L'UCCELLO
IMPAGLIATO
Tranne il padre, morto a cinquant'anni di polmonite,
tutti gli altri della famiglia - madre e fratelli e sorelle e zie e zii
del lato materno - tutti erano morti di tisi, giovanissimi, uno dopo
l'altro.
Una bella
processione di bare.
Resistevano loro due
soli ancora, Marco e Annibale Picotti; e parevano impegnati a non darla
vinta a quel male che aveva sterminato due famiglie.
Si vigilavano l'un
l'altro, con gli animi sempre all'erta, irsuti; e punto per punto, con
rigore inflessibile seguivano le prescrizioni dei medici, non solo per le
dosi e la qualità dei cibi e i varii corroboranti da prendere in pillole
o a cucchiai, ma anche per il vestiario da indossare secondo le stagioni e
le minime variazioni di temperatura e per l'ora d'andare a letto o di
levarsene, e le passeggiatine da fare, e gli altri lievi svaghi
compatibili, che avevan sapore anch'essi di cura e di ricetta.
Così vivendo,
speravano di riuscire a superare in perfetta salute, prima Marco, poi
Annibale, il limite massimo d'età raggiunto da tutti i parenti, tranne il
padre, morto d'altro male.
Quando ci
riuscirono, credettero d'aver conseguito una grande vittoria.
Se non che,
Annibale, il minore, se ne imbaldanzì tanto, che cominciò a rallentare
un poco i rigidissimi freni che s'era finora imposti, e a lasciarsi andare
a mano a mano a qualche non lieve trasgressione.
Il fratello Marco
cercò, con l'autorità che gli veniva da quei due o tre anni di più, di
richiamarlo all'ordine. Ma Annibale, come se veramente della morte avesse
ormai da guardarsi meno, non avendolo essa colto nell'età in cui ave va
colto tutti gli altri di famiglia, non gli volle dar retta.
Erano, sì, entrambi
della stessa corporatura, bassotti e piuttosto ben piantati, col naso
tozzo, ritto, gli occhi obliqui, la fronte angusta e i baffi grossi; ma
lui, Annibale, quantunque minore d'età, era più robusto di Marco; aveva
quasi una discreta pancettina, lui, della quale si gloriava; e più ampio
il torace, più larghe le spalle. Ora dunque, se Marco, pur così più
esile com'era, stava benone, non poteva egli impunemente far getto in
qualche trascorso di quanto aveva d'avanzo rispetto al fratello?
Marco, dopo aver
fatto il suo dovere, come la coscienza gli aveva dettato, lasciò andare i
richiami e le riprensioni, per stare a vedere, senza suo rischio, gli
effetti di quelle trasgressioni nella salute del fratello. Che se a lungo
andare esse non avessero recato alcun nocumento, anche lui... chi sa! se
le sarebbe forse concesse un po' per volta; avrebbe potuto almeno provare.
Ma che! no, no!
orrore! Annibale venne a dirgli un giorno che s'era innamorato e che
voleva prender moglie. Imbecille! Con quella minaccia terribile sul capo,
sposare? Sposare... chi? la morte? Ma sarebbe stato anche un delitto
perdio, mettere al mondo altri infelici! E chi era quella sciagurata che
si prestava a un simile delitto? a un doppio, un doppio delitto?
Annibale s'inquietò.
Disse al fratello che non poteva assolutamente permettere ch'egli usasse
siffatte espressioni verso colei che tra poco sarebbe stata sua moglie;
che, del resto, se doveva conservare la vita così a patto di non viverla,
tanto valeva che la perdesse: un po' prima, un po' dopo, che gl'importava?
era stufo, ecco, e basta così.
Il fratello rimase a
guardarlo col volto atteggiato di commiserazione e di sdegno, tentennando
appena appena il capo. Oh sciocco! Vivere... non vivere... Quasi che fosse
questo! Bisognava non morire! E non già per paura della morte; ma perché
questa era una feroce ingiustizia, contro alla quale tutto l'essere suo si
ribellava, non solamente per sé, ma anche per tutti i parenti caduti,
ch'egli con quella sua dura, ostinata resistenza doveva vendicare.
Basta, sì, basta.
Non voleva inquietarsi, lui; gli dispiaceva anzi d'essersi in prima
alterato e riscaldato. Non più! Non più!
Voleva sposare?
Liberissimo! Sarebbe rimasto lui solo a guardare in faccia la morte, senza
lasciarsi allettare dalle insidie della vita.
Patti chiari, però.
Stare insieme - niente; noje, impicci - niente. Se voleva sposare - fuori!
Fuori, perché il fratello maggiore, il capo di casa era lui; e la casa
spettava dunque a lui. Tutto il resto sarebbe stato diviso in parti
uguali. Anche i mobili di casa, sì. Poteva portarsi via tutti quelli che
desiderava; ma pian piano, con garbo, senza sollevar polvere, perché la
salute, lui, se la voleva guardare.
Quell'armadio? Ma sì,
e anche quel cassettone e la specchiera e le seggiole e il lavabo... sì,
sì... Quelle tende? Ma sì, anche quelle... e la tavola grande da pranzo
per tutti i floridi figliuoli che gli sarebbero nati, sì, e anche la
vetrina con tutto il vasellame. Purché gli lasciasse intatta, insomma, la
sua camera con quei seggioloni antichi e il divano, imbottiti di finto
cuojo, a cui era affezionato, e quei due scaffali di vecchi libri e la
scrivania. Quelli no, quelli li voleva per sé.
- Anche questo? -
gli domandò, sorridendo, il fratello.
E indicò tra i due
scaffali, un grosso uccello impagliato, ritto su una gruccia da
pappagallo; così antico, che dalle penne scolorite non si arrivava più a
riconoscere che razza d'uccello fosse stato.
- Anche questo.
Tutto quello che sta qua dentro, - disse Marco. - Che c'è da ridere? Un
uccello impagliato. Ricordi di famiglia. Lascialo stare!
Non volle dire che,
così ben conservato, quell'uccello gli pareva di buon augurio e, per la
sua antichità, gli dava un certo conforto, ogni qual volta lo guardava.
Quand'Annibale sposò,
egli non volle prender parte alla festa nuziale. Solo una volta, per
convenienza, era andato in casa della sposa, e non le aveva rivolto né
una parola di congratulazione né un augurio. Gelida visita di cinque
minuti. Non sarebbe andato di sicuro in casa del fratello, né al ritorno
dal viaggio di nozze, né mai. Si sentiva venir male, un tremito alle
gambe, pensando a quel matrimonio.
- Che rovina! che
pazzia! - non rifiniva d'esclamare, aggirandosi per l'ampia stanza ben
turata, intanfata di medicinali, con gli occhi fissi nel vuoto e tastando
con le mani irrequiete i mobili rimasti - che rovina! che pazzia!
Nella vecchia carta
da parato erano rimaste e spiccavano le impronte degli altri mobili
portati via dal fratello; e quelle impronte gli accrescevano l'impressione
del vuoto, nel quale egli, quasi cancellato, vagava come un'anima in pena.
Via, via, no! non
doveva scoraggiarsi; non doveva pensarci più a quell'ingrato, a quel
pazzo! Avrebbe saputo bastare a se stesso.
E si metteva a
fischiare pian piano, o a tamburar con le dita su i vetri della finestra,
guardando fuori gli alberi del giardinetto ischeletriti dall'autunno,
finché non avvistava lì sullo stesso vetro, su cui tamburellava, oh Dio,
una mosca morta, intisichita, appesa ancora per una zampina.
Passarono
parecchi mesi, quasi un anno dalle nozze del fratello.
La vigilia di
Natale, Marco Picotti sentiva venire dalla strada il suono delle zampogne
e dell'acciarino e il coro delle donne e dei fanciulli per l'ultimo giorno
di novena davanti alla cappelletta parata di fronde; udiva lo schioppettio
dei due grossi fasci di paglia che ardevano sotto quella cappelletta; e
così angosciato, si disponeva ad andare a letto all'ora solita, allorché
una furiosa scampanellata lo fece sobbalzare, quasi con tutta la casa.
Una visita
d'Annibale e della cognata. Annibale e Lillina.
Irruppero
imbacuccati, sbuffanti, e si misero a pestare i piedi per il freddo, e a
ridere, a ridere... Come ridevano! Vispi, allegri, festanti.
Gli parvero
ubriachi.
Oh, una visitina di
dieci minuti, soltanto per fargli gli augurii: non volevano che per causa
loro ritardasse neppure d'un minuto l'andata a letto. E... non si poteva
intanto aprire, neppure uno spiraglietto, per rinnovare l'aria un tantino
là dentro? no, è vero? non si poteva, neppure per un minuto? Oh Dio, e
che cos'era là quella bestiaccia, quell'uccellaccio impagliato su la
gruccia? E questa? oh, una bilancetta! per le medicine, è vero? carina,
carina. E donna Fanny? dov'era donna Fanny?
Per tutti quei dieci
minuti, Lillina non si fermò un attimo, saltellando così, di qua e di là,
per la camera del cognato.
Marco Picotti rimase
stordito come per una improvvisa furiosa folata di vento, che fosse venuta
a scompigliargli non solo la vecchia camera silenziosa, ma anche tutta
l'anima.
- E dunque... e
dunque... - si mise a dire, seduto sul letto? quand'essi se ne furono
andati, e si grattava con ambo le mani la fronte: - e dunque...
Non sapeva
concludere.
Possibile? Aveva
ritenuto per certo che il fratello, subito dopo la prima settimana dalle
nozze, dovesse disfarsi, cascare a pezzi. Invece, invece, eccolo là -
benone, stava benone; e come lieto! felice addirittura.
Ma dunque? Che non
ci fosse più bisogno davvero, neanche per lui di tutte quelle cure
opprimenti, di tutta quella paurosa vigilanza? Che potesse anche lui
sottrarsi all'incubo che lo soffocava; e vivere, vivere, buttarsi a vivere
come il fratello?
Questi, ridendo, gli
aveva dichiarato che non seguiva più nessuna cura e nessuna regola. Tutto
via! al diavolo, medici e medicamenti!
- Se provassi
anch'io?
Se lo propose, e per
la prima volta andò in casa d'Annibale.
Fu accolto con tanta
festa, che ne rimase per un pezzo balordo. Chiudeva gli occhi e parava le
mani in difesa, ogni qualvolta Lillina accennava di saltargli al collo. Ah
che cara diavoletta, che cara diavoletta! quella Lillina! Friggeva tutta.
Era la vita! Volle per forza che rimanesse a desinare con loro. E quanto
lo fece mangiare, e quanto bere! Si levò ebbro, ma più di gioja che di
vino.
Quando fu la sera
però, appena giunto a casa, Marco Picotti si sentì male. Una forte
costipazione di petto e di stomaco, per cui dovette stare a letto parecchi
giorni.
Invano Annibale cercò
di dimostrargli che questo era dipeso perché se n'era dato troppo
pensiero e non s'era buttato con coraggio e con allegria allo sproposito.
No, no! mai più! mai più! E guardò il fratello con tali occhi, che
Annibale a un tratto... - no, perché? -.
- Che... che mi
vedi? - gli domandò, impallidendo, con un sorriso smorto sulle labbra.
Disgraziato! La
morte... la morte... Già ne aveva il segno lì, in faccia, il segno che
non falla!
Glielo aveva scorto
in quell'improvviso impallidire.
I pomelli gli erano
rimasti accesi. Spenta l'allegria ecco lì sugli zigomi, i due fuochi
della morte, cupi, accesi.
Annibale
Picotti morì difatti circa tre anni dopo le nozze. E fu per Marco il
colpo più tremendo.
Lo aveva previsto, sì,
lo sapeva bene che per forza al fratello doveva andargli a finire così.
Ma intanto, che terribile monito per lui, e che schianto!
Non volle
arrischiarsi neanche ad accompagnarlo fino al cimitero. Troppo si sarebbe
commosso e troppo dispetto, anzi odio gli avrebbero mosso dentro gli
sguardi della gente, che da un canto lo avrebbero compassionato e
dall'altro gli si sarebbero fitti acutamente in faccia, per scoprire anche
in lui i segni del male di che erano morti tutti i suoi, fino a
quell'ultimo.
No, egli no, non
doveva morire! Egli solo, della sua famiglia, l'avrebbe vinta! Aveva già
quarantacinque anni. Gli bastava arrivare fino ai sessanta. Poi la morte -
ma un'altra, non quella! non quella di tutti i suoi! - poteva pure
prendersi la soddisfazione di portarselo via. Non gliene sarebbe importato
più nulla.
E raddoppiò le cure
e la vigilanza. Non voleva però in pari tempo che la costernazione
assidua, quello starsi a spiare tutti i momenti gli nocesse. E allora
arrivò fino a proporsi di fingere davanti a se stesso che non ci pensava
più. Sì, ecco, di tratto in tratto, certe parole, come: «Fa caldo»
oppure: «Bel tempo» gli venivano alle labbra, sole, non pensate, proprio
sole; non che lui le volesse proferire per sentir se la voce non gli si
fosse un poco arrochita.
E andava in giro per
le ampie stanze vuote della casa antica, dondolando il fiocco della
papalina di velluto e fischiettando.
La piccola donna
Fanny, la cameriera, che non si sentiva ancora tanto vecchia e in parecchi
anni che stava lì a servizio non era per anco riuscita a levarsi dal capo
che il padrone avesse qualche mira su lei e per timidezza non glielo
sapesse dire; vedendolo gironzare così per casa, gli sorrideva e gli
domandava:
- Vuole qualche
cosa, signorino?
Marco Picotti la
guardava d'alto in basso e le rispondeva, asciutto:
- Non voglio nulla.
Soffiatevi il naso!
Donna Fanny si
storceva tutta e soggiungeva:
- Capisco,
capisco... Vossignoria mi rimprovera perché mi vuol bene.
- Non voglio bene a
nessuno! - le gridava allora con tanto d'occhi sbarrati. - Vi dico:
soffiatevi il naso, perché pigliate tabacco! E quando uno piglia tabacco,
non fa veder certe gocce che pendono dal naso.
Le voltava le
spalle, e si rimetteva a fischiettare, dimenando il fiocco e gironzando.
Un giorno, la vedova
del fratello ebbe la cattiva ispirazione di fargli una visita.
- Per carità, no! -
le gridò lui, premendosi forte le mani sul volto per non vederla
piangere, così vestita di nero. - Andate, andate via! Non v'arrischiate
più a venire, per carità! Volete farmi morire? Ve ne scongiuro, andate
via subito! Non posso vedervi, non posso vedervi!
Un attentato gli
parve, quella visita. Ma che credeva colei, ch'egli non pensasse più al
fratello? Ci pensava, ci pensava... Soltanto fingeva di non pensarci,
perché non doveva, ancora non doveva!
Per tutto un giorno
ci stette male. E anche la notte, nello svegliarsi, ebbe un furioso
accesso di pianto, di cui la mattina dopo finse di non ricordarsi più.
Ilare, ilare, la mattina dopo; fischiettava come un merlo, e ogni tanto:
- «Fa caldo... Bel
tempo...»
Quando i baffi, che
gli s'erano conservati ostinatamente neri, cominciarono a brizzolarglisi,
come già i capelli su le tempie, - anziché affliggersene - ne fu
contento, contentissimo. La tisi - poiché tutti i suoi erano morti
giovanissimi - gli richiamava l'idea della gioventù. Più se
n'allontanava, più si sentiva sicuro. Voleva, doveva invecchiare. Con la
gioventù odiava tutte le cose che le si riferivano: l'amore, la
primavera. Sopra tutte, la primavera. Sapeva che questa era la stagione più
temibile per i malati di petto. E con sorda stizza vedeva rinverdire
ingemmarsi gli alberi del giardinetto.
Di primavera non
usciva più di casa. Dopo il desinare rimaneva a tavola e si divertiva a
far l'armonica coi bicchieri. Se donna Fanny accorreva al suono, come una
farfalletta al lume, la cacciava via, aspramente.
Povera donna Fanny!
Era proprio vero che quel brutto padrone non le voleva bene. E se
n'accorse meglio, quando ammalò gravemente e fu mandata via, a morire
all'ospedale. Marco Picotti se ne dolse soltanto perché dovette prendere
un'altra cameriera. E gli toccò di cambiarne tante, in pochi anni!
All'ultimo, poiché nessuna più lo contentava e tutte si stufavano di
lui, si ridusse a viver solo, a farsi tutto da sé.
Arrivò
così ai sessant'anni.
Allora la tensione,
in cui per tanto tempo aveva tenuto lo spirito, d'un tratto si rilasciò.
Marco Picotti si
sentì placato. Lo scopo della sua vita era raggiunto.
E ora?
Ora poteva morire.
Ah, sì, morire, morire: era stufo, nauseato, stomacato: non chiedeva
altro! Che poteva più essere la vita per lui? Senza più quello scopo,
senza più quell'impegno - stanchezza, noja, afa.
Si mise a vivere
fuori d'ogni regola, a levarsi da letto molto prima del solito, a uscire
di sera, a frequentare qualche ritrovo, a mangiare tutti i cibi. Si guastò
un poco lo stomaco, si seccò molto, s'indispettì più che mai alla vista
della gente che seguitava a congratularsi con lui del buono stato della
sua salute.
L'uggia, la nausea
gli crebbero tanto, che un giorno alla fine si convinse che gli restava da
fare qualche cosa; non sapeva ancor bene quale; ma certamente qualche
cosa, per liberarsi dell'incubo che ancora lo soffocava. Non aveva già
vinto? No. Sentiva che ancora non aveva vinto.
Glielo disse, glielo
dimostrò a meraviglia quell'uccello impagliato, ritto lì su la gruccia
da pappagallo tra le due scansie.
- Paglia...
paglia... - si mise a dire Marco Picotti quel giorno, guardandolo.
Lo strappò dalla
gruccia: cavò da una tasca del panciotto il temperino e gli spaccò la
pancia:
- Ecco qua,
paglia... paglia...
Guardò in giro la
camera; vide i seggioloni antichi di finto cuojo divano, e con lo stesso
temperino si mise a spaccarne l'imbottitura e a trarne fuori a pugni la
borra, ripetendo col volto atteggiato di scherno e di nausea:
- Ecco, paglia...
paglia... paglia...
Che intendeva dire?
Ma questo, semplicemente. Andò a sedere davanti alla scrivania, trasse da
un cassetto la rivoltella e se la puntò alla tempia. Questo. Così
soltanto avrebbe vinto veramente.
Quando si sparse in
paese la notizia del suicidio di Marco Picotti, nessuno dapprima ci volle
credere, tanto apparve a tutti in contraddizione col chiuso testardo
furore, con cui fino alla vecchiezza s'era tenuto in vita. Moltissimi, che
videro nella camera quei seggioloni e quel divano squarciati, non sapendo
spiegarsi né il suicidio né quegli squarci, credettero piuttosto a un
delitto, sospettarono che quegli squarci là fossero opera d'un ladro o di
parecchi ladri. Lo sospettò prima di tutti l'autorità giudiziaria, che
si pose subito a fare indagini e ricerche.
Tra i numerosi
reperti trovò un posto d'onore appunto quell'uccello impagliato e, come
se potesse giovare a far lume al processo, un bravo ornitologo ebbe
l'incarico di definire che razza d'uccello fosse.
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