VITTORIA DELLE FORMICHE Una
cosa per sè forse ridicola ma, agli effetti, terribile: una casa invasa
tutta dalle formiche. E questo pensiero folle: che il vento si fosse alleato
con esse. Il vento con le formiche. Alleato, con quella sconsideratezza che
gli è propria, da non potersi nell'impeto fermare neppure un minuto per
riflettere a quello che fa. Detto fatto, a raffica, s'era levato giusto sul
punto che lui prendeva la decisione di dar fuoco al formicajo davanti la
porta. E detto fatto, la casa, tutta in fiamme. Come se per liberarla dalle
formiche lui non avesse trovato altro espediente che il fuoco: incendiarla. Ma
prima di venire a questo punto decisivo sarà bene ricordarsi di molte cose
precedenti che possono spiegare in qualche modo sia come le formiche avevano
potuto invadere fino a tanto la casa e sia come poté nascere a lui il
pensiero stravagante di quest'alleanza tra le formiche e il vento. Ridotto
alla fame, da agiato come il padre l'aveva lasciato morendo, abbandonato
dalla moglie e dai figli che s'erano acconciati a vivere per conto loro alla
meglio, liberati alla fine dalle sue soperchierie che si potevano
qualificare in tanti modi, ma sopra tutto incongruenti; lui che al contrario
si credeva loro vittima per troppa remissione e non corrisposto mai da
nessuno di loro nei suoi gusti pacifici e nelle sue vedute giudiziose;
viveva solo, in un palmo di terra che gli era restato di tutti i beni che
prima possedeva, case e poderi; un palmo di terra bonificata, sotto il
paese, sul ciglio della vallata, con una catapecchia di appena tre stanze,
dove prima abitava il contadino che aveva in affitto la terra. Ora ci
abitava lui, il signore ridotto peggio del più miserabile contadino;
vestito ancora d'un abito da signore che addosso a lui appariva orribilmente
più strappato e unto che addosso a un mendicante che l'avesse avuto in
elemosina. Pur tuttavia quella sua signorile spaventosa miseria pareva a
volte quasi allegra, come certe toppe di colore che i poveri portano sui
loro abiti e quasi fanno loro da bandiera. Nella lunga faccia smorta, negli
occhi pesti ma vivi, aveva un che di gajo che s'accordava coi ricci
svolazzanti del capo, mezzi grigi e mezzi rossi; e certi ilari guizzi negli
occhi, subito spenti al pensiero che, scorti per caso da qualcuno, lo
facessero creder pazzo. Capiva lui stesso ch'era molto facile che gli altri
si facessero di lui un tal concetto. Ma era proprio contento di farsi ormai
tutto da sé come piaceva a lui; e assaporava con gusto infinito quel poco e
quasi niente che poteva offrirgli la povertà. Non aveva nemmeno tanto da
accendere il fuoco tutti i giorni per cucinarsi una minestra di fave o di
lenticchie. Gli sarebbe piaciuto, perché nessuno sapeva cucinarla meglio di
lui, dosandovi con tanta arte il sale e il pepe e mescolandovi certe verdure
appropriate che, durante la cottura, solo a odorarla la minestra inebriava;
e poi, a mangiarla, un miele. Ma sapeva anche farne a meno. Gli bastava, la
sera, uscir fuori a due passi dalla porta, cogliere nell'orto un pomodoro,
una cipolla per companatico alla solida pagnotta che con meticolosa cura
affettava con un coltellino e con due dita, pezzetto per pezzetto, si
portava alla bocca come un boccone prelibato. Aveva
scoperto questa nuova ricchezza, nell'esperienza che può bastar così poco
per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da che non
si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia
pure, ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d'una
catapecchia; e se s'accosta un cane, anch'esso sperduto, farselo accucciare
accanto e carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto
le stelle. Ma
senza pensieri, non era vero. Buttato poco dopo su un pagliericcio per terra
come una bestia, invece di dormire si metteva a mangiare le unghie e, senza
badarci, a strapparsi coi denti fino al sangue le pipite delle dita, che poi
gli bruciavano gonfie e suppurate per parecchi giorni. Ruminava tutto ciò
che avrebbe dovuto fare e che non aveva fatto per salvare i suoi beni; e si
torceva dalla rabbia o mugolava per il rimorso, come se la sua rovina fosse
accaduta jeri, come se jeri avesse finto di non accorgersi che sarebbe
accaduta tra poco e che ormai non era più rimediabile. Non ci poteva
credere! Uno dopo l'altro s'era lasciati portar via dagli usuraj i poderi, e
una dopo l'altra le case, per poter disporre d'un po' di danaro di nascosto
dalla moglie, per pagarsi qualche piccola passeggera distrazione (veramente,
non piccola né passeggera; era inutile che cercasse adesso attenuazioni;
doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come
un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino,
giuoco) e gli era bastato che la moglie non si fosse ancora accorta di
nulla, per seguitare a vivere come se neppur lui sapesse nulla della rovina
imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio
innocente che studiava il latino. Sissignori. Incredibile: s'era messo a
ristudiare il latino anche lui, per sorvegliare e ajutare il figlio; come se
non avesse altro da fare e fosse davvero un'attenzione e una cura, questa
sua, che potesse compensare il disastro che intanto preparava a tutta la
famiglia. Questo disastro, per la sua segreta esasperazione, era lo stesso
di quello a cui andava incontro il figlio se non riusciva a comprendere il
valore dell'ablativo assoluto o della forma avversativa; e s'accaniva a
spiegarglielo, e tutta la casa tremava dalle sue grida e dalle sue furie per
l'imbalordimento di quel povero ragazzo, che piano piano forse lo avrebbe
alla fine compreso da sé. Con che occhi lo aveva guardato una volta, dopo
uno schiaffo! Nell'impeto del rimorso, ripensando a quello sguardo del suo
ragazzo, si sgraffiava ora la faccia con le dita artigliate e s'ingiuriava:
porco, porco, bruto: prendersela così con un innocente! Lasciava
il pagliericcio; rinunziava a dormire; tornava a sedere sulla soglia della
catapecchia; e lì il silenzio smemorato della campagna immersa nella notte,
a poco a poco, lo placava. Il silenzio, non che turbato, pareva accresciuto
dal remoto scampanellìo dei grilli che veniva dal fondo della grande
vallata. Era già nella campagna la malinconia della stagione declinante; e
lui amava le prime giornate umide velate, quando cominciano a cadere quelle
pioggerelle leggere, che gli davano, chi sa perché, una vaga nostalgia
dell'infanzia lontana, quelle prime sensazioni meste e pur dolci che fanno
affezionare alla terra, al suo odore. La commozione gli gonfiava il petto;
l'angoscia gli serrava la gola, e si metteva a piangere. Era destino che lui
dovesse finire in campagna. Ma non s'aspettava così veramente. Non
avendo né la forza né i mezzi di coltivare da sé quel po' di terra, che
fruttava appena tanto da pagar la tassa fondiaria di cui era gravata,
l'aveva ceduta al contadino che aveva in affitto il podere accanto, a
condizione che pagasse lui quella tassa e che gli desse soltanto da
mangiare: poco, quasi per elemosina, di quel che produceva la terra stessa:
pane e verdura, e da farsi, se gli andava, una minestra ogni tanto. Stabilito
quest'accordo, aveva preso a considerare tutto quello che si vedeva attorno,
mandorli, olivi, grano, ortaglie, come cose che non appartenessero più a
lui. Sua era soltanto la catapecchia; ma se si metteva a guardarla come la
sua unica proprietà, non poteva fare a meno di sorriderne col più amaro
dileggio. Già l'avevano invasa le formiche. Finora s'era divertito a
vederle scorrere in processioni infinite su per le pareti delle stanze.
Erano tante e tante, che a volte pareva che le pareti tremolassero tutte. Ma
più gli piaceva vederle andare in tutti i sensi da padrone sui buffi mobili
signorili di quella ch'era stata un tempo la sua casa in città, relitti del
naufragio della sua famiglia, ammassati lì alla rinfusa e tutti con un dito
di polvere sopra. Nell'ozio, per distrarsi, s'era messo anche a studiarle,
quelle formiche, per ore e ore. Erano
formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un
soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne
sopravvenivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l'ordine nella
fretta; queste squadre qua, quest'altre là; viavai senza requie;
s'intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la strada, e
certo s'intendevano e consultavano tra loro. Non
gli era parso ancora, però, forse per quella loro esilità e piccolezza,
che potessero essere temibili, che volessero proprio impadronirsi della casa
e di lui stesso e non lasciarlo più vivere. Pur le aveva trovate da per
tutto, in tutti i cassetti; le aveva vedute venir fuori donde meno se le
sarebbe aspettate; se l'era trovate anche in bocca talvolta, mangiando
qualche pezzo di pane lasciato per un momento sulla tavola o altrove. L'idea
che se ne dovesse seriamente difendere, che le dovesse seriamente
combattere, non gli era ancora venuta. Gli venne tutt'a un tratto una
mattina, forse per l'animo in cui era, dopo una nottataccia più nera delle
altre. S'era
levata la giacca per portar dentro la catapecchia alcuni covoni, una
ventina, che dopo la mietitura il contadino non aveva ancora trasportato nel
suo podere di là e aveva lasciato qua all'aperto. Il cielo, durante la
notte, s'era incavernato, e la pioggia pareva imminente. Abituato a non far
mai nulla, per quella fatica insolita e per quella sciocca previdenza, che
poi del resto non spettava neanche a lui perché quei covoni di grano
appartenevano come tutto il resto al contadino, s'era tanto stancato, che
quando fu per trovar posto dentro la catapecchia, già tutta stipata,
all'ultimo covone, non ne poté più, lasciò quel covone davanti la porta,
e sedette per riposarsi un po'. A
capo chino, con le braccia appoggiate alle gambe discoste, lasciò penzolare
tra esse le mani. E ad un certo punto ecco che si vide uscire dalle maniche
della camicia su quelle mani penzoloni le formiche, le formiche che dunque
sotto la camicia gli passeggiavano sul corpo come a casa loro. Ah, perciò
forse la notte lui non poteva più dormire e tutti i pensieri e i rimorsi lo
riassalivano. S'infuriò e decise lì per lì di sterminarle. Il formicajo
era a due passi dalla porta. Dargli fuoco. Come
non pensò al vento? Oh bella. Non ci pensò perché il vento non c'era, non
c'era. L'aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla
campagna, in quel silenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse
gocce. Non crollava foglia. La raffica si levò d'improvviso a tradimento,
appena lui accese il fascetto di paglia raccolta per terra; lo teneva in
mano come una torcia; nell'abbassarlo per dar fuoco al formicajo, la
raffica, investendolo, portò le faville a quel covone rimasto davanti la
porta, e subito il covone avvampando appiccò il fuoco agli altri covoni
riparati dentro la casa, dove l'incendio d'un tratto divampò crepitando e
riempiendo tutto di fumo. Come un pazzo, urlando con le braccia levate, lui
si cacciò dentro alla fornace, forse sperando di spegnerla. Quando
dalla gente accorsa fu tratto fuori, fu uno spavento vederlo tutto
orribilmente arso e non ancor morto, anzi furiosamente esaltato, annaspante
con le braccia, le fiamme addosso, sugli abiti e nei ricci svolazzanti sul
capo. Morì poche ore dopo all'ospedale, dove fu trasportato. Nel delirio,
sparlava del vento, del vento e delle formiche. -
Alleanza... alleanza... Ma
già lo sapevano pazzo. E quella sua fine, sì, fu commiserata, ma pur con
un certo sorriso sulle labbra. |