispettato. Vedrai che tutti,
come ci vedono passare, si levano il cappello.
«Sai come ho
capito, che si debba trattare di spedizione? L'ho capito da questo.
«Circa due anni
fa, me ne stavo fermo, con uno de' nostri carri a padiglione, davanti alla
gran cancellata che è la nostra mèta costante.
«La vedrai, questa
gran cancellata! Ci sono dietro tanti alberi neri, a punta, che se ne
vanno dritti dritti in due file interminabili, lasciando di qua e di là
certi bei prati verdi, con tanta buon'erba grassa, sprecata anche quella,
perché guai se, passando, ci allunghi le labbra.
«Basta. Me ne
stavo lì fermo, allorché mi s'accostò un povero mio antico compagno di
servizio al reggimento, ridotto assai male: a tirare, figurati, un traino
ferrato, di quei lunghi, bassi e senza molle.
«Dice:
«- Mi vedi? Ah,
Fofo, non ne posso proprio più!
«- Che servizio? -
gli domando io.
«E lui:
«- Trasporto
casse, tutto il giorno, da un ufficio di spedizione alla dogana.
«- Casse? - dico
io. - Che casse?
«- Pesanti! - fa
lui. - Casse piene di roba da spedire.
«Fu per me una
rivelazione.
«Perché devi
sapere, che una certa cassa lunga lunga, la trasportiamo anche noi. La
introducono pian piano (tutto, sempre, pian piano) entro il nostro carro,
dalla parte di dietro; e mentre si fa quest'operazione, la gente attorno
si scopre il capo e sta a mirare sbigottita. Chi sa perché! Ma certo, se
traffichiamo di casse anche noi, deve trattarsi di spedizione, non ti
pare?
«Che diavolo
contiene quella cassa? Pesa oh, non credere! Fortuna, che ne trasportiamo
sempre una alla volta.
«Roba da spedire,
certo. Ma che roba, non lo so. Pare di gran conto, perché la spedizione
avviene con molta pompa e molto accompagnamento.
«A un certo punto,
di solito (non sempre), ci fermiamo davanti a un fabbricato maestoso, che
forse sarà l'ufficio di dogana per le spedizioni nostre. Dal portone si
fanno avanti certi uomini parati con una sottana nera e la camicia di
fuori (che saranno, suppongo, i doganieri); la cassa è tratta dal carro;
tutti di nuovo si scoprono il capo; e quelli segnano sulla cassa il
lasciapassare.
«Dove vada tutta
questa roba preziosa, che noi spediamo - questo, vedi - non sono riuscito
ancora a capirlo. Ma ho un certo dubbio, che non lo capiscano bene neanche
gli uomini; e mi consolo.
«Veramente, la
magnificenza delle casse e la solennità della pompa potrebbero far
supporre, che qualche cosa gli uomini debbano sapere su queste loro
spedizioni. Ma li vedo troppo incerti e sbigottiti. E dalla lunga
consuetudine, che ormai ho con essi, ho ricavato questa esperienza: che
tante cose fanno gli uomini, caro mio, senza punto sapere perché le
facciano!»
Come Fofo, quella mattina, alle bestemmie del capostalla s'era figurato:
gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Tir'a quattro. Era proprio di prima
classe.
«Hai visto? Te lo
dicevo io?»
Nero si trovò
attaccato con Fofo al timone. E Fofo, naturalmente, seguitò a seccarlo
con le sue eterne spiegazioni.
Ma era seccato
anche lui, quella mattina, della soperchieria del capostalla, che nei tiri
a quattro lo attaccava sempre al timone e mai alla bilancia.
«Che cane! Perché,
tu intendi bene, questi due, qua davanti a noi, sono per comparsa. Che
tirano? Non tirano un corno! Tiriamo noi. Si va tanto piano! Ora si fanno
una bella passeggiatina per sgranchirsi le gambe, parati di gala. E guarda
un po' che razza di bestie mi tocca di vedermi preferire! Le riconosci?»
Erano quei due mori
che Fofo aveva qualificati cavallo da medico e truttrù calabrese.
«Codesto
calabresaccio! Ce l'hai davanti tu, per fortuna! Sentirai, caro;
t'accorgerai che di porco non ha soltanto le orecchie, e ringrazierai il
capostalla, che lo protegge e gli dà doppia profenda. Ci vuol fortuna a
questo mondo, non sbruffare. Cominci fin d'adesso? Quieto con la testa!
Ih, se fai così, oggi caro mio, a furia di strappate di briglia, tu farai
sangue dalla bocca, te lo dico io. Ci sono i discorsi, oggi. Vedrai che
allegria! Un discorso, due discorsi, tre discorsi... M'è capitato il caso
d'una prima classe anche con cinque discorsi! Roba da impazzire. Tre ore
di fermo, con tutte queste galanterie addosso che ti levano il respiro: le
gambe impastoiate, la coda imprigionata, le orecchie tra due fori.
Allegro, con le mosche che ti mangiano sotto la coda! Che sono i discorsi?
Mah! Ci capisco poco, dico la verità. Queste di prima classe, debbono
essere spedizioni molto complicate. E forse, con quei discorsi, fanno la
spiega. Una non basta, e ne fanno due; non bastano due, e ne fanno tre.
Arrivano a farne fino a cinque, come t'ho detto: mi ci son trovato io, che
mi veniva di sparar calci, caro mio, a dritta e a manca, e poi di mettermi
a rotolar per terra come un matto. Forse oggi sarà lo stesso. Gran gala!
Hai visto il cocchiere, come s'è parato anche lui? E ci sono anche i
famigli, i torcieri. Di', tu sei sitoso?»
«Non capisco.»
«Via, pigli ombra
facilmente? Perché vedrai che tra poco, i ceri accesi te li metteranno
proprio sotto il naso... Piano, uh... piano! che ti piglia? Vedi? Una
prima strappata... T'ha fatto male? Eh, ne avrai di molte tu oggi, te lo
dico io. Ma che fai? sei matto? Non allungare il collo così! (Bravo,
cocco, nuoti? giochi alla morra?). Sta' fermo... Ah sì? Pigliati
quest'altre... Ohé, dico bada, fai strappar la bocca anche a me! Ma
questo è matto! Dio, Dio, quest'è matto davvero! Ansa, rigna,
annitrisce, fa ciambella, che cos'è? Guarda che rallegrata! È matto! è
matto! fa la rallegrata, tirando un carro di prima classe!»
Nero difatti pareva
impazzito davvero: ansava, nitriva, scalpitava, fremeva tutto. In fretta
in furia, giù dal carro dovettero precipitarsi i famigli a trattenerlo
davanti al portone del palazzo, ove dovevano fermarsi, tra una gran calca
di signori incamatiti, in abito lungo e cappello a staio.
- Che avviene? - si
gridava da ogni parte. - Uh, guarda, s'impenna un cavallo del carro
mortuario!
E tutta la gente,
in gran confusione, si fece intorno al carro, curiosa, meravigliata
scandalizzata. I famigli non riuscivano ancora a tener fermo Nero. Il
cocchiere s'era levato in piedi e tirava furiosamente le briglie. Invano.
Nero seguitava a zampare, a nitrire, friggeva, con la testa volta verso il
portone del palazzo.
Si quietò, solo
quando sopravvenne da quel portone un vecchio servitore in livrea il
quale, scostati i famigli, lo prese per la briglia, e subito,
riconosciutolo, si diede a esclamare con le lagrime agli occhi:
- Ma è Nero! è
Nero! Ah, povero Nero, sicuro che fa così! Il cavallo della signora! il
cavallo della povera principessa! Ha riconosciuto il palazzo, sente
l'odore della sua scuderia! Povero Nero, povero Nero... buono, buono... sì,
vedi? sono io, il tuo vecchio Giuseppe. Sta' buono, sì... Povero Nero,
tocca a te di portartela, vedi? la tua padrona. Tocca a te, poverino, che
ti ricordi ancora. Sarà contenta lei d'essere trasportata da te per
l'ultima volta.
Si voltò poi al
cocchiere, che, imbestialito per la cattiva figura che la Casa di pompe
faceva davanti a tutti quei signori, seguitava a tirar furiosamente le
briglie, minacciando frustate, e gli gridò:
- Basta! Smettila!
Lo reggo qua io. È manso come una pecora. Mettiti a sedere. Lo guiderò
io per tutto il tragitto. Andremo insieme, eh Nero? a lasciar la nostra
buona signora. Pian piano, al solito, eh? E tu starai buono, per non farle
male, povero vecchio Nero, che ti ricordi ancora. L'hanno già chiusa
nella cassa; ora la portano giù.
Fofo, che
dall'altra parte del timone se ne stava a sentire, a questo punto domandò,
stupito:
«Dentro la cassa,
la tua padrona?»
Nero gli sparò un
calcio di traverso.
Ma Fofo era troppo
assorto nella nuova rivelazione, per aversene a male.
«Ah, dunque, noi,»
seguitò a dir tra sé, «ah, dunque, noi... guarda, guarda... lo volevo
dire io... Questo vecchio piange; tant'altri ho visto piangere, altre
volte... e tanti visi sbigottiti... e quella musica languida. Capisco
tutto, adesso, capisco tutto.. Per questo il nostro servizio è così
piano! Solo quando gli uomini piangono, possiamo stare allegri e andar
riposati nojaltri...»
E gli venne la
tentazione di fare una rallegrata anche lui.
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