IL VECCHIO
DIO
Smilzo, un po' curvo, con un abitino di tela che gli
sventolava addosso, l'ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in
mano, il signor Aurelio s'avviava ogni giorno per la sua speciosa
villeggiatura.
Un posto aveva
scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne
beava tra sì e sì, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose.
Chi sui monti, chi
in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no?
Non ci si sta forse freschi più che in un bosco? E in santa pace, anche.
Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lì, all'ombra delle
frondi; qui, all'ombra del Signore.
— Eh, come si fa?
Ci vuol pazienza.
Aveva anche lui, un
tempo, una bella campagna sotto Perugia, ricca di cipressetti densi, e
lunghesso il canale quell'eleganza di gracili salci violetti e tanto dolce
azzurro d'ombra che dilaga; la magnifica villa, con dentro una preziosa
raccolta d'oggetti d'arte: ah, quella poi! invidiato decoro di casa Vetti.
Gli
restavano le chiese, ora, per villeggiare.
— Eh, come si fa?
Ci vuol pazienza.
Da parecchi anni a
Roma, non gli era ancora riuscito di visitarne tutte le chiese più
famose. L'avrebbe fatto quest'anno per villeggiatura.
Speranze, illusioni,
ricchezza e tant'altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il
cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch'era, tra il
buio angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un
lanternino ch'egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida
cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in
mezzo al rimescolio della vita, e nessuno più si curava di lui.
— Non importa: Dio
mi vede! — si esortava in cuor suo.
E n'era proprio
sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo
lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che
sgomentarlo, lo confortava.
Le
strade, sotto il cocente sole, erano quasi deserte. Tuttavia per lui c'era
sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendolo
passare col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul
mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch'essa su la nuca, gli
lanciava qualche lazzo.
— Guarda oh: due
barbette! una davanti e l'altra dietro!
Ma il cappello in
capo, d'estate, il signor Aurelio non lo poteva sopportare. Sorrideva
anche lui al lazzo e affrettava, quasi senza volerlo, quei suoi passettini
da pernice, per levar la tentazione d'un altro lazzo a quegli oziosi.
— Eh, come si fa?
Ci vuol pazienza.
Entrando nella
chiesa designata quel giorno per villeggiatura, voleva prima di tutto
goder della giunta: sedere. E traeva un gran respiro; s'asciugava il
sudore; poi, con diligenza, ripiegava in quattro il fazzoletto e se lo
poneva in capo, così ripiegato, per riguardarsi dall'umida frescura.
Qualche rara divota
che si voltava appena a spiarlo, vedendolo con quel buffo copricapo,
sbruffava tra sé una risatina.
Ma il signor
Aurelio, in quel momento, si sentiva beato, respirando quell'umido
insaporato d'incenso che stagnava nella solenne vacuità silenziosa
dell'interno sacro; né gli nasceva il sospetto che qualcuno, pur lì,
nella casa di Dio, potesse provar gusto a ridere di lui.
Riposatosi un po',
si metteva a esaminare la chiesa, pian pianino, come uno che ci abbia da
passar la giornata. E ne studiava con amorosa attenzione l'architettura,
le singole parti. Si fermava davanti a ogni pala d'altare, a ogni opera
musiva, a ogni cappella, a ogni monumento funerario, e con l'occhio
esperto scopriva subito le peculiarità del tempo, della scuola a cui
l'opera d'arte doveva ascriversi e se era sincera o deturpata da toppe e
rimessi di restauri infelici. Poi tornava a sedere; e se in chiesa, come
spesso avveniva a quell'ora, di quella stagione, non c'era altri che lui,
ne approfittava per segnar rapidamente in un modesto taccuino qualche
nota, un dubbio da chiarire, le sue impressioni.
Soddisfatta così la
prima curiosità e adempiuto per quel giorno il compito d'arte che si era
prefisso, traeva di tasca qualche libretto d'amena lettura, che per la
dimensione poteva parere un libro di preghiere, e si metteva a leggere. Di
tanto in tanto levava il capo per riassumere o ungersi davanti agli occhi
la scena descritta dal poeta. E con quella lettura di libri profani non
temeva d'offendere la casa del Signore. Secondo il suo modo di vedere, Dio
non poteva aversi a male delle cose belle create dai poeti per innocente
delizia degli uomini.
Stanco della lettura
s'abbandonava, con gli occhi fissi nel vuoto e strofinando a lungo tra
loro l'indice e il pollice delle due manine, alle proprie fantasie o ai
ricordi degli anni perduti. Talvolta, mentre fantasticava così, tutto
assorto, gli s'avvistava da una nicchietta nel pilastro di fronte qualche
busto che pareva se ne stesse lì affacciato a guardare in chiesa.
— Oh! — faceva
allora, tentennando il capo con un sorriso. — Te beato, amico mio. Si
sta bene da morti?
E si levava di nuovo
per leggere nell'inscrizione funeraria il nome di quel sepolto, poi
tornava a sedere e si metteva a conversare con lui mentalmente,
guardandolo.
— Siamo qua, caro
il mio Hieronymus! Peccato che non sia più permesso farsi seppellire in
chiesa. Mi farei scavare una bella nicchietta nel pilastro di fronte e, tu
di là, io di qua, tutti e due affacciati, sentiresti che belle
conversazioncine! Ce l'hai di buon uomo, la faccia, poveretto, e certi
guai perciò mi conteresti. Mah! Come si fa? Ci vuol pazienza. Mi sembra
però che in chiesa ci si debba star meglio, da morti. Questo buon odor
d'incenso; e messe e preghiere tutti i giorni. Nel camposanto, se vogliamo
dirla, ci piove.
La morte però,
anche lì nel camposanto, eh... una liberazione; quando sulla terra, più
che per viver bene, ci si duri per prepararsi a morir senza paura. Premii
di là, il signor Aurelio, non se n'attendeva; gli bastava portarsi di
qua, fino all'ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto
il male per volontà. Conosceva i dubbii tenebrosi accumulati dalla
scienza come tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà
della morte, sì per averne fatta lettura in qualche libro, e sì per
averli quasi respirati nell'aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi
giorni, anche per lui, credente, non potesse più esser quello che in sei
dì aveva creato il mondo, e s'era nel settimo riposato.
Quella
mattina, entrando in chiesa, era rimasto meravigliato dell'aspetto del
sagrestano, bel vecchio enormemente barbuto e capelluto e orgoglioso di
quel barbone lanoso e di quella chioma partita nel mezzo e ondulata su le
spalle e nei cernecchi. Bella, la testa soltanto. Il corpo tozzo, curvo,
cadente, pareva penasse a sorreggerla, con tutto quel volume di peli.
Ora, il signor
Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando
amaramente ai meschini profitti dell'anima in questo tanto decantato
secolo dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell'intatta fede dei
padri, a poco a poco s'addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco
che gli venne innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la
testa enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli
sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti
seduti sul muretto davanti ai gerontocomii:
— Mali tempi,
figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di
tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per me, sai! Viene a
visitar gli affreschi antichi e i monumenti, monterebbe anche su gli
altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi,
figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho
fatto nulla: tutto s'è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho
creato Io prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto, come
ti avevano insegnato ne' tuoi gracili anni. Che! che! Non c'entro più per
nulla Io. Le nebulose, capisci? la materia cosmica... E tutto s'è fatto
da sé. Ti faccio ridere: uno c'è stato finanche, un certo scienziato, il
quale ha avuto il coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i
sensi il cielo, non vi aveva trovato neppur una minima traccia
dell'esistenza mia. Di' un po': te lo immagini questo pover'uomo che,
armato del suo canocchiale, s'affannava sul serio a darmi la caccia per i
cieli, quando non mi sentiva dentro il suo misero coricino? Ne riderei di
cuore, tanto tanto, figliuolo mio, se non vedessi gli uomini far buon viso
a siffatte scempiaggini. Ricordo bene quand'Io li tenevo tutti in un sacro
terrore, parlando loro con la voce dei venti, dei tuoni e dei terremoti.
Ora hanno inventato il parafulmine, capisci? e non mi temono più; si sono
spiegati il fenomeno del vento, della pioggia e ogni altro fenomeno, e non
si rivolgono più a Me per ottenere in grazia qualche cosa. Bisogna,
bisogna ch'io mi risolva a lasciare la città e mi restringa a fare il
Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico più molte, ma
alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove foglia d'albero
se Io noi voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il sereno. Su,
su, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo.
Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona
gente che lavora.
A queste parole, il
signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La campagna! il
suo sospiro! - La vedeva come se vi fosse; ne respirava l'aria
balsamica... - quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli
occhi, stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il
Padre Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora:
— Andiamo, su,
andiamo...
— Ma se è tanto
che... — barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati, atterrito
dalla realtà del suo sogno.
Il vecchio
sagrestano scosse le chiavi:
- Andiamo! La chiesa
si chiude. |