LUMIE DI
SICILIA
- Teresina sta qui?
Il cameriere, ancora
in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò
da capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della
scala: campagnolo all'aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin
su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un
sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso.
- Teresina? E chi è?
- domandò a sua volta, inarcando le folte ciglia giunte, che parevano due
baffi rasi dal labbro e appiccicati lì per non perderli.
Il giovanotto scosse
prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di
freddo, poi rispose:
- Teresina, la
cantante.
- Ah, - esclamò il
cameriere, con un sorriso d'ironico stupore: - Si chiama così,
senz'altro, Teresina? E voi chi siete?
- C'è o non c'è? -
domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. - Ditele
che c'è Micuccio e lasciatemi entrare.
- Ma non c'è
nessuno a quest'ora, - rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le
labbra. - La signora Sina Marnis è ancora a teatro e...
- Anche zia Marta? -
lo interruppe Micuccio.
- Ah, lei è il
nipote?
E il cameriere si
fece subito cerimonioso.
- Favorisca allora,
favorisca. Non c'è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco
non ritorneranno. È la serata d'onore di sua... come sarebbe di lei, la
signora? cugina, allora?
Micuccio restò un
istante impacciato.
- Non sono... no,
non sono cugino, veramente. Sono... sono Micuccio Bonavino; lei lo sa.
Vengo apposta dal paese.
A questa risposta il
cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e
riprendere il voi; introdusse Micuccio in una camerette al buio
presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e gli disse:
- Sedete qua. Adesso
porto un lume.
Micuccio guardò
prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla;
guardò poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero,
apparecchiava da cena. L'odor misto delle vivande in preparazione lo
vinse: n'ebbe quasi un'ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno
dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno
intero in ferrovia.
Il cameriere recò
il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a
una funicella da una parete al l'altra, borbottò tra il sonno:
- Chi è?
- Ehi, Dorina, su! -
chiamò il cameriere. - Vedi che c'è qui il signor Bonvicino.
- Bonavino, -
corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita.
- Bonavino,
Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla
porta e non senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io,
capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente che viene.
Un ampio sonoro
sbadiglio, protratto nello stiramento delle membra e terminato in un
nitrito per un brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il
quale s'allontanò esclamando:
- E va bene!
Micuccio sorrise, e
lo seguì con gli occhi, attraverso un'altra stanza in penombra, fino alla
vasta sala in fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò
meravigliato a contemplare, finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare
a guardar la cortina.
Il cameriere, col
tovagliolo sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro
Dorina che seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo,
chiamato per l'avvenimento di quella sera, e lo infastidiva chiedendo di
continuo spiegazioni. Micuccio, per non infastidirlo anche lui, stimò
prudente ricacciarsi dentro tutte le domande che gli veniva di
rivolgergli. Avrebbe poi dovuto dirgli o fargli intendere ch'era il
fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non sapendone il perché lui
stesso; se non forse per questo che quel cameriere allora avrebbe dovuto
trattar lui, Micuccio, da padrone, ed egli, vedendolo così disinvolto ed
elegante, quantunque ancor senza marsina, non riusciva a vincere
l'impaccio che già ne provava solo a pensarci. A un certo punto però,
vedendolo ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:
- Scusi... questa
casa di chi è?
- Nostra, finché ci
siamo, - gli rispose in fretta il cameriere.
E Micuccio rimase a
tentennare il capo.
Perbacco, era vero
dunque! La fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran
signore, il cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi
tutti agli ordini di Teresina. Chi l'avrebbe mai detto?
Rivedeva col
pensiero la soffitta squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina
abitava con la madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se
non fosse stato per lui, mamma e figlia sarebbero morte di fame. E l'aveva
scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava
sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava
per dispetto, cantava per non pensare alla miseria a cui egli cercava di
sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli movevano in casa i
genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonai Teresina in quello
stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla,
mentre lui, bene o male, un posticino ce l'aveva, di sonator di flauto nel
concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?
Ah, era stata una
vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso
alla voce di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata
d'aprile, presso la finestra dell'abbaino che incorniciava vivo vivo
l'azzurro del cielo. Teresina canticchiava un'appassionata arietta
siciliana, di cui Micuccio ricordava ancora le tenere parole. Era triste
Teresina, quel giorno, per la recente morte del padre e per l'ostinata
opposizione dei parenti di lui; e anch'egli - ricordava era triste, tanto
che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare. Pure tant'altre
volte l'aveva sentita, quell'arietta; ma cantata a quel modo, mai. N'era
rimasto così impressionato, che il giorno appresso, senza prevenire né
lei né la madre, aveva condotto con se, su nella soffitta, il direttore
del concerto, suo amico. E così erano cominciate le prime lezioni di
canto, e, per due anni di fila egli aveva speso per lei quasi tutto il suo
stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte di
musica e qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni
lontani! Teresina ardeva tutta nel desiderio di spiccare il volo, di
lanciarsi nell'avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e,
frattanto, che carezze di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua
gratitudine, e che sogni di felicità comune!
Zia Marta, invece,
scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera
vecchietta, che ormai non aveva più fiducia nell'avvenire: temeva per la
figliola, e non voleva che ella pensasse neppure alla possibilità di
togliersi da quella rassegnata miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che
costava a lui la follia di quel sogno pericoloso.
Ma né lui né
Teresina le davano ascolto, e invano essa si era ribellata quando un
giovane maestro compositore, avendo udito Teresina in un concerto, aveva
dichiarato che sarebbe stato un vero delitto non darle migliori maestri e
una compiuta educazione artistica: a Napoli, bisognava mandarla al
conservatorio di Napoli a qualunque costo.
E allora lui,
Micuccio, senza pensarci due volte, l'aveva rotta coi parenti, aveva
venduto un poderetto lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato
Teresina a Napoli a compiere gli studi.
Non l'aveva più
riveduta, da allora. Lettere, sì... aveva le sue lettere dal
conservatorio e poi quelle di zia Marta, quando già Teresina si era
lanciata nella vita artistica, contesa dai principali teatri, dopo
l'esordio clamoroso al San Carlo. A piè di quelle tremule incerte lettere
raspate alla meglio su la carta dalla povera vecchietta c'eran sempre due
paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo di scrivere: «Caro
Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta' sano e voglimi bene».
Eran rimasti d'accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di
tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano
aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le aveva
sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i
suoi parenti scagliavano contro Teresina e la madre. Poi s'era ammalato;
era stato per morire; e in quell'occasione, a sua insaputa, zia Marta e
Teresina avevano inviato al suo indirizzo una buona somma
di danaro: parte se
n'era andata durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a
viva forza dalle mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a
ridarlo a Teresina. Perché, denari - niente! egli non ne voleva. Non
perché gli paressero elemosina, avendo egli già speso tanto per lei;
ma... niente! non lo sapeva dire lui stesso, e ora più che mai, lì, in
quella casa... - denari, niente! Come aveva aspettato tant'anni, poteva
ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva d'avanzo, segno che
l'avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che l'antica promessa
s'adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.
Micuccio sorse in
piedi, con le ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa
conclusione; si soffiò di nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per
terra.
- Freddo? - gli
disse, passando, il cameriere. - Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in
cucina. Starete meglio.
Micuccio non volle
seguire il consiglio del cameriere che, con quell'aria da gran signore, lo
sconcertava e l'indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato.
Poco dopo, una forte scampanellata lo scosse.
- Dorina, la
signora! - strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la
marsina, mentre correva ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per
seguirlo, s'arrestò di botto per intimargli:
- Voi state qua;
prima lasciate che la avverta.
- Ohi, ohi, ohi... -
si lamentò una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve
un donnone tozzo, affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva
ancora a spiccicar gli occhi, con uno scialle di lana fin sopra il naso, i
capelli ritinti d'oro.
Micuccio stette a
mirarla allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d'occhi in faccia
all'estraneo.
- La signora, -
ripeté Micuccio.
Allora Dorina
riprese d'un subito coscienza:
- Eccomi, eccomi...
- disse, togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e
adoperandosi con tutta la pesante persona a correr verso l'entrata.
L'apparizione di
quella strega ritinta, l'intimazione del cameriere diedero a un tratto a
Micuccio, avvilito, un angoscioso presentimento. Sentì la voce stridula
di zia Marta:
- Di là, in sala!
in sala, Dorina!
E il cameriere e
Dorina gli passarono davanti, reggendo magnifiche ceste di fiori. Sporse
il capo a guardare, in fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in
marsina, che parlavano confusamente. La vista gli s'annebbiò: era tanto
lo stupore, tanta la commozione, che non s'accorse egli stesso che gli
occhi gli si erano riempiti di lagrime: li chiuse, e in quel bujo strinse
tutto in sì, quasi per resistere allo strazio che gli cagionava una lunga
squillante risata. Era di Teresina? Oh Dio, e perché rideva così, di là?
Un grido represso
gli fece riaprir gli occhi, e si vide davanti - irriconoscibile - zia
Marta, col cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida
mantiglia di velluto.
- Come! Micuccio...
tu qui?
- Lia Marta... -
esclamò Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.
- Come mai! - seguitò
la vecchietta, sconvolta. - Senza avvertire? Che è stato? Quando sei
arrivato? Giusto questa sera... Oh Dio, Dio...
- Son venuto per...
- balbettò Micuccio, non sapendo più che dire.
- Aspetta! - lo
interruppe zia Marta. - Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente,
figliuolo mio? È la festa di Teresina, la sua serata... Aspetta, aspetta
un po' qua...
- Se voi, - si provò
a dir Micuccio, a cui l'angoscia stringeva la gola, - se voi credete che
me ne debba andare...
- No, aspetta un
po', ti dico, - s'affrettò a rispondergli la buona vecchietta tutta
imbarazzata.
- Io però, -
riprese Micuccio, - non saprei dove andare in questo paese... a questa
ora...
Zia Marta lo lasciò,
facendogli con una mano inguantata segno d'attendere, ed entrò nella
sala, nella quale poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine: vi
s'era fatto d'improvviso silenzio. Poi Udì, chiare, distinte, queste
parole di Teresina:
- Un momento,
signori.
E di nuovo la vista
gli s'annebbiò, nell'attesa ch'ella comparisse. Ma Teresina non comparve,
e la conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti
che a lui parvero eterni, zia Marta senza cappello, senza mantiglia, senza
guanti, meno imbarazzata.
- Aspettiamo un po'
qua, sei contento? - gli disse. - io starò con te... Adesso si fa cena...
Noi ce ne staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e
ceneremo insieme, qua; ci ricorderemo de' bei tempi, eh?... Non mi par
vero di trovarmi con te, figlietto mio, qua; qua, appartati... Lì,
capirai, tanti signori... Lei, poverina, non può farne a meno... La
carriera, m'intendi? Eh, come si fa! Li hai veduti i giornali? Cose
grandi, figlio mio! Ma io... io, come sopra mare sempre... Non mi par vero
che me ne possa star qua con te, stasera.
E la buona
vecchietta, che aveva parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a
Micuccio di pensare, alla fine sorrise e si stropicciò le mani,
guardandolo, intenerita.
Dorina venne ad
apparecchiare la tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il
pranzo era cominciato.
- Verrà? - domandò
cupo, Micuccio, con voce angosciata. - Dico, per vederla almeno.
- Certo che verrà,
- gli rispose subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l'impaccio. -
Appena avrà un momentino di largo: già me l'ha detto.
Si guardarono tutt'e
due e si sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso
l'impaccio e la commozione le loro anime avevano trovato la via per
salutarsi con quel sorriso. « Voi siete zia Marta » - dicevano gli occhi
di Micuccio. - « E tu, Micuccio, il mio caro e buon figliuolo, sempre lo
stesso, poverino! » - dicevano quelli di zia Marta. Ma subito la buona
vecchietta abbassò i suoi, perché Micuccio non vi leggesse altro. Si
stropicciò di nuovo le mani e disse:
- Mangiamo, eh?
- Ho una fame, io! -
esclamò, tutto lieto e raffidato, Micuccio.
- La croce, prima:
qua posso farmela, davanti a te, - aggiunse la vecchietta con aria
birichina, strizzando un occhio, e si segnò.
Il cameriere venne a
offrir loro il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare
come faceva zia Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la
sua volta, nel levar le mani, pensò che le aveva sporche dal lungo
viaggio, arrossì, si confuse, alzò gli occhi a sogguardare il cameriere,
il quale, compitissimo ora, gli fece un lieve inchino col capo e un
sorriso, come per invitarlo a servirsi. Fortunatamente zia Marta venne a
trarlo d'impaccio.
- Qua qua, Micuccio,
ti servo io.
Se la sarebbe
baciata dalla gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu
allontanato, si segnò anche lui in fretta.
- Bravo figliuolo! -
gli disse zia Marta.
Ed egli si sentì
beato, a posto, e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita
sua, senza più pensare alle sue mani, né al cameriere.
Tuttavia, ogni qual
volta questi, entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri
e veniva di là come un'ondata di parole confuse o qualche scoppio di
riso, egli si voltava turbato e poi guardava gli occhi dolenti e
affettuosi della vecchina, quasi per leggervi una spiegazione. Ma vi
leggeva invece la preghiera di non chieder nulla per il momento, di
rimettere a più tardi le spiegazioni. E tutt'e due di nuovo si
sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese lontano,
d'amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.
- Non bevi?
Micuccio stese la
mano per prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si
riaprì: un fruscio di seta, tre passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi
la camerette si fosse d'un tratto violentemente illuminata, per accecarlo.
- Teresina...
E la voce gli morì
sulle labbra, dallo stupore. Ah, che regina!
Col volto in fiamme,
gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla,
istupidito. Come mai ella... così? Nudo il seno, nude le spalle, le
braccia nude... tutta fulgente di gemme e di stoffe... Non la vedeva, non
la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva?
Non la voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla più riconosceva di
lei, in quell'apparizione di sogno.
- Come va? Stai bene
ora, Micuccio? Bravo, bravo... Sei stato malato, se non m'inganno... Ci
rivedremo tra poco... Tanto, qui hai con te la mamma... Siamo intesi, eh?
Teresina scappò via
in sala, tutta frusciante.
- Non mangi più? -
domandò timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di
Micuccio.
Questi si voltò
appena a guardarla.
- Mangia, -
insistette la vecchina indicandogli il piatto.
Micuccio si portò
due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a
trarre un lungo respiro.
- Mangiare?
E agitò più volte
le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più,
non posso. Stette ancora un pezzo silenzioso, abilito, assorto nella
visione di poc'anzi, poi mormorò:
- Come s'è fatta...
E vide che zia Marta
scoteva amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei, come
se aspettasse.
- Ma neanche a
pensarci più... - aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.
Vedeva ora, in quel
suo buio, l'abisso che s'era aperto tra loro due. No, non era più lei -
quella lì - la sua Teresina. Era tutto finito... da un pezzo, da un pezzo
ed egli, sciocco, egli stupido, se n'accorgeva solo adesso. Glielo avevano
detto là al paese, e lui s'era ostinato a non crederci... E ora, che
figura ci faceva a star lì, in quella casa? Se tutti quei signori, se
quel cameriere stesso avessero saputo che egli, Micuccio Bonavino, s'era
rotte le ossa a venire di così lontano, trentasei ore di ferrovia,
credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella regina, che risate,
quei signori e quel cameriere e il cuoco e il guattero e Dorina! Che
risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro cospetto, lì in sala,
dicendo: « Guardate, questo poveretto sonator di flauto, dice che vuoi
diventare mio marito! » Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma
come avrebbe potuto allora supporre che un giorno sarebbe divenuta così?
Ed era anche vero, sì, che egli le aveva schiuso quella via e le aveva
dato modo d'incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto
lontano, che egli, rimasto lì, sempre lo stesso, a sonare il flauto le
domeniche nella piazza del paese, come avrebbe più potuto raggiungerla?
Neanche a pensarci... E che cos'erano poi quei pochi quattrinucci spesi
allora per lei, divenuta adesso una gran signora? Si vergognava solo a
pensare che qualcuno potesse sospettare che egli, con la sua venuta,
volesse accampare qualche diritto per quei pochi quattrinucci miserabili.
Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro inviatogli da
Teresina durante la malattia. Arrossì: ne provò onta, e si cacciò una
mano nella tasca in petto della giacca, dove era il portafogli.
- Ero venuto, zia
Marta, - disse in fretta, - anche per restituirvi questo denaro che mi
avete mandato. Che ha voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che
Teresina è divenuta una..., sì, mi pare una regina! vedo che... niente!
neanche a pensarci più! Ma, questo denaro, no: non mi meritavo questo da
lei... È finita, e non se ne parla più... ma, denari, niente! Mi
dispiace solo che non sono tutti...
- Che dici,
figliuolo mio? - cercò d'interromperlo, afflitta e con le lagrime agli
occhi, zia Marta.
Micuccio le fe'
cenno di star zitta.
- Non li ho spesi
io: li hanno spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch'io ne
sapessi nulla. Ma vanno per quella miseria che spesi io allora... vi
ricordate? Non ci pensiamo più. Qua c'è il resto. E io me ne vado.
- Ma come? Così di
furia? - esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. - Aspetta almeno che
lo dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a
dirglielo...
- No, è inutile, -
le rispose Micuccio, deciso. - Lasciatela star li con quei signori; lì
sta bene, al suo posto. Io, poveretto... L'ho veduta; m'è bastato... O
piuttosto, andate pure... andate anche voi di là... Sentite come si ride?
Io non voglio che si rida di me... Me ne vado.
Zia Marta interpretò
nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto
di sdegno, un moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti -
vedendo sua figlia - dovessero d'un tratto concepire il più tristo dei
sospetti, quello appunto per cui ella piangeva inconsolabile, trascinando
senza requie il suo cordoglio segreto fra il tumulto di quella vita di
lusso odioso che disonorava sconciamente la sua stanca vecchiaia.
- Ma io, - le scappò
detto, - io ormai non posso più farle la guardia, figliuolo mio...
- Perché? - domandò
allora Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch'egli
non aveva ancora avuto; e si rabbujò in volto.
La vecchietta si
smarrì nella sua pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non
riuscì a frenar l'impeto delle lagrime irrompenti.
- Sì, sì, vattene,
figliuolo mio, vattene... - disse soffocata dai singhiozzi. - Non è più
per te, hai ragione... Se mi aveste dato ascolto!
- Dunque, - proruppe
Micuccio chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma
fu tanto accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà
portandosi un dito su le labbra, che egli si frenò e aggiunse con altro
tono, forzandosi a parlar piano: - Ah, lei dunque, lei... lei non è più
degna di me. Basta, basta, me ne vado lo stesso... anzi, tanto più,
ora... Che sciocco, zia Marta: non l'avevo capito! Non piangete... Tanto,
che fa? Fortuna, dicono... fortuna...
Prese la valigetta e
il sacchettino di sotto la tavola, e s'avviava per uscire, quando gli
venne in mente che lì, dentro il sacchetto, c'eran le belle lumìe
ch'egli aveva portato a Teresina dal paese.
- Oh, guardate, zia
Marta, - riprese.
Sciolse la bocca al
sacchetto e, facendo riparo d'un braccio, versò quei freschi frutti
fragranti sulla tavola.
- E se mi mettessi a
tirare tutte queste lumìe, - soggiunse, - sulla testa di quei
galantuomini là?
- Per carità, -
gemette la vecchina tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno
supplichevole di tacere.
- No, niente, -
riprese Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto.
- Le avevo portate a lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.
Ne prese una e la
accostò al naso di zia Marta.
- Sentite, zia
Marta, sentite l'odore del nostro paese... E dire che ci ho anche pagato
il dazio... Basta. A voi sola, badate bene... A lei dite così: « Buona
fortuna! » a nome mio.
Riprese la valigetta
e andò via. Ma per la scala, un senso d'angoscioso smarrimento lo vinse:
solo, abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal
suo paese; deluso, avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva
a dirotto. Non ebbe il coraggio d'avventurarsi per quelle vie ignote,
sotto quella pioggia Rientrò pian piano, rifece una branca di scala, poi
sedette sul primo scalino e appoggiando i gomiti su le ginocchia e la
testa tra le mani, si mise a piangere silenziosamente.
Sul finir della
cena, Sina Marnis fece un'altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la
mamma che piangeva anche lei, sola, mentre di là quei signori
schiamazzavano e ridevano.
- È andato via? -
domandò, sorpresa.
Zia Marta accennò
di sì col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto,
assorta, poi sospirò:
- Poverino...
Ma subito dopo le
venne di sorridere.
- Guarda, - le disse
la madre, senza frenar più le lagrime col tovagliolo. - Ti aveva portato
le lumìe...
- Oh, belle! -
esclamò Sina, con un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con
l'altra mano quanto più poteva portarne.
- No, di là no! -
protestò vivamente la madre Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala
gridando è - Lumìe di Sicilia! Lumìe di Sicilia! |