QUAND'ERO
MATTO...
Prima di tutto chiedo licenza di premettere che ora
sono savio. Oh, per questo, anche povero. Anche calvo. Quand'ero ancora
io, voglio dire, il riverito signor Fausto Bandini, ricco, e in capo avevo
tutti i miei bellissimi capelli, è però provato provatissimo ch'ero
matto. E un po' più magro, s'intende. Ma pur con questi occhi che mi sono
rimasti da allora spauriti, nella faccia così tutta scritta dagli
atteggiamenti che prendeva per le croniche pietà da cui ero afflitto.
Per distrazione,
ogni tanto, ci ricasco. Ma sono lampi che Marta, saggia moglie, spegne
subito in me con certe sue terribili paroline.
Per esempio, l'altra
sera.
Cose di poco
momento, badiamo. Che può mai accadere a un povero savio e savio povero,
ridotto a vivere più ordinatamente d'una formica?
Quanto più tenne la
tela, tanto più delicato il ricamo, ho letto una volta, non so dove. Ma
prima di tutto bisognerebbe saper ricamare.
Rincasavo. Non si può
dare, credo, maggior fastidio di quello che l'insistenza d'un mendicante
cagiona quando non s'abbia il soldo in tasca e quegli ci veda all'aria
dispostissimi a darglielo. Era, nel caso mio, una ragazza. Senza
interruzione, con voce piagnucolosa da un quarto d'ora m'andava ripetendo
dietro le stesse frasi, due o tre. Io, sordo; senza guardarla. A un certo
punto, mi lascia: investe e s'appiccica, come una mosca tavana, a una
coppia di sposi novelli.
- Glielo daranno il
saldino? - dico tra me.
Ah, tu non sai,
ragazza! La prima volta che gli sposi novelli van per via a braccetto,
Vedono d'aver tutti gli occhi del mondo appuntati addosso; sentono
l'impaccio delle cose nuove che tutti quegli occhi veggono e suppongono in
loro, e non sanno né possono fermarsi a far l'elemosina al povero.
Sento poco dopo,
difatti, qualcuno che mi corre dietro gridando;
- Signorino,
signorino.
E rieccola, col
piagnisteo monotono di prima. Non ne posso più; le grido esasperato:
- No!
Peggio. Come se con
quel no avessi dato la stura a un altro pajo di frasi tenute in serbo in
previsione del caso. Sbuffo una prima volta, sbuffo una seconda,
finalmente: auff! - alzo il bastone. Così. Quella si tira da un canto,
levando istintivamente il braccio a riparo della testa, e di sotto il
gomito mi geme:
- Anche due
centesimi!
Dio, che occhi
apriva quel volto smunto, citrino, sotto i capelli rossastri
abbatuffolati. Tutti i vizii della strada vermicavano in quegli occhi; e
la precocità li rendeva spaventevoli. (Non metto alcun punto esclamativo
perché, ora che son savio, nessuna cosa deve più farmi meraviglia.)
Già prima di
vederle quegli occhi ero pentito dell'atto di minaccia.
- Quant'anni hai?
La ragazza mi guarda
di traverso, senza abbassare il braccio, e non risponde.
- Perché non
lavori?
- Magari, a
trovarne. Non trovo.
- Non cerchi, - le
dico io, riavviandomi. - Perché hai preso gusto a codesto bel mestiere.
Manco a dirlo; colei
mi seguì ripigliando l'affliggente cantilena: che aveva fame, le déssi
qualcosa per amor di Dio.
Potevo cavarmi la
giacca e dirle: « Tieni »? Chi sa: in altri tempi, forse l'avrei fatto.
Ma già, in altri tempi, avrei avuto in tasca il soldino.
Mi nacque
improvvisamente un'idea, della quale sento il dovere di scusarmi al
cospetto della gente savia. Lavorare è senza dubbio un buon consiglio; ma
si fa così presto a darlo. Mi sovvenne che Marta cercava una seghetta.
E si badi: qualifico
pazzia quest'idea improvvisa, non tanto per la trepida gioia che mi suscitò
e che riconobbi in prima benissimo, per averla altre volte provata tal
quale, quand'ero matto: specie d'ebbrezza abbarbagliante che dura un
attimo, un lampo, nel quale il mondo sembra dia un gran palpito e sussulti
tutto dentro di noi; quanto per le riflessioni da povero savio con cui
cercai subito di puntellare quell'ebbrezza in me. Pensai: « Purché a
questa ragazza si dia da mangiare, da dormire e qualche veste smessa, ci
servirà, senza pretendere altro. Sarà pure un risparmio per Marta ».
Così.
- Senti: - dissi
alla ragazza, - soldi, non te ne do. Vuoi davvero lavorare?
Si fermò a
guardarmi un tratto con quegli occhi scontrosi, sotto le ciglia
odiosamente aggrottate; poi chinò più volte il capo.
- Sì? ebbene, vieni
allora con me. Ti darò io da lavorare a casa mia.
La ragazza si fermò
di nuovo, perplessa.
- E mamma?
- Andrai a dirglielo
dopo. Adesso vieni.
Mi pareva di
camminare per un altro viale e che... mi vergogno a dirlo, case e
alberetti fossero in preda all'agitazione che provavo io. E l'agitazione
crebbe, crebbe di punto in punto, appressandomi a casa.
Che avrebbe detto
mia moglie?
In un modo più
balordo non avrei potuto presentarle la proposta (balbettavo). E certo,
certissimo questo modo balordo dovette contribuire non solo a fargliela
respingere, com'era giusto, ma anche a farla arrabbiare, povera Marta. Ma
se io, ora che sono divenuto savio, col timore continuo che mi scappi
qualche stramberia, non so più dire due parole, una dopo l'altra? Basta;
mia moglie non si lasciò sfuggire l'occasione di ripetermi quel suo
terribile: « Ancora? Ancora? » che per me è peggio d'una doccia
a sorpresa; poi mandò via la ragazza senza neanche volerle dare
qualcosina, perché disse - per quel giorno l'elemosina era fatta. (E
realmente Marta l'elemosina la fa ogni giorno; badiamo: dà un soldino al
primo povero che capita, e quando ha dato quel soldino e ha detto: «
Raccomandami alle anime sante del Purgatorio » s'è messa in pace con la
coscienza, e non vuol sentire altro.)
Intanto io penso e
dico: quella ragazza, se non è già perduta, certo sarà tra breve. Sì,
ma che deve importarmene? Io, ora, sono divenuto savio, e a queste cose
non debbo più pensare né punto, né poco. - « Pensare a me! » -
questa, la mia nuova divisa. Ce n'è voluto per persuadermi a intestarne
tutti gli atti di questa mia nuova vita, chiamiamola così. Ma come
Dio vuole, non facendo nulla... Basta. Se io ora, per modo d'esempio, mi
fermo sotto la finestra d'una casa ove sappia c'è gente che piange, debbo
subito vedere a quella finestra la mia smarrita, sparuta immagine, la
quale, affacciandosi, ha l'obbligo espresso di gridarmi di lassù,
crollando un po' il capo e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto: - E
io? - Così.
Sempre: - E io?
- in ogni occasione. Che è qui la base della vera saggezza.
Quand'ero matto
invece...
II
Fondamento della morale
Quand'ero
matto, non mi sentivo in me stesso; che e come dire: non stavo di casa in
me.
Ero infatti divenuto
un albergo aperto a tutti. E se mi picchiavo un po' sulla fronte, sentivo
che vi stava sempre gente alloggiata: poveretti che avevan bisogno del mio
aiuto; e tanti e tanti altri inquilini avevo parimenti nel cuore; né si
può dir che gambe e mani avessi tanto al servizio mio, quanto a quello
degli infelici che stavano in me e mi mandavano di qua e di là, in
continua briga per loro.
Non potevo dir: io,
nella mia coscienza, che subito un'eco non mi ripetesse: io, io, io...
da parte di tanti altri, come se avessi dentro un passeraio. E questo
significava che se, poniamo, avevo fame e lo dicevo dentro di me, tanti e
tanti mi ripetevano dentro per conto loro: ho fame, ho fame, ho fame,
a cui bisognava provvedere, e sempre mi restava il rammarico di non potere
per tutti. Mi concepivo insomma in società di mutuo soccorso con
l'universo; ma siccome io allora non avevo bisogno di nessuno, quel «
mutuo » aveva soltanto valore per gli altri.
Il bello intanto era
questo, che credevo di ragionare la mia pazzia; anzi, se debbo dir tutta
la verità senza vergognarmi, ero finanche arrivato a tracciare lo schema
d'un trattato sui generis, che intendevo scrivere col titolo: Fondamento
della morale.
Ho qui nel cassetto
gli appunti per questo trattato, e ogni tanto, di sera (mentre Marta si fa
di là il solito pisolino dopo cena), li cavo fuori e me li rileggo pian
piano, di nascosto, con un certo godimento e anche una certa meraviglia,
lo confesso, perché è innegabile che io ragionavo pur bene, quand'ero
matto.
Dovrei veramente
riderne; ma forse non ci riesco per il motivo artefatto particolare che
quei ragionamenti erano per la maggior parte diretti a convertire quella
disgraziata, che fu la mia prima moglie, della quale parlerò appresso,
per dare la più lampante prova delle segnalate pazzie di quei tempi.
Da questi appunti
argomento che il trattato del Fondamento della morale dovesse nel
mio concetto consistere di dialoghi tra me e quella mia prima moglie, o
forse d'apologhi. Un quadernetto, ad esempio, è intitolato: Il giovine
timido, e certo in esso alludevo a quel buon ragazzo, figlio d'un
mercante di campagna in relazione d'affari con me, il quale, mandato dal
padre, veniva a trovarmi in città, e quella disgraziata lo invitava a
desinare con noi per divertirsi un po' alle spalle di lui.
Trascrivo dal
quadernetto:
« Dimmi, o Mirina. O che occhi sono i tuoi? Non vedi
che codesto povero giovine s'è accorto che tu intendi prenderti giuoco
di lui? Lo stimi sciocco; e invece è soltanto timido; così timido che
non sa ritrarsi dalla berlina a cui lo metti, quantunque ne soffra
dentro. Se la sofferenza di questo giovine, o Mirina, non rimanesse per
te allo stato di segno apparente che ti fa ridere, se tu non avessi
soltanto coscienza del tuo tristo piacere, ma anche, nello stesso tempo
del dolore di lui, non ti par chiaro che cesseresti di farlo sorbire,
perché il piacere ti sarebbe turbato e distrutto dalla coscienza
dell'altrui dolore? Tu agisci dunque, Mirina, senza l'intero sentimento
della tua azione, della quale provi l'effetto soltanto in te medesima.
»
Così.
E per un matto, via, non c'è male. Il male era che non comprendevo che
altro è ragionare, altro è vivere. E la metà, o quasi, di quei
disgraziati che si tengon chiusi negli ospizii, non sono forse gente che
voleva vivere secondo comunemente in astratto si ragiona? Quante prove,
quanti esempii potrei qui citare, se ogni savio oggi non riconoscesse
tante cose che si fanno nella vita, o che si dicono, e certi usi e certe
abitudini esser proprio irragionevoli, dimodochè è matto chi li ragioni.
Tale in fondo ero
io, tale nel mio trattato mi dimostravo.
Non me ne sarei
accorto, se Marta non mi avesse prestato i suoi occhiali.
Per curiosità,
intanto, coloro che non si vogliono tener paghi di Dio, perché lo dicono
fondato in un sentimento che non ammette ragione, potrebbero vedere in
questo mio trattato come io però lo ragionassi. Se non che, convengo
adesso che questo sarebbe un Dio difficile per la gente savia e anzi
addirittura impraticabile, perché, chi volesse riconoscerlo dovrebbe
agire verso gli altri come agivo io una volta, cioè da matto: con eguale
coscienza di sé e degli altri, perché sono coscienze come la nostra. Chi
facesse veramente così e alle altre coscienze attribuisse l'identica
realtà che alla propria, avrebbe per necessità l'idea d'una realtà
comune a tutti, d'una verità e anche di un'esistenza che ci sorpassa:
Dio.
Ma non per la gente
savia, ripeto.
È curioso intanto
che Marta, mentre io (seguendo la nostra vecchia abitudine di leggere
qualche buon libro prima d'andare a letto) leggo, per esempio, I
fioretti di San Francesco, m'interrompa di tratto in tratto,
esclamando con riverenza e piena d'ammirazione:
- Che santo! che
santo!
Così.
Sarà tentazione del
demonio, ma io abbasso il libro sulle ginocchia e sto a guardarla, se lo
dica proprio sul serio davanti a me. Per esser logici, via, San Francesco
per lei non dovrebbe esser savio, o io ora...
Ma già, mi persuado
che i savii debbono esser logici fino a un certo punto.
Torniamo a quand'ero
matto.
Sul cadere della
sera, in villa, mentre da lontano mi giungeva il suono delle cornamuse che
aprivano la marcia delle frotte dei falciatori di ritorno al villaggio con
le carrette cariche del raccolto, mi pareva che l'aria tra me e le cose
intorno divenisse a mano a mano più intima; e che io vedessi oltre la
vista naturale. L'anima, intenta e affascinata da quella sacra intimità
con le cose, discendeva al limitare dei sensi e percepiva ogni più lieve
moto, ogni più lieve rumore. E un gran silenzio attonito era dentro di
me, sicché un frullo d'ali vicino mi faceva sussultare e un trillo
lontano mi dava quasi un singulto di gioia, perché mi sentivo felice per
gli uccelletti che in quella stagione non pativano il freddo e trovavano
per la campagna da cibarsi in abbondanza felice, come se il mio alito li
scaldasse e li cibassi di me.
Penetravo anche
nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d'erba
assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita d'ogni cosa, finché mi
pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la
terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l'aria la mia anima; e
andavo un tratto così, estatico e compenetrato in questa divina visione.
Svanita, restavo
anelante, come se davvero nel gracile petto avessi accolto la vita del
mondo.
Mi mettevo a sedere
a piè d'un albero, e allora il genio della mia follia cominciava a
suggerirmi le più strambe idee: che l'umanità avesse bisogno di me,
della mia parola esortatrice: voce d'esempio, parola di fatto. A un certo
punto m'accorgevo io stesso che deliravo, e allora mi dicevo: -
Rientriamo, rientriamo nella nostra coscienza... - Ma ci rientravo, non
per veder me, ma per veder gli altri in me com'essi si vedevano, per
sentirli in me com'essi in loro si sentivano e volerli com'essi si
volevano.
Ora, concependo e
riflettendo così nello specchio interiore della coscienza gli altri
esseri con una realtà uguale alla mia e per tal mezzo anche l'Essere
nella sua unità, un'azione egoistica, un'azione cioè nella quale la
parte si erige al posto del tutto e lo subordina, non era naturale che mi
apparisse irragionevole?
Ahimè, sì. Ma
mentre io per le mie terre camminavo in punta di piedi e curvo per vedere
di non calpestare qualche fiorellino o qualche insetto, dei quali vivevo
in me la tenue vita d'un giorno, gli altri mi rubavano la campagna, mi
rubavano le case, mi spogliavano addirittura.
E ora, eccomi qua: ecce
homo!
III
Mirina
Il
cero benedetto, il cero « della buona morte », che quella santa donna
s'era portato dalla chiesa madre del paesello natale, faceva ora il suo
ufficio.
Lo aveva custodito
tant'anni per sé in fondo all'armadio; e ora esso ardeva su un lungo
candeliere di piombo e quasi vegliava coi ricordi umili e cari del lontano
paese, struggendosi in lacrime sul fusto, dietro il capo della morta già
stesa sul pavimento dentro la bara ancora scoperta, nel posto occupato
prima dal letto.
Ogni qual volta mi
viene in mente la mia prima moglie, mi s'affaccia con straordinaria
lucidità questa funebre visione. La santa donna stesa in quella bara è
Amalia Sanni, la sorella maggiore e vorrei dire la madre di Mirina. Rivedo
la camera modestissima e, oltre al cero benedetto, due altri ceri più
piccoli che si consumano più presto a piè della bara, crepitando di
tratto in tratto.
Io me ne sto seduto
presso la finestra, e, come se la sciagura inattesa mi avesse più
stordito che addolorato, guardo i parenti e gli amici convenuti per quella
morte: gente savia e dabbene, mi guarderei dal negarlo, ma che peccava di
troppo zelo nel farmi accorgere dell'antipatia che sentivano per me. Certo
ne avevano ragione, ma non m'aiutavano così a rinsavire, ché io anzi da
quei loro sguardi traevo argomento di compatirli sinceramente.
Io amavo Amalia
Sanni come una sorella. Riconosco ora in lei un solo torto: questo: che la
sua anima s'accordava in tutto e per tutto con la mia nel concepir la
vita. Non direi però ch'ella era matta; direi tutt'al più che Amalia
Sanni non fu savia, come San Francesco. Perché non c'è via di mezzo: o
si è santi o si è matti.
Con cura tutt'e due
ci sforzavamo di ridestare l'anima in Mirina, senza pertanto sciupar la
freschezza della sua sconnessa e quasi violenta vitalità, senza
mortificare per nulla quel suo minuscolo corpicino da bambola, pieno di
vivacissime grazie. Volevamo insegnare a una farfalla, non a chiuder le
ali e non voler più, ma a non andare a posarsi su certi fiori velenosi.
Senza intendere che per la farfalla quel che a noi pareva veleno era il
proprio cibo.
Basta: non voglio
qui dilungarmi a narrare la mia infelice esistenza coniugale con Mirina.
Dirò solo che ella detestava in me quel che ammirava in sua sorella. E
questo ora mi sembra naturalissimo.
A un tratto, nella
camera mortuaria entrò sbuffante una delle cugine di mia moglie, di cui
non ricordo più il nome: pingue, nana, con un grosso pajo d'occhiali
rotondi che le ingrandivano mostruosamente gli occhi, poverina. Si era
recata all'aperto a raccoglier qua e là quanti più fiori aveva potuto,
nelle vicinanze della villetta, e ora veniva a spargerli sulla morta.
Aveva nei capelli scompigliati il vento che urlava fuori.
Gentile e pietoso
quel pensiero: ora lo riconosco; ma allora... Ricordavo che, pochi giorni
addietro, Amalia, nel veder Mirina ritornare alla villetta con un gran
fascio di fiori, aveva esclamato, tutt'afflitta:
- Peccato! Perché?
Nella sua santità,
difatti, ella riteneva che quei fiori di campo non nascono per gli uomini,
ma sono come il riso della terra che esprime gratitudine al sole per il
calore che esso le dà. Strappare quei fiori era per lei una profanazione.
Io matto, confesso che non seppi resistere alla vista della morta coperta
di quei fiori. Non dissi nulla. Me ne andai.
Ricordo ancora
l'impressione che mi fece, quella notte, l'improvviso spettacolo della
natura quasi tutta in fuga, nell'urlante veemenza del vento. Fuggivano
squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita,
e pareva si trascinassero seco la luna pallida dallo sgomento; gli alberi
si scontorcevano stormendo, cigolando, spasimando senza requie, come per
sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a
un tempestoso convegno.
L'anima mia, che
nell'uscir dalla villetta era tutta chiusa nel cordoglio della morte, a un
tratto si aprì, come se il cordoglio stesso si fosse spalancato al
cospetto di quella notte: altro dolore immenso mi parve che fosse nel
cielo misterioso, in quelle nuvole squarciate e trascinate; altra pena
arcana nell'aria infuriata e urlante in quella fuga, e, se così gli
alberi muti si agitavano, anche uno spasimo ignoto doveva certo essere in
loro. A un tratto, un singhiozzo, quasi un bollo di paurosa luce in quel
mare di tenebre: un chiurlo d'assiolo nella valle giù; e, lontano, gridi
di terrore: i grilli che scampanellavano di là, verso la collina.
Investito dal vento,
andai tra gli alberi. A un certo punto, non so perché, mi voltai a
guardare verso la villetta, che mi presentava l'altro lato. Dopo aver
guardato un pezzo, improvvisamente mi protesi per discernere tra il bujo
se quel che mi sembrava di vedere fosse vero: presso la finestra bassa
della camera in cui Mirina s'era ritirata a piangere la sorella, stava e
s'agitava come un'ombra. Poteva essere negli occhi miei quell'ombra? Me li
stropicciai così forte, che, per un attimo, dopo, non riuscii a
discernere più nulla, quasi che una tenebra più fitta fosse caduta
attorno per impedirmi, non di vedere, ma di credere a ciò che m'era parso
di vedere. Un'ombra che gestiva? L'ombra d'un albero agitato dal vento?
Tanto era lontano da
me il sospetto che mia moglie mi tradisse.
Veramente mi sembra
di non presumer troppo pensando che, in una notte come quella, sarebbe
stato lontano da tutti un tal sospetto, e che forse tutti, come me, quando
mi accorsi che quell'ombra era proprio un uomo in carne e ossa avrebbero
ritenuto che fosse un ladro notturno e come me sarebbero corsi di
soppiatto a prendere uno schioppo, per intimorirlo, anche sparando in
aria.
Se non che io,
quando scoprii che genere di ladro fosse colui, non gli sparai, né sparai
in aria.
Appostato lì,
chino, all'angolo della cascina, vicinissimo alla prima finestra donde
essi parlavano tra loro, in preda a continui brividi taglienti come
rasoiate alla schiena, mi sforzavo di udire ciò che dicevano. Udivo
soltanto mia moglie atterrita dall'incredibile audacia di colui. Lo
spingeva ad andarsene. Parlava anche lui, ma così basso e affrettatamente
che, non solo non riuscivo a intendere le sue parole, ma dal suono della
voce non potevo ancora riconoscerlo.
- Vattene, vattene,
- insisteva lei. E tra le lagrime aggiunse altre parole che m'impietrarono
di più. Intravidi tutto! Egli era venuto in quella notte tempestosa per
chiedere notizie dell'inferma. Ed ella gli disse: « L'abbiamo uccisa noi
». Ah, dunque Amalia aveva saputo, aveva scoperto prima di me il
tradimento?
- Che colpa? che
colpa? No! – diss'egli forte, smanioso, a un tratto.
Vardi! lui, Cesare
Vardi, il mio vicino! Lo riconobbi, lo vidi nella sua voce: tozzo e
solido, quasi nutrito di terra, di sole e d'aria sana. Udii, subito dopo,
le persiane raccostarsi con violenza, come se il vento avesse aiutato le
mani li lei; udii che egli si allontanava. E io non mi mossi dalla
positura in cui m'ero messo; seguii con l'udito rattenendo il fiato, i
suoi passi, più lenti assai dei battiti dei mio cuore. Poi mi rialzai in
preda al primo sbalordimento, e allora quel che avevo veduto e inteso
quasi non mi parve più vero.
« Possibile?
possibile? » dicevo a me stesso, errando di nuovo per la campagna, tra
gli alberi, com'ebbro. M'usciva dalla gola un mugolìo sordo, continuo,
che si confondeva col violento stormire delle foglie, come se il mio
corpo, ferito, si dolesse per suo conto, mentre l'anima, sconvolta,
stupita, non gli badava.
- Possibile?
Intesi alla fine
quel mugolo che partiva da me, e m'arrestai arrangolato e m'afferrai forte
con l'una mano e con l'altra gli omeri, incrociando le braccia sul petto,
quasi per trattenermi, e sedetti a terra. Ruppi allora in singhiozzi
disperati; Piansi e piansi; poi, spossato, alleggerito, cominciai a
esortar me stesso.
Ma dirò solo quello
che feci, dopo aver pensato a lungo. Sarà meglio. Ormai sono passati
tanti anni; commuovermi ancora di questa mia vecchia sciagura temo che non
sia degno di un uomo savio; tanto più che, pare, anzi è certo, mi
diportai malissimo.
Levatomi dunque da
terra, mi misi a errar di nuovo. A un tratto mi sentii quasi forzato a
nascondermi ancora una tolta, e mi accoccolai dietro la siepe che limitava
il mio campo la quello di lui. Il Vardi ritornava lentamente alla sua
villa. Nel passare davanti a me, nascosto dalla siepe, lo sentii sospirare
profondamente nella notte. Quel sospiro me lo avvicinò tanto, che quasi
ne provai ribrezzo. Ah, per quel sospiro fui proprio sul punto
d'ucciderlo. Potevo, solo che avessi alzato un po' il fucile, anche senza
darmi la pena di prendere la mira; tanto vicino mi passava. Lo lasciai
passare.
Ritornato di corsa
alla villetta trovai che i parenti s'erano ritirati dalla camera della
morta e che soltanto due servi erano rimasti a vegliare. Li dispensai dal
triste ufficio, dicendo che avrei vegliato io. Mi trattenni un po' a
contemplare mia cognata, che mi sembrò più tranquilla, più serena, come
se, morta dentro l'ombra della colpa di cui aveva voluto serbare l'orrendo
segreto, ora ne fosse uscita, poiché io sapevo tutto. Entrai quindi nella
camera di Mirina.
La trovai che
piangeva. Appena mi vide, si cangiò in volto.
- Non temere, - le
dissi. - Vieni con me.
- Dove?
- Con me. Non avrai
più rimorsi.
- Che intendi dire?
- Io voglio fare,
non dire. E quello che vuoi tu. Vieni intanto. Ti farò vedere.
La presi per mano;
la attirai. Tremante, fremente, ella si lasciò trascinare fino alla
camera della morta. Le additai la sorella.
- Vedi? - le dissi.
- Ora ella ti perdona. E tu puoi ripetere a me che l'hai uccisa tu.
- Io?
- Sì, come hai
detto poc'anzi dalla finestra a lui. Zitta non gridare! Non ti fo nulla.
Andrai ora stesso via da questa casa. Non piangere! È la tua prigione.
Voglio liberarti.
Cadde in ginocchio,
con la faccia per terra, supplicando perdono, pietà. La aiutai subito a
rialzarsi, imponendole di far silenzio; la tirai fuori della stanza.
- Dove? dove? -
chiedeva lei angosciosamente.
- Dove tu vuoi; non
temere. E se vuoi esser punita, sarà punizione; e se puoi ancora godere,
godrai liberamente. Ti libero! ti libero!
Avevo ancora lo
schioppo in ispalla. Ah come ella me lo guardò, sospettando
ragionevolmente che con le buone volessi attirarla fuori! Me ne accorsi:
sorrisi amaramente. E corsi a posar l'arma in un angolo della saletta.
- Non voglio farti
male, no. Che dovere hai tu d'amarmi per forza?
- Dove mi conduci?
- Da lui che
t'aspetta.
Entrando in una
casa, pensavo io allora, dobbiamo contentarci della sedia che l'ospite può
offrirci, senza stare a pensare se dall'albero, donde quella sedia fu
tratta, altra sedia di miglior foggia e di maggior dimensione avremmo
tratta noi per il nostro gusto e per la nostra statura. Per Mirina erano
troppo alte le sedie di casa mia. Sedendo, restava con le gambe
spenzolate, ed ella voleva sentire sotto i piedi la terra.
Ma avevo promesso di
riferire soltanto quello che feci. Bene: passi questo breve saggio di
pazzia. Quanto sarebbe stato più spiccio tirare una fucilata... Mah!
La tenevo per mano,
all'aperto, e le parlavo, andando. Non so bene quel che le dicessi; so
che, a un certo punto, ella svincolò il polso dalla mia mano e scappò
via di corsa, di corsa, tra gli alberi, come portata dal vento. Io rimasi
perplesso, sorpreso da quella fuga improvvisa: pareva che ella mi seguisse
così docile... Chiamai come un cieco:
- Mirina! Mirina!
Era sparita nella
tenebra, tra gli alberi. Errai in cerca, a lungo, invano. Ruppe l'alba,
cercai ancora, finché ogni dubbio non fu vinto dalla certezza che ella
era andata da sola a rifugiarsi là, dove io senza alcuna violenza volevo
condurla.
Guardai il cielo
velato da strisce rade, che erano come la traccia superstite della gran
fuga delle nuvole nella notte, e mi sentii stordito in mezzo a un silenzio
nuovo, inatteso, con l'impressione vaga che qualcosa fosse venuta a
mancare tutt'intorno, alla terra. Ah sì, ecco: il vento. Il vento era
abbattuto. Gli alberi erano immobili nell'umida squallida luce di
quell'alba.
Quanta stanchezza in
quella stupefatta immobilità! Ero sfinito anch'io, e mi posi a sedere per
terra. Guardai le foglie degli alberi più vicini, e sentii che, se un
soffio d'aria in quel momento fosse venuto a smuoverle, esse avrebbero
forse provato lo stesso senso di dolore che avrei provato io se qualcuno
fosse venuto a scuotermi una mano.
Mi sovvenne a un
tratto che la morta era sola nella villetta; che c'erano i parenti, i
quali forse a quell'ora s'erano svegliati e domandavano di me e di mia
moglie. Balzai in piedi, e via di corsa.
Stimo inutile
rappresentare a gente savia quel che seguì. Quei bravi parenti insorsero
tutti alle parole mie, alle mie spiegazioni; mi proclamarono pazzo, e anzi
quella cugina pingue nana, dagli occhiali rotondi, mentre tutti vociavano,
trasse dalla concitazione generale il coraggio di strillarmi in faccia con
le pugna serrate:
- Imbecille!
Aveva ragione,
poverina.
Affrettarono il
trasporto della defunta alla chiesa del prossimo villaggio, e mi
lasciarono solo.
Dopo due anni, mi
rivedo in viaggio. Il Vardi ha abbandonato Mirina, la quale, sottratta
alla miseria, al vizio, alla disperazione, vive in casa d'una parente.
Ella è però in potere d'un male orribile, e sta per morirne. Col mio
perdono, con la pace, io ho sperato, sognato di allegrarle gli ultimi
giorni di vita, riconducendola alla nostra campagna. Mi presento a lei in
quella camera squallida; le dico:
- Mi comprendi, ora?
- No! - mi risponde
lei, ritirando la mano che voglio carezzarle e guardandomi odiosamente.
E anche lei,
poveretta, aveva ragione.
IV
Scuola di saggezza
Per
esercitar bene qualunque professione c'è bisogno, come ognun sa, anche di
una certa larghezza di mezzi, la quale renda possibile aspettare le
opportunità migliori, senza buttarsi alle prime, come cani all'osso, che
è la sorte di chi si trovi in ristrettezze e per l'oggi debba ammiserire
il proprio domani e se stesso e la professione sua.
Ora questo vale
anche per la professione del ladro.
Un povero ladro, che
debba vivere alla giornata, suol finir sempre male. Un ladro invece, che
non sia in tali angustie e possa e sappia aspettar tempo e preparare i
modi, arriva ad alti e onoratissimi posti, con plauso e soddisfazione di
tutti.
Siamo dunque parchi,
per carità, nell'accordare il merito della saggezza ai ladri di casa mia.
Tutti quelli che
esercitarono sulla mia cospicua ricchezza la loro professione, non
meritano l'encomio della gente savia. Potevano rubare con garbo,
comodamente, e con prudenza e avvedutezza, e crearsi un'onorevole e
rispettabilissima posizione Invece, proprio senz'alcun bisogno,
s'affollarono a rubare, e rubarono male, naturalmente. Riducendomi in
pochi anni alla miseria, si tolsero il modo di vivere tranquillamente alle
mie spalle. E cominciarono presto, infatti, per loro, tanti grattacapi che
prima non avevano; e so, e me ne dispiace, che qualcuno andò anche a
finir male.
Marta, mia
moglie, è d'accordo con me in questo giudizio, soltanto ella osserva che
allorquando un pover'uomo discretamente onesto si trova insieme con tanti
ladri ingordi nell'amministrazione dei beni d'un ricco imbecille o matto
(che sarei io) la tattica della parsimonia nel furto non è più saggia;
il furto discreto, pacifico, giornaliero, non è più segno allora
d'avvedutezza, ma di stupidaggine e di povero cuore. E questo sarebbe
appunto il caso di Santi Bensai, mio segretario e primo marito della mia
cara Marta.
Il povero Santi (a
cui devo se ora non son ridotto all'elemosina) conosceva la mia ricchezza
e stimava saggiamente ch'essa avrebbe potuto servire con larghezza per me
e per quanti, come lui, si fossero contentati di raschiarla discretamente,
comodamente, senza cagionar danni troppo evidenti. Forse non tralasciò di
consigliare, per comune interesse, moderazione ai suoi colleghi; non fu
certo ascoltato; si creò nemici; e sofferse non poco, poverino. Gli altri
seguitarono a portar via a balle e a carra; lui, come una sobria
formichetta. E quando io alla fine rimasi povero come santo Giobbe,
bisognava vedere il buon Santi molto, ma molto più afflitto di me. Egli
aveva raggranellato di che vivere modestamente, e non si sapeva dar pace
che quegli altri non si fossero degnati neppure di lasciarmi nella sua
condizione.
- Carnefici! -
esclamava: lui che mi aveva tratto sangue, a mala pena, zitto zitto, con
uno spillo.
E più d'una volta,
vedendomi un po' troppo pallido, volle trascinarmi per forza in casa sua a
desinare; e lui non mangiava, dalla bile che lo rendeva furibondo contro
quegli altri.
Io stavo zitto e
ascoltavo Marta che, fin d'allora, cominciò a darmi scuola di saggezza.
Ella difendeva contro il marito i miei carnefici.
- Siamo giusti! -
diceva. - Con qual diritto possiamo pretendere che gli altri si curino di
noi, quando noi continuamente dimostriamo di non aver nessuna cura di noi
stessi? La roba del signor Fausto era roba di tutti, e ciascuno se l'è
presa. Non è tanto ladro il ladro, quanto, - scusi signor Bandini, -
quanto è imbecille chi si lascia rubare.
E qualche altra
volta diceva, come infastidita:
- E zitto, via,
Santi! Imita il signor Bandini che almeno se ne sta zitto, perché sa
bene, ora, che non può lagnarsi di nessuno. Se egli infatti, senza che
gli spettasse, pensò sempre agli altri, che meraviglia, che questi altri
abbiano pensato a sé? Ha dato lui l'esempio, e gli altri lo hanno
seguito. Per me, il signor Bandini è stato il più gran ladro di se
stesso.
- E dunque, in
prigione? - le domandavo io, sorridendo.
- In prigione, no.
Ma in qualche altro ospizio, sì.
Santi si ribellava.
Il diverbio s'accendeva, e invano io tentavo di metter pace dichiarando
che, alla fin fine, quei tali il più gran male non lo avevano fatto a me
che sapevo adattarmi a vivere comunque, ma alla povera gente che aveva
bisogno del mio aiuto.
- E lei dunque, -
ribatteva Marta, - non ha fatto male soltanto a sé, ma anche agli altri.
Ne conviene? Non pensando a sé, non ha pensato neanche agli altri. Doppio
male! E non ne segue che tutti coloro che pensano soltanto a sé e fanno
in modo di non aver mai bisogno d'alcuno, per questo soltanto dimostrano
di pensare anche agli altri? Che farà lei adesso? Ha bisogno degli altri,
ora. E crede che sarà per tutti un beneficio il dover mostrarsi grati?
- O che ti scappa di
bocca, pettegola? - scattava Santi a queste parole, temendo non mi
paressero un raffaccio di quel po' d'aiuto ch'egli con tutto il cuore mi
prestava.
Marta, placida e
commiserandolo con lo sguardo, gli rispondeva:
- Non dico per te.
Che c'entri tu, Santi mio, che sei un pover'uomo da bene?
E veramente! Se lo
avessi lasciato fare secondo il suo affetto e la considerazione sua, mi
sarei ridotto a vivere giorno e notte con lui. Non mi soleva lasciare un
sol momento, e mi chiedeva per grazia ch'io fossi contento di accettare i
suoi servizii doverosi. Povero Santi! Ma, con la povertà, i fumi della
follia non m'erano per anche svaporati. Non volevo esser di peso a nessuno
de' miei antichi beneficati, e con garbo compassionevole mi portavo a
spasso i miei cenci e la mia miseria e intanto cercavo di procacciarmi un
lavoro qual si fosse, anche manuale, che mi desse modo di soddisfare ai
miei pochi bisogni.
Ma neppur questo
garbava alla mia saggia maestra:
Lavorare? - mi
diceva. - Bell'espediente! Lei non era nato per questo, e ora toglierà,
senza volerlo, il posto a un poveretto che forse si sarà incamminato per
la via di quell'impiego che lei va cercando.
Mi voleva dunque
morto, la buona amica? Quel suo ragionamento mi colpì e, non volendo
togliere il posto a nessuno, me ne andai lontano, a chieder ricetto a una
famiglia di contadini, già miei dipendenti, ai quali di notte, in cambio,
guardavo nel bosco la carbonaia, con la scusa che non riuscivo mai a
prender sonno. Là, dopo alcuni mesi, mi giunse la notizia che il povero
Santi Bensai era morto di un colpo. Lo piansi come un fratello! Dopo circa
un anno, la vedova mandò a cercare di me. M'ero ridotto così male, che
non volevo assolutamente presentarmi a lei.
Ora Marta non vuol
dare a sé il merito di avermi salvato; ma, se è vero che il buon Santi
lasciò nel testamento una calda raccomandazione per me alla moglie, è
anche vero che ella poteva non tenerne conto.
- No, no, - mi
ripete lei - ringrazia Santi, buon'anima, che ebbe almeno l'accortezza di
metter da parte questo poco denaro ch'era tuo, per la nostra vecchiaia.
Vedi? quello che tu non sapesti fare, lo fece lui per te. Peccato che gli
mancasse il coraggio, poverino!
E così io ora,
savio, godo il frutto, scarso, della più savia tra le virtù: la
previdenza d'un mio povero ladro riconoscente e da bene. |