AL VALOR
CIVILE
Dicendo agli uomini: tigri, jene, lupi, serpi, scimmie
o conigli, Bruno Celèsia temeva di fare a quelle bestie un'ingiuria che
non si meritavano, perché ciascuna, conforme e obbediente alla propria
natura; mentre l'uomo! falso, l'uomo. E dunque, sputi in faccia, all'uomo,
e possibilmente calci in un altro posto!
- Lo so io che ci ho
qua dentro! - diceva, aggrondato, ponendosi una mano sul ventre.
- Un figliuolo?
- L'inferno,
canaglia!
E un cratere di
vulcano avrebbe voluto avere per bocca, parola d'onore! Il cratere
dell'Etna, per vomitare addosso all'umanità tutto quel fuoco che gli
ruggiva dentro.
Pur non di meno,
assistendo quel giorno dalla Piazza del Municipio alla solenne
distribuzione delle onorificenze al valor civile, Bruno Celèsia, fra sé
e sé non poteva non riconoscere sinceramente ch'era una bella e degna
festa.
Matricolato
imbroglione, quel sindaco, oh! Ma oratore nato. E più volte, durante il
magnifico discorso che esaltava le virtù native della gente siciliana,
ricordando gli atti eroici da essa compiuti, Bruno Celèsia s'era sentito
correre per la schiena un brivido elettrico. Con le dita irrequiete,
intanto, si cacciava in bocca e mordicchiava i peli dei baffoni o la punta
della ruvida barba crespa. A quando a quando, poi, rapidamente si passava
l'altra mano su la falda del farsetto lustro e inverdito. Perché? Ma
perché l'umanità è porca, ecco perché! Fatta tutti di figli di cane,
ecco perché! Era venuto in voga da alcuni giorni lo stupido scherzo
d'attaccar dietro alla gente con uno spillo un pezzetto di carta con un
motto sconcio o con uno sgorbio sguaiato. Già due volte, a lui, una testa
di cervo, e una mano che faceva le corna.
- Porci! Bravissimo!
La seconda
esclamazione era per il sindaco, che ricordava in quel momento ciò che il
popolo di Palermo aveva saputo fare nelle storiche giornate del suo
glorioso riscatto.
Finito fra
strepitosi applausi il discorso del sindaco, a cui il Celèsia,
infiammato, non aveva saputo tenersi dal tributare anche i suoi, cominciò
la premiazione.
Su l'ampio balcone
marmoreo del palazzo municipale, ove col sindaco tutto in sudore stavano
placidi, coi ventaglini in mano, i consiglieri comunali e le loro signore
e i maggiorenti del paese, si presentò dapprima un giovinetto bruno,
vigoroso, dagli occhi arditi, bellissimo, che due volte s'era cacciato in
una casa in fiamme per salvare una vecchia e un bambino.
La folla lo accolse
entusiasticamente.
- Viva Sghembri!
Viva Carluccio Sghembri!
Qualcuno osservò
che quei signori del municipio avrebbero fatto meglio a istituire un corpo
di pompieri, di cui il paese ancora difettava, e a far pompiere Carluccio
che se l'era meritato, invece di dargli quella medaglia al valor civile,
della quale, in fin dei conti, non avrebbe saputo che farsi, povero
facchino di porto che si rompeva la schiena tutto il giorno allo scarico o
agli imbarchi, sotto le balle di carbone e i pani di zolfo.
«Sei bello,»
borbottava fra sé Bruno Celèsia, ammirandolo, «ma cresci, caro, e
vedrai che fior di canaglia diventerai anche tu! Viva! Viva!»
Applaudiva intanto
con gli altri e si passava la mano su la falda del farsetto.
A uno a uno si
presentarono agli evviva della folla, per ricevere la loro medaglia, gli
altri quattro eroi della giornata.
- D'un momento, -
commentava sotto, tra la folla, il Celèsia. - Birbaccioni prima,
birbaccioni dopo... Tutta l'umanità... puàh! schifosa... Viva! Viva!
Terminata la
premiazione, la folla cominciò a sparpagliarsi. Bruno Celèsia vagò
ancora un pezzo, guardingo e sdegnoso, tra quel rimescolio di gente.
Ammirava i lampioncini variopinti, preparati per la luminaria della sera e
di tratto in tratto storceva la bocca.
- Se si mette lo
scirocco!
E alzava gli occhi
al cielo minaccioso, che a mano a mano s'infossava di più.
« Torniamocene a
casa, » disse a un certo punto, risolutamente, a se stesso, « perché
questo paese di cani, se no, è capace di credere e di proclamare che la
festa sarà guastata dalla pioggia, solo perché io oggi mi son fatto
vedere in piazza. »
Scorse da lontano
quella mala zeppa di suo padre che tante amarezze gli aveva cagionate e
che forse, per la terza volta, cercava lì, dentro le tasche del prossimo,
la via per tornarsene in catorbia donde era uscito da pochi mesi: voltò
sdegnosamente le spalle e s'avviò di fretta per rincasare.
« Dicono che le
ranocchie, » pensava andando, « usano di passar l'inverno nel fango dei
fossati. Mio padre, peggio: nel fango della vita, tutt'e quattro le
stagioni... »
S'era impegnati fino
gli occhi della testa per salvarlo, la prima volta. Ora non voleva più
vederlo neanche da lontano. Quel nome sporcato che portava da lui gli
bruciava la fronte come una bollatura di fuoco.
- Ma, del resto, non
l'ho svergognato soltanto io il tuo bel nome! - aveva pure avuto il
coraggio di buttargli in faccia il padre una volta. - Pensa a tua moglie,
piuttosto, che ne fa strazio da tanti anni pubblicamente.
E Bruno Celèsia
s'era morso a sangue una mano per non rispondere. Poiché sua moglie...
Ma, pubblicamente,
no: con uno solo.
Non l'aveva uccisa,
perché sicurissimo che peggio della morte sarebbe stato per lei l'amante,
il quale prima o poi l'avrebbe abbandonata, gettata in mezzo a una strada,
come un sacco d'immondizie. Che! Vivevano felici, maritalmente, quei due,
da tanti anni, e rispettati e riveriti da tutto il paese. E tre figliuoli
avevano, tanto carini... poveri innocenti: bastardelli! A lui, quella
buona femmina non aveva saputo dargliene neanche uno, legittimo... Non si
sarebbe sentito così solo, adesso... non avrebbe invidiato nessuno...
Sia, dopo tutto, forse meglio così. Nessuna cosa gli era andata a verso,
mai, nella vita: e fors'anche dai figli, se ne avesse avuti, chi sa quali
dispiaceri, quali e quanti dolori.
Destino. Eh via, sì,
destino: come non crederci? Che aveva fatto, lui, per essere così il
bersaglio di tutte le frecce, figlio, marito, cittadino; malvisto e
sfuggito da tutti, perché in fama di iettatore, e deriso, anziché
compianto, per le sue domestiche sventure?
Non s'era mai
gettato in imprese arrischiate: eppure, da quelle poche, sicure, che aveva
tentate era sempre uscito col danno e le beffe. Tanti s'erano arricchiti
prendendo in appalto la manutenzione dell'antemurale del porto: ci s'era
messo lui, e a botte di mare mezza scogliera, appena appena costruita,
volata via. Gli scogli gettati dagli altri appaltatori, il mare, sì, se
li era pigliati in santa pace, come tozzi di pane.
- Da Bruno Celèsia,
no; non me ne piglio.
Si poteva lottare
con quel bestione del mare? E s'era ridotto povero in canna. Per carità
aveva trovato un posticino di scritturale in un banco; ma ci voleva tutta
la sua pazienza per resistervi. Perché al principale non piaceva la sua
mano di scrittura; e a lui veniva proprio in punta in punta alla lingua di
rispondergli, che una vera porcheria era farle, certe cose, e non come lui
gliele scriveva sul registro.
Così riflettendo su
le sue sciagure, Bruno Celèsia si ridusse a casa.
Abitava all'estremità
del paese, dalla parte di ponente, dove la spiaggia svoltava sotto
l'altipiano marnoso per descrivere un'altra lunga lunata. Le poche case
che si allineavano lì, addossate all'altipiano, vicinissime al mare,
erano escluse dalla vista del paese, disposto a semicerchio, nell'altra
insenatura della spiaggia. E lì era pace, una gran pace quasi stupefatta
dall'infinito spettacolo del mare.
Dovette affrettare
gli ultimi passi, perché già la pioggia cominciava a cadere, e
infittiva. Il mare era inquieto, torbido, e gonfiava di punto in punto
sotto l'incombente minaccia del cielo gravido d'enormi nuvole nere. I
marosi, intumidendo, cominciavano a cozzare gli uni negli altri e non
riuscivano ancora a frangersi. Solo una breve spuma rabbiosa ferveva un
tratto, a strisce, su per le creste irte, qua e là.
- Vuol darci dentro
bene! - sospirò il Celèsia guardando dietro i vetri del balconcino.
Poco dopo, infatti,
il cielo incavernò, e fu per qualche momento una tetraggine attonita,
spaventevole. Di tratto in tratto, una raffica strisciava rapidissima su
la spiaggia e sollevava un turbine di rena. Il primo tuono finalmente
scoppiò, formidabile, e fu come il segnale della tempesta.
Bruno Celèsia
chiuse gli scuri, accese il lumetto a petrolio e andò a sedere alla
vecchia scrivania per riprendere, secondo il solito suo, la lettura d'un
grosso libraccio, ove era narrata la storia della scoperta dell'America. A
ogni nuovo scoppio di tuono si stringeva nelle spalle e stirava il collo:
- Forza, Domineddio!
Bombardiamo.
Gli s'affacciavano
alla mente quei poveri lampioncini variopinti, preparati per la luminaria,
e sogghignava.
Leggeva da circa
un'ora, quando gli parve di sentire, tra il fragorio incessante del mare,
urli su la spiaggia. Si recò al balcone, schiuse uno scuro e, a prima
giunta... un lampo che l'accecò! Tremendo spettacolo! Sì, sì... laggiù...
che era accaduto? C'era gente, tanta gente che si riparava alla meglio
dalle ondate che avventava il mare furibondo. Ecco, sì: urlavano! Che era
accaduto? Prese il cappello e corse a vedere.
Nell'orrendo
tenebrore fragoroso tremava qua e là su la spiaggia qualche lumino
spaventato di lanterna riparata da un mantello, da uno scialle: una gran
folla era accorsa laggiù, uomini e donne, i quali aspettavano trepidanti,
ansiosi, l’improvvisa luce d'un lampo per intravedere sul mare una barca
assaltata orribilmente dai flutti e dal vento. Alcuni intanto
s'affannavano a ripetere che sulla barca non c'era nessuno, che il mare se
l'era strappata dalla spiaggia, di là dall'antemurale, ov'era tirata a
secco; altri invece giuravano e spergiuravano di avervi scorto un uomo che
gestiva così... così... e rifacevano i gesti disperati; e altri
riferivano che molte lance erano uscite quel giorno dal porto, dirette ai
bagni di San Leone, fra le quali qualcuna poteva essere stata sorpresa
dalla tempesta, sul ritorno.
- Eccola! Eccola! -
si gridò a un tratto, da tutte le parti, a un ampio palpito repentino di
livida luce.
Ma subito il tuono
rimbombò tremendo, e coprì gli urli della folla. Nella cresciuta oscurità
la tempesta convolse animi e cose più spaventosamente di prima di tra la
furia del vento e del mare.
Cessato il rimbombo,
i commenti ripresero come sperduti, lontani:
- Sì, sì! C'era,
c'era un uomo sulla barca... chiedeva aiuto, aiuto! - Tutti questa volta
lo avevano veduto.
- E chi va? - gridò
Bruno Celèsia. - Gli eroi di quest'oggi dove sono?
Ma quanto più
ciascuno sentiva il bisogno di far qualcosa, tanto più l'animo sul punto
mancava, e tutti gridavano aiuto, quanto loro usciva dalla gola, come se
l'aiuto non dovesse partire da loro. Al sarcastico richiamo del Celèsia,
qualcuno infine gridò tra la folla:
- Eccomi! A me una
barca!
E, facendosi largo,
quasi rabbiosamente, si fece avanti, risoluto e pronto al nuovo cimento,
Carluccio Sghembri.
Subito il Celèsia,
in un impeto d'ammirazione, gli buttò le braccia al collo e lo baciò in
fronte, piangendo, esclamando:
- Figlio di Dio! Ma
no! tu no! tu non devi andare! Qua a me la barca! Vado io!
E cominciò a
spogliarsi di furia. Lo Sghembri si opponeva.
- Vado io - incalzò
imponendosi alla folla, Bruno Celèsia. - Nessuno s'arrischi
d'impedirmelo... Vattene tu! La tua medaglia te la sei guadagnata! Tocca a
me! Lasciatemi, vi dico! Nuoto benissimo! Vado io! La vita per me non ha
più prezzo! Lasciatemi andare!
Un vecchio marinaio
recò di corsa un salvagente legato a una gomena; altri intanto avevano
spinto su la spiaggia una barchetta Bruno Celèsia vi saltò dentro, nudo.
Subito il mare con un'ondata furiosa si rapì la barchetta. Fu un grido
d'orrore. Ingoiato dalla tenebra, Bruno Celèsia era sparito sul mare.
- Molla! Molla! - si
gridò al marinaio che reggeva la gomena.
Più viva, più
smaniosa, ora, nell'angoscia, si fece l'attesa d'un nuovo baleno. Pareva
intanto che il cielo lo facesse apposta: tenebra e fragore che toglievano
il respiro! Tutti, per sottrarsi in qualche modo a quell'orrenda
trepidazione, avrebbero voluto attendere alla gomena che si svolgeva man
mano da sé, lì, come cosa viva, al lume tremolante delle lumiere
riparate dai mantelli.
- Largo! Largo!
Lasciatela libera!
Un lampo.
- Eccolo! Eccolo! -
si gridò di nuovo; e subito le voci furono come ingoiate dalla tenebra
sopravvenuta più fitta.
Ma lo avevano
scorto, lì, presso l'altra barchetta. L'ansia divenne angosciosa.
- Lo salva! Lo
salva!
E le donne
singhiozzavano, e gli uomini irrequieti, tremanti, nell'angosciosa
sospensione, imponevano silenzio, come se potesse giovare. A un certo
punto, parve che la gomena, lì per terra, non si movesse più. Il
marinaio la prese in mano; attese un tratto; poi gridò, piangendo al
colmo della gioia:
- Ecco, tira! Fa
leva! fa leva!
Tutti allora si
precipitarono ad afferrar la gomena, giubilanti, esultanti.
Un altro lampo...
- Eccolo! Forza!
Forza! Viene! Evviva! Evviva!
E, poco dopo, Bruno
Celèsia venne ad urtare con la barchetta contro la spiaggia.
- Salvo! Salvo! Qua
dentro la barca! Tirate! Respira ancora!
Un trionfo. Ma
quando la folla poté riconoscere il naufrago...
Ecco. Non basta
tante volte alla sorte perseguitare un pover'uomo fino a rendergli la vita
impossibile; vuole anche apporre a ogni persecuzione come un suggello di
scherno.
Bruno Celèsia aveva
salvato l'amante di sua moglie. |