QUANDO S'E' CAPITO IL GIUOCO Tutte
le fortune a Memmo Viola! E
se le meritava davvero quel buon Memmone, che cacciava le mosche allo stesso
modo con cui guardava la moglie, cioè con l'aria di dire: -
Ma perché v'ostinate, santo Dio, a molestarmi così? Non sapete già, che
non riuscirete mai a farmi stizzire? E dunque sciò, care; sciò... Le
mosche, la moglie, tutte le noje piccole e grandi della vita, le ingiustizie
della sorte, le malignità degli uomini, le stesse sofferenze corporali, non
avrebbero potuto mai alterare la sua stanca placidità, né scuoterlo da
quella specie di perpetuo letargo filosofico, che gli stava nei grossi occhi
verdastri e gli ansimava nel nasone tra i peli dei baffi arruffati e quelli
che gli uscivano a cespugli dalle narici. Perché
Memmo Viola diceva di aver capito il giuoco. E quando uno ha capito il
giuoco... Invulnerabile
al dolore, però, impenetrabile anche alla gioja. E questo era un vero
peccato, perché Memmo Viola era quel che suol dirsi un beniamino della
fortuna. Forse
però il giuoco, ch'egli diceva d'aver capito, era questo, che la fortuna lo
favoriva tanto, appunto perché egli era così, appunto perché sapeva che
egli non le sarebbe corso mai dietro, neppure se essa gli avesse profferto,
dopo due gambate, tutti i tesori del mondo, e che non si sarebbe rallegrato
né punto né poco, neanche se fosse venuta da sé a portarglieli in casa. Tutti
i tesori del mondo, no; ma ecco che un giorno gli aveva proprio portato in
casa la grossa eredità di chi sa qual vecchia zia, una vecchia zia
sconosciuta, morta in Germania; per cui aveva potuto rinunziare all'impiego,
che gli pesava tanto, sebbene, povero Memmo, come tutto il resto, da dieci
anni lo sopportasse in santa pace. Poco tempo dopo, la moglie, stanca di
vedersi guardata a quel modo e di non esser buona a farlo arrabbiare, per
quante gliene facesse sotto gli occhi, di tutti i colori, gli aveva aperto,
anzi spalancato la porta, e lo aveva spinto fuori, a vivere libero per conto
suo, in un quartierino da scapolo; a patto, però, che egli lasciasse libera
anche lei, allo stesso modo, e con un congruo assegno debitamente
assicurato. Sì?
E quando mai Memmo Viola s'era sognato di porre un limite o un freno alla
libertà della moglie? Ma ella voleva così? AMEN. E con tutti i libri di
scienze fisiche e matematiche e di filosofia, e tutte le stoviglie di
cucina, che rappresentavano le due più forti passioni della sua vita, era
andato ad allogarsi in tre stanzette modeste. Dopo aver dato allo spirito il
nutrimento più gradito, attendeva a preparar da sé, con le sue mani, anche
il più gradito nutrimento al suo corpo: cuoco dilettante e dilettante
filosofo. Una
vecchia serva veniva ogni mattina a fargli la spesa, gli apparecchiava la
tavola, gli rigovernava la cucina, gli rifaceva il letto e la pulizia delle
tre stanzette, e se ne andava. Se
non che, dopo appena due mesi di questa seconda fortuna, una mattina per
tempissimo, ch'egli se ne stava ancora a letto a fare il sonnellino
dell'oro, sua moglie venne a svegliarlo di soprassalto nel suo quartierino
con una furiosa scampanellata e, investendolo come una bufera, lo trascinò
afferrato per il petto, povero Memmo, così in camicia come si trovava e con
le brache ancora in mano, verso un angolo della camera, dietro un
paraventino coperto di mussola rasata color di rosa, ove s'immaginò dovesse
star nascosto il lavabo e, versandogli lei stessa, per non perder tempo,
l'acqua nel catino, lo costrinse a lavarsi e poi subito a vestirsi, subito
subito, perché doveva uscire, doveva correre, precipitarsi in cerca di due
amici. -
Ma perché? -
Làvati, ti dico! -
Ecco, mi lavo... Ma perché? -
Perché tu sei sfidato! -
Sfidato? io? Chi m'ha sfidato? -
Sfidato... non so bene: o sei sfidato o devi sfidare. Non so di queste
cose... so che ho qua il biglietto di quel mascalzone. Làvati, vèstiti, spìcciati,
ma non mi star davanti con codest'aria di mammalucco intronato! Memmo
Viola, venuto fuori dal paraventino con le mani bollicose di saponata,
guardava veramente la moglie, se non come un mammalucco, certo come
intronato. Non lo costernava tanto l'annunzio di quella sfida, quanto la
grave agitazione della moglie, fuori di casa a quell'ora e in quel disordine
d'abbigliamento. -
Abbi pazienza, Cristina mia... Dimmi almeno, mentre mi lavo, che cosa è
accaduto... -
Che? - gli gridò la moglie, avventandoglisi di nuovo addosso, quasi con le
mani in faccia. - Sono stata vigliaccamente, sanguinosamente insultata in
casa mia, per causa tua... perché sono rimasta sola, senza difesa,
capisci?... Insultata... oltraggiata... Mi hanno messo le mani addosso,
capisci? a frugarmi, qua, in petto, capisci? Perché hanno sospettato ch'io
fossi... Non
poté seguitare; si coprì furiosamente il volto con le mani e ruppe in un
pianto stridulo, convulso, d'onta, di ribrezzo, di rabbia. -
Oh Dio, - fece Memmo. - Ma quando è stato? Chi ha potuto osare? E
allora la moglie, prima tra i singhiozzi e storcendosi le mani, poi di punto
in punto rieccitandosi vieppiù, gli narrò che la sera avanti, mentr'era a
cena, aveva sentito un gran fracasso alla porta, grida, risate,
scampanellate, pugni, pedate. La serva, accorsa, era venuta a dirle che
quattro signori mezzo ubriachi, cercavano d'una Spagnuola, di una certa
PEPITA, e che non se ne volevano andare e s'erano buttati a sedere
sconciamente nella saletta d'ingresso. Appena avevano veduto comparire lei,
le erano saltati tutti e quattro addosso e chi pigliandola per il ganascino,
chi cingendole con un braccio la vita, chi frugandole in petto, l'avevano
pregata, scongiurata di conceder loro una visitina alla piccola PEPITA. Al
suo divincolarsi, alle sue grida, ai suoi morsi, avevano risposto con risa e
gesti sguajati, finché, a quel pandemonio, non erano accorsi dai piani di
sopra e di sotto tanti vicini di casa. Scuse... chiarimenti... c'era un
equivoco... mortificazione... Uno s'era finanche inginocchiato... Ma ella
non aveva voluto sentir nulla; aveva preteso che le dessero conto e
soddisfazione dell'oltraggio, e tanto aveva insistito, che alla fine uno dei
quattro, che forse era stato il meno insolente, s'era veduto costretto a
lasciare il suo biglietto da visita. -
Eccolo qua! A te, prendi! Sei ancora in maniche di camicia? Che aspetti? Non
ti muovi? Memmo
Viola aveva già bell'e capito che quello non era né il caso né il momento
di ragionare e, senza neppur dare uno sguardo di sfuggita al nome stampato
in quel biglietto da visita, ritornò al lavabo dietro il paraventino. -
Che fai? -
Finisco di lavarmi. -
A chi pensi di rivolgerti? Non andare dal Venanzi, sai! Gigi Venanzi non
accetta; puoi star sicuro che non accetta. Perderai il tempo inutilmente! -
Permetti? - disse Memmo, che aveva già riacquistato tutta la sua placidità.
- Il tempo, cara, me lo fai perdere tu, adesso. Lasciami lavare, senza
tirarmi a discutere. Non hai voluto saper d'equivoci. Scuse, non hai voluto
accettarne. Hai voluto il duello: cioè, farmi dare una sciabolata. Bene, ti
servo subito. Ma lascia ora che provveda io a garantire, come meglio posso,
la mia pelle. Dici che Gigi Venanzi non accetterà? E come lo sai? La
moglie, un po' sconcertata alla domanda, abbassò gli occhi. -
Lo... lo suppongo... -
Ah, - fece Memmo, asciugandosi la faccia - lo supponiii... Vedrai che
accetterà! Vuoi che si tiri indietro per me, giusto per me, quando presta a
tutti i suoi uffici cavallereschi? Non passa un mese, perdio, che non si
trovi in mezzo a due o tre duelli, padrino di professione! Ma sarebbe da
ridere! Che direbbe la gente, che lo sa tanto amico mio, e tanto pratico di
queste cose, se mi rivolgessi ad altri? La
moglie, brancicando la borsetta con le dita irrequiete, dopo essersi un
tratto morsicchiato il labbro, scattò, levandosi in piedi. -
E io ti dico che non accetterà. Memmo
scoprì di tra lo sparato della camicia, nell'infilarsela, il faccione
ridente e disse, fissando acutamente la moglie: -
Me ne deve dire la ragione... E non può! Dico, non può averne, via!
Lasciami, lasciami vestire... Vestito,
domandò con un certo risolino timido: -
Scusa, hai visto per caso, entrando, se fuori della porta c'era il
fiaschetto del latte? S'aspettava
un nuovo prorompimento d'ira a quella domanda, e insaccò il capo nelle
spalle e levò le mani in atto di parare: -
Zitta, zitta... vado, corro... E
uscì insieme con la moglie, per recarsi in casa di Gigi Venanzi. Lo
trovò fortunatamente per istrada, a pochi passi dalla sua abitazione.
Scorgendogli in viso un'improvvisa alterazione di rabbioso dispetto, Memmo
Viola comprese che l'amico era uscito così presto di casa, perché si
aspettava la sua visita. Gli si parò davanti, sorridendo e gli disse: -
Cristina mi manda da te. Andiamo sù. La cosa è grave. Gigi
Venanzi gli piantò in faccia gli occhi torbidi e gli domandò: -
Che c'è? -
Oh, non facciamo storie - esclamò Memmo. - Ti leggo in faccia che lo sai.
Dunque non mi far parlare. Sono sfinito; casco a pezzi. E' venuta a
svegliarmi come una furia nel meglio del sonno, e non m'ha dato neanche il
tempo di prendere un po' di latte e caffè. Appena
risalito in casa, Gigi Venanzi si voltò come un cane idrofobo a Memmo e gli
gridò: -
Ma lo sai chi è Miglioriti? Memmo
lo guardò balordamente: -
Miglioriti? No... Che c'entra Miglioriti? Ah... è forse... aspetta! Non
l'ho neanche guardato. Ficcò
due dita nel taschino del panciotto e ne trasse, tutto gualcito, il
biglietto da visita che gli aveva dato la moglie: -
Ah, già... Miglioriti - disse, leggendo. - ALDO MIGLIORITI DEI MARCHESI DI
SAN FILIPPO. Il nome non m'arriva nuovo... Chi è? -
Chi è? - ripeté col sangue agli occhi Gigi Venanzi. - La prima lama tra i
dilettanti di Roma! -
Ah, sì? - fece Memmo Viola. - Tira bene? Di spada? -
Di spada e di sciabola! -
Mi fa piacere. Ma è pure un gran mascalzone, va' là! Quello che ha
fatto... Gigi
Venanzi gli saltò addosso quasi con la stessa furia, con cui poc'anzi gli
era saltata addosso la moglie. -
Ma se ha domandato scusa! Ma se è stato un equivoco! Memmo
Viola, allora lo guardò, ammiccando con la coda dell'occhio, timido e furbo
a un tempo, e domandò, quasi fuor fuori: -
C'eri? Il
volto di Gigi Venanzi si scompose, come in uno smarrimento di vertigine: -
Come? dove? - balbettò. Memmo
Viola, come se nulla fosse, ritrasse sorridendo il suo amico dal precipizio,
a cui con quella lieve, breve domanda s'era divertito a spingerlo, e
riprese: -
Ah... già... sì... tu hai saputo. Era anche ubriaco, mezzo ubriaco, sì...
Ma che vuoi farci? Caro mio, Cristina non vuole scuse! tanto ha detto, tanto
ha fatto, che lo ha costretto a lasciare il suo biglietto da visita, in
presenza di tanti testimoni. Ora bisogna che qualcuno lo raccolga, questo
biglietto. Il marito sono io, e tocca a me. Ma da che ci siamo, ohè, Gigi,
bisogna far le cose sul serio. L'oltraggio è stato grave, e gravi debbono
essere le condizioni. Gigi
Venanzi lo guardò stordito; poi, in un nuovo impeto di rabbia gli gridò: -
Ma se tu non sai neanche tenere la spada in mano! -
Alla pistola, - disse Memmo placidamente. -
Ma che pistola d'Egitto! - si scrollò Gigi Venanzi. - Quello imbrocca un
soldo incastrato in un albero a venti passi di distanza! -
Ah sì? - ripeté Memmo. - E allora, prima alla pistola, e poi alla spada.
Me, vedrai che non m'imbrocca di certo. Gigi
Venanzi si mise ad andare sù e giù, sù e giù per la stanza; poi facendo
animo risoluto: -
Senti, Memmo: io non posso accettare. -
Che? - fece subito Memmo, afferrandogli un braccio. - Non facciamo scherzi,
Gigi, e non perdiamo tempo! Tu non puoi tirarti indietro, come non posso
tirarmi indietro io. Tu farai la tua parte, com'io faccio la mia. Pensa al
secondo testimonio, e sbrìgati. -
Ma vuoi che ti porti al macello? - gli gridò Gigi Venanzi al colmo
dell'esasperazione. -
Uh, - sorrise Memmo. - Non esageriamo... Del resto, caro mio, tutte
sciocchezze. Inutile parlarne! Cristina vuole lavato l'oltraggio, e non se
n'esce. Perderei la libertà; e invece, con questa occasione, io me la
voglio guadagnare intera. Vedrai che ci riuscirò. Va', va'; pensa a tutto,
tu che te n'intendi. Io ti aspetto a casa. Sto leggendo un bel libro sai? su
i Massimi Problemi. Tu non ci hai mai pensato; ma il problema
dell'oltretomba è formidabile, Gigi! No, scusa, scusa... perché... senti
questo: l'Essere, caro mio, per uscire dalla sua astrazione e determinarsi
ha bisogno dell'Accadere. E che vuol dire questo? dammi una sigaretta. Vuol
dire che... - grazie - vuol dire che l'Accadere, poiché l'Essere è eterno,
sarà eterno anch'esso. Ora un accadere eterno, cioè senza fine, vuol dire
anche senza UN fine, capisci? un accadere che non conclude, dunque, che non
può concludere, che non concluderà mai nulla. E' una bella consolazione.
Dammi un fiammifero. Tutti i dolori, tutte le fatiche, tutte le lotte, le
imprese, le scoperte, le invenzioni... -
Sai? - disse Gigi Venanzi, che non aveva udito nulla di tutta quella
tiritera. - Forse Nino Spiga... -
Ma sì, Nino Spiga o un altro, prendi chi ti pare, - gli rispose Memmo. - E
per il medico, sceglilo tu, caro, di tua fiducia. Oh, se hai bisogno... E
accennò di prendere il portafogli. Gigi Venanzi gli arrestò la mano. -
Poi... poi... -
Perché ho sentito dire, - concluse Memmo - che per farsi bucare con tutte
le regole cavalleresche ci vogliono dei bei quattrini. Basta, poi mi farai
il conto. Addio, eh? Mi trovi in casa. Lo
trovò in casa, difatti, Gigi Venanzi, quella sera, ma sotto un aspetto che
non si sarebbe mai immaginato. Memmo
Viola litigava con la vecchia serva a cui mancavano tre soldi nel conto
della spesa. E le diceva: -
Cara mia, se tu mi metti nel conto: RUBATI, SOLDI 8, O SOLDI 10, io tiro
pacificamente la somma, e non ne parlo più. Ma questi tre soldi, così, non
te l'abbono. Vorrei sapere che gusto ci provi, tentare di pigliare in giro
uno come me, che ha capito così bene il giuoco... Parlo bene, Gigi? Costernatissimo,
esasperato, stanco morto, Gigi Venanzi stava a mirarlo con tanto d'occhi. La
calma di quell'uomo, alla vigilia di battersi alla spada, nientemeno che con
Aldo Miglioriti, era stupefacente. E il suo stupore crebbe, quando,
enunciategli le condizioni gravissime del duello, volute e imposte anche dal
Miglioriti, vide che quella calma non s'alterava per niente. -
Hai capito? - gli domandò. -
Eh, - fece Memmo. - Come no? Domattina alle sette. Ho capito. Va benissimo. -
Io sarò qui, bada, alle sei e un quarto. Basterà, - avvertì il Venanzi. -
Con l'automobile si farà presto. Ho preso per medico Nofri. Non andar tardi
a letto, e procura di dormire, eh? -
Sta' tranquillo, - disse Memmo. - Dormirò. E
tenne la parola. Alle sei e un quarto, quando venne Gigi Venanzi a bussare
alla porta, dormiva ancora profondissimamente. Venanzi bussò, due, tre,
quattro volte; alla fine Memmo Viola, nelle stesse condizioni in cui la
mattina avanti era andato ad aprire alla moglie, cioè in camicia e con le
brache in mano, venne ad aprire all'amico. Venanzi,
a quell'apparizione, restò di sasso. -
Ancora così? Memmo
finse una grande meraviglia. -
E perché? - gli domandò. -
Ma come? - inveì Gigi Venanzi. - Tu ti devi battere! Ci sono giù Spiga e
Nofri... Che scherzo è questo? -
Scherzo? Mi devo battere? - rispose placidissimamente Memmo Viola. - Ma
scherzerai tu, caro! Io ti ho detto che a me tocca di far la parte mia, e a
te la tua. Sono il marito e ho sfidato; ma quanto a battermi, abbi pazienza,
non tocca più a me, caro Gigi, da un pezzo: tocca a te... Siamo giusti! Gigi
Venanzi si sentì sprofondare la terra sotto i piedi, seccare il sangue
nelle vene; vide giallo, vide rosso; afferrò Memmo per il petto, gli scagliò,
gli sputò in faccia le ingiurie più sanguinose; Memmo lo lasciò fare,
ridendo. Solo, a un certo punto, gli disse: -
Bada, Gigi, che non fai più a tempo, se devi trovarti sul terreno alle
sette. Ti conviene esser puntuale. Dall'alto
della scala, poi, reggendosi ancora le brache con la mano, gli augurò: -
In bocca al lupo, caro, in bocca al lupo! |