FELICITA'
La vecchia mamma duchessa uscì quasi imbalordita dalla stanza ove il
marito s'era segregato, dal giorno che la nuora coi due nipotini aveva
abbandonato il palazzo e la città per ritornare dai suoi parenti di
Nicosia.
Quasi si sentisse
lacerare dentro, contrasse il volto e si restrinse tutta in sé al cigolio
lamentoso dell'uscio, che avrebbe voluto richiudere pian piano. Che era
stato quel cigolio? Niente. Forse il duca non lo aveva nemmeno avvertito.
Eppure la vecchia duchessa ne rimase un pezzo vibrante e ansante e in
preda a una sorda stizza, quasi quell'uscio, pur trattato con tanta
delicatezza, avesse voluto farle un crudelissimo dispetto.
Come gli animi,
tutti gli oggetti di quella casa, animati da tanti ricordi familiari,
pareva fossero da qualche tempo in una tensione di spasimo violenta: a
toccarli appena appena, davano un lamento.
Stette un po' in
orecchi; poi, con la cèrea faccia disfatta, il collo piegato come sotto
un giogo, si mosse sui soffici tappeti, attraversò molte stanze in
penombra, dove tra i cortinaggi antichi e gli altri mobili scuri e quasi
funebri stagnava un alido strano, come un'afa del passato, e si presentò
sulla soglia della camera remota, nella quale Elisabetta, la figliuola,
stava ad attenderla in smaniosa ambascia.
Nel vedere
quell'aria della madre, Elisabetta si sentì venir meno L'impeto, con cui
nell'attesa avrebbe voluto correrle incontro, le mancò a un tratto, e
subito tutte le membra le si rilassarono così, che non poté neanche
sollevare le gracili mani per nascondersi il volto.
Ma la vecchia mamma
le si accostò e, posandole lievemente una mano sulla spalla:
- Figlia mia, - le
annunziò, - ha detto di sì.
La figliuola ebbe un
sussulto e, con la faccia sconvolta, guardò la madre. Era così violento
il contrasto fra l'esultanza che quell'annunzio le suscitava e la
soffocazione che le incuteva quell'aria di stordimento e di pena della
madre, che la poverina, storcendosi le mani, stridette convulsa tra il
riso e il pianto:
- Si? sì? ma come?
sì?
- Sì, - ripeté la
mamma, più col cenno che con la voce.
- Ha gridato? s'è
infuriato?
- No, niente.
- E allora?
Ma subito comprese
che, appunto perché il padre aveva detto di sì senza gridare né
infuriarsi, la madre era così oppressa di doloroso stupore.
Aveva fatto chiedere
al padre, che volesse condiscendere alle nozze di lei col precettore de'
due figliuoli della nuora andata via da poco.
Ma la condiscendenza
del padre, così, senza gridi né furie, aveva per lei un significato ben
diverso da quello che aveva per la madre.
Ben diverso; non
meno penoso.
Forse perché donna
e secondogenita, forse perché non bella, così timida in apparenza, umile
di cuore e di maniere, schiva e taciturna, non era stata mai calcolata da
lui come una figliuola, ma piuttosto come un ingombro lì per casa, un
ingombro di cui provava fastidio solo quando si sentiva guardato; non
metteva conto, dunque, che si adirasse o si amareggiasse il sangue se ella
voleva sposare un servitore un precettoruccio, un maestrino di scuole
elementari: forse per lui non era degna d'altre nozze.
La madre invece, che
con tanto terrore, spinta dall'amore per la figlia, s'era presentata con
quella proposta al marito, di cui conosceva bene l'orgoglio, tanto più
fanatico e fiero, quanto più angustiose si erano a mano a mano ridotte le
condizioni finanziarie del casato, e le ire furibonde che lo assalivano
per ogni atto del volgo, che gli paresse un nuovo attentato a' suoi
privilegi nobiliari; pensava che se egli derogava così a se stesso, ai
suoi più forti sentimenti, doveva senza dubbio essere già cominciato
l'estremo sfacelo del suo spirito, dopo l'ultimo colpo che gli aveva dato
il figlio, unico erede del nome, invescato da una donnaccola di teatro e
fuggito via con essa, ormai da un anno.
Don Gaspare Grisanti,
duca di Rosàbia, marchese di Collemagno, barone di Fontana e di Gibella,
devoto per la vita al passato governo delle Due Sicilie, «Chiave d'oro»
della Corte di Napoli e onorato ancora della corrispondenza epistolare con
gli ultimi superstiti della dinastia decaduta; colui che troneggiava ogni
giorno per via Maqueda, all'ora del passeggio, dall'alto della sua
carrozza antica, con due valletti dietro, immobili come statue, in
parrucca, e un altro valletto accanto al gigantesco cocchiere, senza mai
salutare nessuno, rigido, cupo, sprezzante, diretto al solitario parco
della Favorita; consentiva che la figliuola sposasse un signor Fabrizio
Pingiterra, maestro elementare e di ginnastica, già precettore de' suoi
nipotini. Ma, ormai! Aveva sperato di ristorare le sorti del casato col
matrimonio del Buchino con una ricchissima ereditiera, figlia unica d'un
barone di campagna. Quel tristo s'era infognato in un amorazzo per cui,
tra tante vergogne, era dovuto scappar via; la nuora, sorda a tutte le
preghiere, aveva ottenuto dal tribunale la separazione di beni e persona
dal marito e se n'era ritornata al suo paese. Tutto era finito. Solo, a
costo di qualunque sacrifizio voleva ancora mantenere quella carrozza
pomposa coi tre valletti in parrucca, per la sua quotidiana comparsa in
pubblico, e giù, a piè del palazzo, il guardaportone con la mazza,
quantunque da un mese, cioè dal giorno che la nuora era andata via, il
cancello dello scalone fosse chiuso per non lasciar passare più nessuno.
- Non sei morta tu?
- aveva domandato alla moglie. - E anche io, - aveva soggiunto. - I figli,
nel fango; e noi seguitiamo, da morti, la nostra mascherata.
Elisabetta si
riscosse con un sospiro e domandò alla mamma:
- Che t'ha detto?
La madre voleva
attenuare in qualche modo la durezza dei patti e delle condizioni posti
dal padre, con calmo e freddo sprezzo che non ammetteva replica; ma la
figlia la pregò di dir tutto, crudamente.
- Mah, sai che da un
pezzo non vuole più vedere nessuno.
- Dunque non vuol
vederlo. Poi?
- Poi, lo scalone,
tu sai, è chiuso, dacché tua cognata...
- Vuole allora
ch'egli séguiti a salire per la scaletta della servitù. Poi?
La madre esitava più
che mai. Non sapeva come dire alla figlia, che dopo il matrimonio non
doveva più metter piede, neanche sola, nel palazzo.
- Per... per
vederci, - balbettò, - quando... sì, poi... quando sarai sposata, verrò
io, verrò io ogni giorno a casa tua.
Elisabetta prese una
mano della madre e gliela baciò e gliela bagnò di lagrime, gemendovi
sopra:
- Povera mamma...
povera mamma...
- Sai? - riprese
questa, - mi... mi ha fatto quasi ridere... Sai quanto tenga alla sua
carrozza... bene, quella no, dice, quella no!
E come se questa
fosse veramente una cosa da ridere, la vecchia mamma duchessa si mise a
ridere, a ridere e a fingere che quelle scosse di riso le impedissero di
seguitare a dire alla figlia quest'altra condizione che, via, non era
altro che ridicola.
- Vuole che prenda a
nolo, dice, una carrozzella per venire da te. Permette però che usciamo
insieme, a passeggio, con questa... con quella no! con quella no! eh,
quella... quella...
- Quanto mi vuol
dare? - domandò Elisabetta.
La mamma finse
ancora di non capire, o piuttosto, di non aver bene inteso, per prendere
tempo e preparare quest'altra risposta, ch'era la più angustiosa.
- Di che? - disse.
- Di dote, mamma.
Era qui il punto.
Non si faceva la minima illusione, Elisabetta. Sapeva che colui non la
avrebbe sposata per altro. Aveva anche sette anni più di lui, e
riconosceva che, già appassita, peggio! disseccata senz'essere stata mai
in fiore, nel silenzio e nell'ombra di quella casa oppressa da tante cose
morte, non aveva nulla, proprio nulla in sé, da suscitare e accendere il
desiderio di un uomo. Senza il danaro, neppure l'ambizione di diventare -
fosse pur soltanto di nome - genero del duca di Rosàbia, sarebbe valsa a
fargliela accettare. Già glielo aveva lasciato intendere chiaramente,
forse prevedendo che il duca non si sarebbe mai abbassato a considerarlo e
a trattarlo da genero; oh, aveva avuto finanche l'ardire di confessarle
che egli Fabrizio Pingiterra, essendo come il duchino di cui godeva
l'amicizia, di, sentimenti democratici e liberali, quasi quasi faceva un
sacrificio a imparentarsi con un patrizio d'idee così notoriamente
retrive; ma che per lei lo faceva volentieri, per lei così mite e buona;
unicamente per lei. - Cioè, unicamente per il danaro, - aveva ella
tradotto fra sé, senza schifo né ribrezzo.
No no: né schifo né
ribrezzo: tenere alte, ben alte questo sì - gelosamente custodite e
nascoste, in vetta allo spirito, la nobiltà e la purezza dei suoi
sentimenti e dei suoi pensieri, perché non s'insozzassero minimamente nel
contatto indegno; ma poi, abbassarsi fino a lui, lasciar sospettare di sé
le cose più vili, umiliarsi, concedersi, abbandonarsi - questo no, questo
non doveva farle né schifo né ribrezzo, perché era necessario,
inevitabile, per arrivare allo scopo; voleva vivere, vivere: cioè, esser
madre, voleva: un figlio voleva, suo, tutto suo; e non avrebbe potuto
averlo altrimenti.
Questa frenesia le
era nata e divampata, dando con tutto il cuore, con tutta l'anima, tutte
le cure d'una madre e fino il sonno delle sue notti a quei due nipotini
andati via da un mese, ai due figliuoli della cognata che, aprendo gli
occhi, avevano acceso l'alba non solamente nelle tenebre di quel palazzo,
ma anche nell'anima di lei che n'era piena; un'alba d'una dolcezza e d'una
freschezza inesprimibili, che l'avevano tutta rinnovellata.
Ah che fuoco e che
tortura a non poterli far suoi, suoi del suo sangue e della sua carne,
quei piccini, a furia di stringerli a sé e di baciarli e di renderli
padroni assoluti di lei, là, coi loro roseti piedini su la sua faccia,
così, sul suo seno, così.
Perché non avrebbe
potuto averlo, lei, un figlio suo, veramente suo? Sarebbe impazzita dalla
felicità! Avrebbe sofferto qualunque umiliazione, qualunque vergogna,
anche il martirio, per la gioja d'un figlio suo!
Poteva non
accorgersi di questo il giovine precettore chiamato a dare i primi
tormenti dell'alfabeto a quei due bambini, là, su le ginocchia stesse
della zietta, che essi non volevano lasciare neanche per un momento?
Ora, tutto stava
cine egli accettasse quei patti e quelle condizioni. Niente dote, pur
troppo: un semplice assegno di venti lire al giorno, e le spese per
l'arredo d'una modesta casetta. Comprendeva Elisabetta che, quanto più
duri quei patti, tanto più cara avrebbe pagata la sua felicità, se egli
li accettava.
Attese, spasimando
d'ansia, che la madre quella sera stessa glieli comunicasse. Ecco, egli
era di là. Povera mamma santa, chi sa quanto doveva soffrire in quel
momento! E lei? lei? Si torceva le mani, si nascondeva gli occhi, si
premeva le tempie, serrava i denti, e con tutta l'anima protesa verso di
lui gli gridava: - Accetta! accetta! tu non sai qual bene puoi avere da
me, se accetti! - poi tendeva l'orecchio. Ecco: se egli non accettava, la
mamma sarebbe apparsa da quell'uscio come un'ombra, povera mamma, con le
braccia cadute. Se accettava, invece, ah se accettava, l'avrebbero
chiamata di là... Oh Dio quando? quando? ancora?
Apparve come
un'ombra la vecchia mamma da quell'uscio, e di nuovo Elisabetta,
guardandola, si sentì morire. Ma, come già la mattina, quella le si
accostò e, posandole una mano sulla spalla, le disse ch'egli aveva
accettato; solo si era lasciato prendere dalle furie per il patto di
salire dalla scaletta della servitù. Ma, santo Dio, se lo scalone era
chiuso per tutti! se era sempre salito di là! Basta; s'era molto sdegnato
e, per non addolorarla troppo con la vista del suo... come aveva detto? già,
rimescolamento, era andato via per non rimettere piede mai più, mai più
nel palazzo; si sarebbero però veduti fuori, ogni giorno, per la scelta
della casa e la compera degli arredi; voleva che tutto si facesse nel più
breve tempo possibile.
Ma figurarsi!
subito, di volo! Parve che la gioja mettesse le ali a Elisabetta; e, bella
no, bella non poteva renderla; ma di quanta luce le accese gli occhi, di
che dolce e mesto fascino le animò i sorrisi, di quanta timida grazia i
modi, per ammantare lo sdegno di quell'uomo, per compensarlo delle offese
alla sua dignità, per dimostrargli, se non proprio amore, remissione
intera e riconoscenza!
La casetta fu presto
trovata, fuorimano, quasi in campagna, in via Cuba, tutta fragrante di zàgare
e di gelsomini; il corredo, ricco di trine di nastri di ricami, era già
pronto da un pezzo; i mobili, semplici, quasi rustici, appena comperati
furono messi a posto, e il matrimonio, senz'inviti e senza l'intervento
del duca, quasi clandestino, poté esser concluso nel tempo più
strettamente necessario per le pratiche e le formalità civili e
religiose.
Con tutta quella
furia, nessuna sposa più d'Elisabetta andò a legarsi conscia della
gravità e della santità dell'atto. E per circa quattro mesi, con la
gioja che le raggiava come un fascino da tutto il corpo trasfigurato,
riuscì a legare a se amorosamente il marito, cioè fino a quando ebbe
bisogno di lui. Poi si accecò nell’ebbrezza del primo segno rivelatore
della sua maternità, e non vide allora più nulla; non le importò più
di nulla: se egli usciva e tardava a rincasare; se non rincasava affatto;
se le mancava di rispetto e la maltrattava; se le portava via e le
spendeva chi sa come, chi sa dove e con chi, quelle poche lire
dell'assegno, che la mamma ogni giorno veniva a lasciarle. Non voleva
risentirsi di nulla, a nulla badare per non turbare affatto l'opera santa
della natura, che si compiva in lei e che doveva compiersi in letizia,
bevendo ella con l'anima l'azzurra purità del cielo, l'incanto di quella
chiostra di monti che respiravano nell'aria accesa e palpitante come se
non fossero di dura pietra, e il sole, il sole ch'entrava nelle sue
stanzette come non era entrato mai, là, nei tetri saloni del palazzo
paterno.
- Ma sì, mamma, non
vedi? sono felice! felice! -
La carrozzella
d'affitto andava quasi a passo per non scuotere troppo la gestante, e
tutti si voltavano e si fermavano per via a mirare con espressione di pietà
la vecchia duchessa di Rosàbia in quella vetturetta, con quella figliuola
accanto così miseramente vestita, così decaduta, scacciata dal padre,
maritata di nascosto, chi sa quando, chi sa con chi, più squallida che
mai, deformata dalla gravidanza, e pur così ridente; oh sì, poverina,
eccola là, tutta ridente sotto gli occhi della madre pieni di
compassione.
E la duchessa di Rosàbia,
ingannata da quella letizia, non avrebbe mai sospettato che quel vile
arrivava fino al punto di lasciarle digiuna la figliuola, se un giorno,
avendo fatto cenno al vetturino di arrestarsi davanti la bottega d'un
dolciere per comperarle alcune paste, Elisabetta con tono scherzoso non
avesse trovato modo di dirle che, invece di quelle paste, se la mamma
aveva da spendere, avrebbe preferito qualche cosa di più sostanzioso, e
che le avrebbe insegnato lei dove poteva darle da mangiare: lì presso
alla sua casetta, in un orto, nella capanna d'una vecchia contadina che
aveva tanti colombi e tante galline e le vendeva le uova ogni giorno.
Fame, fame, aveva proprio fame, lei.
- Ma tu non mangi a
tavola? - le domandò la mamma, vedendo, di lì a qualche ora, la
figliuola seduta a una tavola rustica davanti alla capannetta, nell'orto
di quella contadina, divorare, anche con gli occhi, un galletto arrostito.
Ed Elisabetta,
ridendo e senza smettere di mangiare:
- Ma sì! tanto
mangio... tanto! ma non mi sazio mai, vedi? mangio per due!
Intanto, di
nascosto, la vecchia contadina faceva alla duchessa certi cenni con gli
occhi e col capo, che questa non capiva.
Capì qualche tempo
dopo, quando, entrando nella casetta della figlia, la trovò invasa da
tante guardie di questura che vi facevano una perquisizione giudiziaria.
Fabrizio Pingiterra, accusato di falso e come affiliato a una banda di
truffatori, era scappato, non si sapeva se in Grecia o in America.
Come la vide,
Elisabetta le corse incontro quasi a ripararla, a escluderla dalla vista
di quello spettacolo, e prese a dirle affollatamente:
- Niente, mamma,
niente! non ti spaventare! Vedi, sono tranquilla! Ringraziamo Dio, anzi,
mamma, ringraziamo Dio! - E le soggiunse piano, in un orecchio, vibrando
tutta: - Così non lo vedrà! non lo conoscerà, capisci? e sarà più
mio, tutto mio, tutto mio! -.
Ma l'agitazione
affrettò il parto, e non senza rischio, così per lei come per il
nascituro. Quando però ella si vide salva col bimbo, quando vide quella
sua carne che palpitava viva, recisa da lei, carne che piangeva fuori di
lei, che le cercava il seno, cieca, e il calore che le mancava; quando poté
porgere al suo bimbo la mammella, godendo che entro a quel corpicino
uscito or ora dal suo corpo entrasse subito quella sua tepida vena
materna, sì che il pargolo potesse sentire nel calore del latte ancora il
calore del grembo di lei, parve veramente che volesse impazzire dalla
gioja.
E non sapeva
capacitare; perché la madre, pur vedendola così, venisse di giorno in
giorno a visitarla sempre più dolente e cupa. Ma perché?
La vecchia mamma
alla fine glielo disse: aveva sperato che il padre, ora che la figlia era
sola lì, abbandonata, si sarebbe piegato a riaccoglierla in casa: ebbene,
no, non voleva.
- Per questo? -
esclamò Elisabetta. - Oh povera mamma mia! Me ne duole per te; ma io
piangerei, credi, se dovessi portare là, in quella tristezza, in quella
oppressione, il mio bimbo, che ha tanto riso di luce, qua, vedi? tanta
allegrezza!
E in mezzo alla
nuda, santa semplicità della casetta, levò alto sulle braccia il suo
bambino al sole che entrava festivamente, con la frescura degli orti, dai
balconi spalancati.
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