TANINO E
TANOTTO
Dai contadini che si recavano ogni giorno in città con
le mule cariche delle provviste della campagna, il barone Mauro Ragona
sapeva che la moglie seguitava a star male e che anche il figlio, ora,
s'era gravemente ammalato.
Della moglie non
gl'importava. Matrimonio sbagliato, contratto per sciocca ambizione
giovanile.
Figlio d'un
contadino arricchito, il quale, sotto il passato Governo delle due
Sicilie, s'era comprata col feudo la baronia, aveva sposato la figlia del
marchese Nigrelli, fin da bambina educata a Firenze, e che, a suo dire,
non comprendeva più il dialetto siciliano; pallida, bionda e delicata
come un fiore di serra. Robusto, tutto d'un pezzo, bruno di carnagione,
anzi nero come un africano, faccia dura, occhi duri, grossi baffi e
capelli fitti, crespi, nerissimi, egli ora si diceva contadino, e se ne
vantava.
Avevano capito
presto l'uno e l'altra che la loro convivenza era impossibile. Ella
piangeva sempre; senza ragione, credeva lui. Dal canto suo, egli
s'annoiava e, in risposta a quelle lagrime, sbuffava. Ma dalla loro unione
era nato un bambino, biondo, pallido e delicato come la madre, la quale
fin dai primi giorni se n'era mostrata gelosissima; tanto che egli non
aveva potuto mai toccarlo e nemmeno quasi guardarlo.
E allora egli s'era
allontanato dalla città senza darne né conto né ragione a nessuno. Per
fare il comodo suo. Se n'era andato lì nella sua campagna nativa; s'era
presa con se Bàrtola, la bella figlia d'un suo fattore morto l'anno
avanti, sana e gaja contadina, piena d'umile bontà, che aveva accolto
come un grande onore, come una vera degnazione l'amore del giovane
padrone; gli era nato un figliuolo anche da lei, ma bruno come lui, solido
e paffuto; e finalmente s'era sentito a posto.
La moglie,
contentissima.
S'erano guastati del
tutto, apertamente, per una stupida bizza: Mauro Ragona adesso lo
riconosceva. Vedendosi trattato d'alto in basso dalla moglie
aristocratica, nelle rare volte che si recava in città più per rivedere
il figlio che per lei, s'era sentito un giorno rimescolare il sangue. Ah
davvero ella sentiva tanto disprezzo per lui? davvero non lo riteneva
degno d'altra donna, che di quella Bàrtola che teneva in campagna ?
— Ti voglio! —
le aveva gridato, inasprito dalie sdegnose ripulse di lei. — Sei infine
mia moglie!
Ma ella s'era
ribellata fieramente a quella violenza che egli per puntiglio voleva
usarle. Accecato, il Ragona s'era lasciato spingere un po' troppo oltre
dall'amor proprio offeso, e finalmente se n'era andato, rompendo in una
sghignazzata.
— Quella lì, del
resto, vale cento volte più di te!
D'allora in poi, non
era più ritornato in città.
Non gli importava,
dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il
figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero
piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo,
il nome dei Ragona; sarebbe stato l'erede della sua ricchezza, e cresceva
intanto come un Nigrelli, lì, tutto della madre che forse gli parlava
male di lui, a tradimento, male del proprio padre, di cui il piccino non
poteva più, certo, ricordarsi. Se ne ricordava lui, però: ah era tanto
bello, come un angioletto, con quei ricci biondi e quegli occhi limpidi,
color di cielo. Chi sa intanto come s'era fatto, ora, dopo cinque anni...
- malato, ora, e gravemente... - E se fosse morto, se fosse morto, senza
conoscere il padre?
Bàrtola quei giorni
si teneva con sé, lontano, Tanotto, il figliuolo, vedendo il padrone così
aggrondato e in pensiero per quell'altro. Comprendeva, col suo cuore
devoto, che la vista di Tanotto, allegro e spensierato, non poteva riuscir
gradita in quei momenti al padrone; temeva che questi non facesse anche
qualche sgarbo al povero piccino innocente, non lo respingesse, come un
cagnolo importuno. Ella stessa s'arrischiava appena di domandargli
notizie.
— Non so nulla!
Non mi sanno dir nulla! — le rispondeva egli duramente, smaniando.
E Bàrtola non
s'offendeva di quella durezza. Pensava che era per il dolore del figlio, e
giungeva le mani, alzando gli occhi al cielo. La Vergine Santa doveva
farglielo guarire presto, quel bambino! Ella non poteva vedere così
angustiato il suo padrone.
—
Lasciala stare la Vergine, — le disse egli, un giorno, irritato. — Lo
so che a te piacerebbe che mio figlio morisse!
Bàrtola aprì le
braccia, sbarrò gli occhi, stupita, ferita nel cuore, quasi non sapendo
credere che il padrone avesse potuto pensar di lei una tal cosa.
— Che dice,
Vossignoria! — balbettò. E non sa che per il signorino darei anche la
vita di mio figlio?
Si coprì il volto
con le mani e si mise a piangere.
Il barone, poco
prima, standosi con la fronte appoggiata i vetri del balcone, aveva veduto
Tanotto su lo spiazzo davanti la villa scherzare col cane e coi tacchini,
e aveva fatto quel cattivo pensiero. Ora si pentiva d'averlo così
crudamente manifestato; ma invece di mostrare il suo pentimento a Bàrtola,
si stizzì del pianto che le aveva ingiustamente cagionato.
— Mio figlio non
deve morire! — gridò, serrando le pugna e scotendole in aria. — Non
deve morire! non voglio, capisci?
Ma sì che lo capiva
Bàrtola; capiva che per il padrone il figlio, il figlio vero era quello lì;
quest'altro, Tanotto, era figlio di lei, e basta - figlio d'una povera
contadina, il quale, morendo, si sarebbe levato di patire, di tante dure
fatiche si sarebbe levato, che già lo aspettavano; mentre quello lì, il
signorino, morendo (Dio liberi!) avrebbe fatto tanto guasto, perché era
ricco e bello e fatto per vivere e per godere, e il Signore avrebbe dovuto
sempre guardarglielo!
Sul tramonto di
quello stesso giorno, il barone Ragona fece sellare il cavallo e partì
per la città, con la scorta di due campieri.
Arrivò ch'era già
sera inoltrata, e trovò a casa il marchese Nigrelli, venuto apposta da
Roma, dove, da vecchio donnajuolo impenitente, dava fondo alle sue ultime
sostanze. Piccolo, asciutto, con la schiena quasi ingommata, i baffetti
lunghi ritinti e incerati, egli accolse il genero col solito garbo
cerimonioso, come se non sapesse nulla di nulla:
— Oh caro
barone... caro barone... — Riverisco, — grufò il Ragona, guardandolo,
cupo, negli occhi, e lasciandolo lì, con la mano protesa; poi, vedendo
che il marchese alzava quella mano per battergliela amorevolmente la
spalla, aggiunse, seccato: — Vi prego di non toccarmi. Dov'è mio
figlio?
— Eh, maluccio!
— sospirò il marchese, disinvolto, portandosi le mani alle punte dei
buffetti incerati. — Maluccio, caro barone... Venite, venite...
- Sta in camera con
la madre? - domandò, fermandosi, il Ragona.
— Eh no, —
rispose il Nigrelli. — S'è dovuto portar via, in un'altra camera, perché,
capite? ha bisogno d'aria, di molta aria, che ad Eugenia farebbe male. Si
tratta di tifo, purtroppo, caro barone... Tanto che io ho pensato...
— Ditemi dov'è!
— lo interruppe, brusco e smanioso, il barone. — Accompagnatemi!
Dopo cinque anni, si
sentiva come un estraneo nella propria casa; non si raccapezzava più tra
i cambiamenti che vi aveva apportato la moglie. Nella camera ove giaceva
il bambino, vide prima di tutto, accanto al letto, una suora di carità, e
se ne turbò profondamente.
— L'ho chiamata
io, — spiegò il marchese. — Volevo dirvi questo. Non potendo la
madre, qual più amorosa assistenza ?
E terminò la frase
in un sorriso grazioso rivolto alla giovane suora, che abbassò subito gli
occhi sotto le grandi ali bianche della cornetta.
— Ci sono qua io,
ora! — disse il barone, accostandosi al letto; poi, vedendo il piccino
ischeletrito, giallo come la cera, quasi calvo: — Figlio! — esclamò.
— Figlio! Figlio mio! — con tre sospiri, che parve gl'impietrassero il
cuore.
Il piccino lo
guardava dal letto, smarrito, sgomento, non sapendo chi fosse colui che lo
chiamava a quel modo. Egli comprese l'espressione di quello sguardo e
ruppe in singhiozzi.
— Sono tuo padre,
figlio mio! tuo padre, tuo padre, che ti vuol tanto bene...
E s'inginocchiò
accanto al lettuccio e cominciò a carezzare il visino sparuto del
figliuolo, a baciargli le manine, teneramente, qua e qua e qua, su tutti i
ditini, e poi sul dorso e poi su la palma che scottava di quella manina
cara, ischeletrita. Ah Dio, Dio, come scottava!
Non si staccò più
da quel lettuccio, né giorno né notte, per circa un mese. Licenziò la
suora di carità, quel cappellaccio che gli pareva di malaugurio; e
volle attender lui a tutte le cure, a tutte, senza darsi un momento di
requie, senza più chiuder occhio per notti e notti, rifiutando anche il
cibo, rifiutando ogni aiuto. Non domandò affatto notizie della moglie;
non volle neppur sapere di che male fosse inferma: non visse, in quei
giorni, che per il suo piccino, il quale, a poco a poco, per istintiva
gratitudine, al caldo di quell'amore sempre vigile, non seppe più fare a
meno di lui, e se lo teneva abbracciato, stretto stretto, e se lo
accarezzava, mentre egli sentiva soffocarsi dalla commozione.
Vinto il male, i
medici consigliarono al barone di portarsi il figlio in campagna, per
aiutare col cambiamento d'aria la convalescenza.
— Non c'era
bisogno che me lo consigliaste voi. Ci avevo pensato io prima, da me —
disse ai medici il Ragona.
E diede gli ordini
per la partenza, pensando a tutte le minuzie, perché il figliuolo
malatuccio avesse in campagna tutti i comodi e non avesse nulla a
desiderare.
Ma quando la moglie
inferma seppe di quei preparativi di partenza, temendo che il marito
volesse portarsi via il figlio per sempre, montò su le furie, e ci andò
di mezzo il povero marchese Nigrelli, che dovette correre per un pezzo
dall'uno all'altra, riferendo invettive, domande, risposte, che egli, da
gentiluomo compito, si sforzava d'attenuare, di verniciare alla meglio.
Il barone, a un
certo punto, tagliò corto.
— Oh insomma! Dite
a vostra figlia che io sono il padre e che comando io.
— Sì, ma voi...
ecco, lì in campagna avete... — si provò a obbiettare il marchese per
conto della figlia. — Sì, dico... la vostra situazione...
— Dite a vostra
figlia, — riprese con lo stesso tono il barone, — che io conosco il
mio dovere di padre, e tanto basta!
Difatti ai contadini
che venivano dalla campagna aveva ordinato di dire a Bàrtola che
lasciasse la villa e se ne andasse ad abitare con Tanotto nella casa
colonica, lì presso. Prima di partire stabilì con la moglie che il
figliuolo, d'ora innanzi, sarebbe stato con lui in campagna nei mesi
grandi, com'egli a modo dei contadini chiamava il tempo che corre dal
marzo al settembre, e l'inverno, i mesi piccoli, con lei in città.
Quell'ordine del
padrone era sembrato a Bàrtola giustissimo. Certo, venendo lì il
signorino, ella non poteva rimanere nella villa. Ma il padrone - senza
pensare a nulla di male doveva farle una grazia: concedere di servir lei
il signorino poiché nessun'altra donna prezzolata avrebbe potuto farlo
con più amore e con più zelo di lei. Sicura d'ottenere questa grazia
lavorò come un facchino per ripulir la villa e preparare la camera ove il
padrone avrebbe dormito insieme col padroncino.
Sentì cascarsi le
braccia però, il giorno dell'arrivo, allorché dalla carrozza vide
scendere una donna di servizio che pareva una signora, alla quale il
barone porse il figliuolo tutto avvolto in uno scialle, e nel veder poi
scendere da un altro carrozzino il cuoco e un guattero...
Eh che! La teneva
dunque in conto d'una femminuccia davvero? Neppure in cucina, neppure in
cucina la avrebbe dunque ammessa, per attendere ai più umili servizii? Le
vennero le lagrime agli occhi; ma il barone le rivolse uno sguardo così
imperioso, che ella subito si trattenne, chinò il capo e se n'andò a
piangere, col cuore spezzato, lassù, nella cameretta in cui s'era
allogata col figliuolo.
Pianse e pianse; poi
dalla finestra guardò nella poggiata di là Tanotto, che se ne stava per
la prima volta a guardia dei tacchini. Povero figliuolo! Lo aveva mandato
via lei, perché non désse fastidio al momento dell'arrivo. E già
cominciava per lui, così piccino, la fatica... Ma se il padrone, intanto,
la trattava a quel modo, se aveva condotto in campagna il signorino, forse
era segno che si era riconciliato con la moglie, e dunque ella se ne
sarebbe andata via, se ne sarebbe tornata in paese, presso la vecchia
madre, o a far la serva altrove. Tanotto poi, cresciuto, ci avrebbe
pensato lui a darle un tozzo di pane per la vecchiaia.
Deliberò di
licenziarsi subito; ma né quel giorno né i giorni seguenti poté
accostarsi al padrone, che era tutto intento al figliuolo. Stanca
d'aspettare in quelle condizioni d'animo, si disponeva a partire senza dir
nulla, di nascosto, quando il barone venne lui stesso a trovarla, lì
nella casa colonica.
— Che fai? — le
disse, vedendo il fagotto già preparato in mezzo alla camera.
— Se mi dà
licenza, — gli rispose Bàrtola, con gli occhi bassi, — me ne vado.
— Te ne vai? Dove?
Che dici?
— Me ne vado da
mia madre. Che sto più a farci qua, se Vossignoria non ha più bisogno di
me?
Il barone s'adirò;
la guardò un pezzo accigliato, severamente; poi socchiuse gli occhi e le
disse:
— Sta' quieta e
non mi seccare! Chi t'ha cacciato via? Ho di là mio figlio, e non ho
tempo né voglia di pensare ad altro.
Bàrtola diventò di
bragia e s'affrettò a rispondergli umilmente:
— Ma se
Vossignoria non ci pensa più, neanch'io ci penso, glielo giuro, e n'ho
piacere! Non parlo per questo: sarei una svergognata! Dico però che
potevo restar la serva di Vossignoria e del bambinello che è venuto
qua... L'ho forse scritta in fronte la mia vergogna? O non erano degne le
mie mani amorose di servirlo?
Proferì queste
parole con tanto accoramento che il barone n'ebbe pietà e le spiegò con
buona maniera le ragioni delicate per cui la aveva tenuta lontana. Il
ragazzo, poi, aveva bisogno di cure particolari, che ella forse non
avrebbe saputo prestargli.
Bàrtola scosse
amaramente il capo:
— E che ci vuol
arte, — disse, — per servire i bambini? Cuore ci vuole. E chi si sente
servito col cuore può farne a meno dell'arte. Non l'ho saputo crescere io
il mio figliuolo? E più che come un figliuolo l'avrei servito, il
signorino, perché, oltre l'amore, avrei avuto per lui il rispetto e la
devozione. Ma se Vossignoria non m'ha creduta degna, non ne parliamo più.
Dio che mi legge nel cuore, sa che non mi meritavo questo da Vossignoria.
Sia fatta la sua volontà.
Per cangiar discorso
e per farle piacere, il barone le domandò di Tanotto.
— Eccolo là! —
rispose Bàrtola, indicandoglielo dalla finestra, su la poggiata, tra i
tacchini. — Fa già il guardiano. Tutte le sere, tornando a casa, mi
domanda del signorino; si muore dal desiderio di vederlo, magari da
lontano, dice; vorrebbe portargli i fiori; ma io gli ho detto che il
signorino non si può vedere perché è malato, e che i fiori gli
farebbero male. Così s'è quietato.
Quietato? Tanotto,
lassù tra i tacchini, si scafava invece intere giornate per capacitarsi
come mai i fiori potessero far male a un bambino. Tranne,- pensava, - che
non fosse un bambino fatto d'un'altra maniera... Ma fatto... come?
Guardava i fiori: ecco, a lui non facevano male, eccetto quelli di cardo,
si sa, ch'erano spinosi; ma questi egli certo non li avrebbe offerti; non
li toccava nemmeno lui. Come doveva essere, dunque, quel bambino? E
meditava, escogitava il modo di vederlo, senza farsi vedere.
Non trovandone, e
non sapendo più resistere alla tentazione, un giorno piantò li su la
poggiata i tacchini e se ne venne su lo spiazzo davanti la villa a guardar
risolutamente ai balconi della camera dove dormiva il padrone. Sarebbero
state busse, certo, se la madre lo sorprendeva li col nasetto all'aria e
le mani dietro la schiena; ma egli voleva togliersi a ogni costo la
curiosità.
Attese un pezzo così,
e finalmente ecco dietro la vetrata d'un balcone la testa del bambino
misterioso. Tanotto restò allocchito, a mirarlo. Gli pareva fatto davvero
d'un'altra maniera, non sapeva dir come, e pensava che veramente, essendo
così, i fiori gli potessero far male. Anch'egli il piccino convalescente,
tanto pallido ancora e tanto gracile, coi capellucci che gli rispuntavano
appena, biondissimi, aerei, lo guardava incuriosito dai vetri del balcone;
ma poco dopo, dietro a que' vetri, apparve la figura del barone, e Tanotto
se la diede a gambe, spaventato. Si sentì più volte chiamare dalla voce
del padrone, e si fermò col cuore che gli galoppava in petto; si voltò e
si vide chiamato ancora, chiamato con le mani. Che fare? Tornò mogio
mogio su i proprii passi, e già infilava il portone della villa, quando
si vide sopra la madre, che lo afferrò per un orecchio e cominciò a
sculacciarlo con l'altra mano.
— M'ha chiamato il
padrone! Mi vuole il padrone! — strillava Tanotto, tra le sculacciate.
— Il padrone?
Dove? Quando? — gli domandò Bàrtola, sorpresa.
— Or ora, m'ha
chiamato dal balcone! — gli rispose Tanotto, acceso di rabbia e
piangente più per l'ingiustizia che per il dolore.
— Bene: vieni su;
voglio vedere, — riprese la madre, conducendolo con sé.
Tanotto entrò,
stropicciandosi gli occhi lagrimosi. Il barone gli era venuto incontro,
nella saletta d'ingresso, col figliuolo.
— Perché piangi,
Tanotto?
— L'ho picchiato
io, poverino, — rispose Bàrtola. Non sapevo che lo avesse chiamato
Vossignoria.
— Povero Tanotto,
— fece il barone, chinandosi a carezzargli i capelli fitti, crespi,
nerissimi, ch'erano tali e quali i suoi. — Su, su, basta ora... Vedete
di giocare un po' insieme, bonini eh?
I due ragazzi si
guardarono e si sorrisero; poi Tanotto, con gli occhi ancora lagrimosi e
il testoncino basso, si cacciò una mano in tasca, ne trasse alcune
conchiglie che aveva raccolto su la poggiata e le porse, domandando con un
singulto, eco del pianto recente:
— Le vuoi, se non
ti fanno male.
Bàrtola rise, ma
gli diede subito su la voce:
— Come si dice,
impertinente? Vuoi, si dice? E non sai che parli col signorino?
— Lasciali dire,
tra loro, — le disse il barone. — Sono ragazzi.
Ma Bàrtola, su
questo punto, non ostante la degnazione del padrone, non volle transigere,
e poco dopo rimproverò di nuovo Tanotto che domandava al signorino:
— Come ti chiami?
Il barone propose di
fare uscire per la prima volta il figliuolo all'aperto e di fargli fare
due passi per il viale. Bàrtola fu felice di portarlo in braccio giù per
la scala.
— Non pesa niente!
una piuma, una piuma... — diceva, lo baciava sul petto, amorosamente,
come una schiava.
— Ecco, — disse
il barone, a piè della scala, ai due ragazzi. — Prendetevi adesso per
le manine e andate pian piano sotto gli alberi. Così...
Tanotto e il
signorino s'avviarono con l'impaccio dei bambini che vanno per la prima
volta insieme tenendosi per nano. Tanotto, minore di circa due anni,
pareva tuttavia maggiore d'assai; lo guidava e lo proteggeva. Prese, dopo
un tratto, con la sua sinistra, la mano del bambino e gli portò la destra
a tergo per farlo camminar meglio. Quando si furono così allontanati
alquanto e non c'era più pericolo che fossero uditi, Tanotto domandò di
nuovo:
— Come ti chiami ?
— Tanino, come
nonno, — rispose l'altro.
— E allora come
me, — riprese Tanotto, ridendo. — Anch'io, Tanino come nonno; me l'ha
detto il fattore. A me però mi chiamano Tanotto perché sono grosso, e
mamma non vuole che si dica che mi chiamo come nonno.
Perché? — domandò
Tanino, impensierito.
Perché nonno io non
l'ho conosciuto, — rispose, serio, Tanotto.
— E allora come
me! — ripeté Tanino, ridendo a sua volta. — Neanche io l'ho
conosciuto nonno.
Si guardarono
sorpresi e risero insieme di questa bella trovata, come se fosse un caso
molto strano e, sopra tutto, un bel caso, da riderci su, a lungo,
allegramente. |