IGNARE
Sui bianchi tettucci dalla corsia e disposti uno
accanto all'altro in quella camera remota del collegio piena di luce e di
silenzio, le quattro giovani suore giacevano immobili. Le cuffiette di
tela, semplici, senza una trina né un nastro, annodate sotto il mento da
due cordelline, disegnavano la rotondità del capo e incorniciavano i
pallidi visi quasi infantili. Aprivano di tanto in tanto gli occhi,
dapprima un po' esitanti alla luce, poi attoniti e smemorati; li
richiudevano poco dopo con lenta stanchezza, ma ormai senza pena.
Non si curavano più
di sapere se, così immobili su quei tettucci, fossero in attesa della
guarigione o della morte.
Erano tutte e
quattro ferite e fasciate. Ma di che gravità fossero le ferite, non
sapevano. Stando immobili, non le sentivano. Pareva a ciascuna di star
bene e di poter credere che non fosse più a ogni modo, per nessuna delle
quattro, caso di morte.
Ma poi, chi sa?
Non erano più
sicure di nulla; nemmeno se quella camera fosse d'un ospedale o
dell'infermeria d'un collegio di suore; né ricordavano come, quando, da
chi vi fossero state portate.
C'era nella loro
memoria un abisso: un vero inferno che s era spalancato loro davanti
all'improvviso inghiottendole e travolgendole; dove tanti demonii avevano
fatto scempio c strazio delle loro carni immacolate. Avevano la vaga
impressione d'aver navigato a lungo; e sentivano ancora nelle narici, ogni
tanto, quel tanfo particolare, alido, nauseante, che cova nell'interno
delle navi; negli orecchi, gli scricchiolii della carcassa enorme
galleggiante, agli urti possenti e fragorosi del mare; e avevano la
visione confusa d'un porto affaccendato, di grandi alberature non ben
ferme sotto grosse nuvole candenti immote su l'aspro azzurro delle acque;
e meno confuso il ricordo di strani aspetti, di strane voci; rumori
d'argani e di catene.
Ora erano qua. E nel
candore e nel silenzio di quella camera luminosa che dava loro con la
freschezza fragrante dei lini puliti un conforto d'arcana soavità e un
senso d'infinita beatitudine, avevano quasi il dubbio che fosse stato un
incubo orrendo tutto quell'inferno e quel lungo navigare e quel porto e
quegli aspetti strani.
Avevano bisogno di
lasciare in quel torpore non solo il corpo, ma anche la coscienza. Se per
qualche movimento inconsulto, o anche soltanto per tirare un più lungo
sospiro, il corpo aveva una fitta di spasimo, pur essa la coscienza si
sentiva subito trafitta dal ricordo di quanto a quel loro corpo era stato
fatto, caduto in preda alle voglie infami di gente feroce, nemica di
quella fede di cui esse erano andate a spargere l'esempio nell'isola
straniera, lontana. L'asilo di pace, una sera, era stato preso d'assalto,
invaso e profanato da orde selvagge. Sotto ai loro occhi s'era compiuta la
strage dei ricoverati. All'orrore delle ferite aperte dal ferro nelle loro
carni rispondeva l'orrore più grande di un'altra ferita insanabile, per
Cui più del corpo la loro anima aveva sanguinato.
L'ultima
a lasciare il letto, quantunque col seno e un braccio ancora fasciati, fu
suor Erminia. Le tre altre credevano che fossero trattenute
nell'infermeria in attesa della guarigione della compagna, per partire poi
tutte insieme alla volta di Napoli, per il ritiro. Ma non fu così.
Guarita suor Erminia, la Madre Superiora del Collegio ov'erano state
ricoverate e curate, venne ad annunziare che soltanto suor Erminia sarebbe
partita quella sera stessa per Napoli.
Ascoltando tutte e
quattro a occhi bassi quest'ordine, suor Erminia si chiese in cuore, perché
lei sola; e ciascuna delle tre altre, in che la loro sorte potesse essere
diversa da quella della compagna che più di loro aveva stentato a
guarire. Aveva forse bisogno di qualche rimedio che qua non le si poteva
apprestare?
Ma allora perché
lasciarla partir sola? E perché rimanevano loro tre, se erano al tutto
guarite?
Lo seppero la
mattina dopo, all'alba, quando insieme con una suora anziana e una vecchia
conversa furono fatte salire su una «giardiniera» traballante e
svolazzante di tendine di juta.
Sotto le ampie
cornette oscillanti erano vestite tutte e tre d'abiti nuovi, ma troppo
larghi per il loro corpo già esile e ora più che mai assottigliato dalle
sofferenze.
Avvertivano nel
seno, mortificato da anni sotto il modestino, respirando finalmente
all'aperto, come un indurimento e, nello stesso tempo, uno strano senso di
risveglio che le turbava.
Prima di partire,
avevano veduto i vecchi abiti, coi quali erano arrivate, ferite e morenti,
da Candia. Stinti, strappati, macchiati di sangue, avevano suscitato in
loro quello sgomento e quel ribrezzo che si prova per gli oggetti
appartenuti a qualcuno tragicamente morto. E tanto più s'erano
costernate, in quanto che alle vestigia, evidentissime lì, d'una violenza
terribile, non rispondeva più in loro, ritornate alla vita, una memoria
precisa.
Lasciate addietro le
ultime case della città, la vettura si mise a correre per uno stradone
costeggiato di qua e di là da fitti boschi d'aranci e di limoni.
S'era d'ottobre e
pareva ancora piena estate, sebbene di tratto in tratto, entro quel tepore
denso di odori inebrianti, sorvolasse dal mare che s'intravedeva prossimo
di tra il fitto turbinio di tutti quei fusti d'alberi, qualche primo
brivido di frescura autunnale.
Ma le tre
convalescenti non poterono godersi a lungo la delizia di quell'ora e di
quei luoghi. Il traballio della logora vettura cominciò a cagionar loro
un grave disturbo. Tanto che, alla fine, una, suor Agnese, non potendo più
reggere, chiese per grazia se la vettura non potesse andare più piano.
La vettura si mise
quasi di passo.
Use tutte e tre,
ormai da tanti anni, a non curare affatto e quasi a non sentire più il
proprio corpo, a dominarne tutti i bisogni, a vincerne la stanchezza,
provavano ora un avvilimento e uno smarrimento strano, un'ambascia
smaniosa, per quelle loro sofferenze corporali. La più giovane, ch'era
anche la più gracile, suor Ginevra, chiese a un certo punto se, andando
così di passo la vettura, non potesse provarsi a seguirla a piedi. Si
provò; ma dovette poco dopo rimontare, perché le gambe non le ressero
alla fatica del cammino in salita.
La suora anziana che
le scortava, annunziò, per confortarle, che poco ormai ci voleva ad
arrivare.
La vettura difatti
si fermò, poco dopo, davanti al cancello d'una grande villa solitaria in
cima a un poggiolino, cinta tutt'intorno da un muro. Era la grangia del
collegio. La conversa sonò il campanello e, levandosi su la punta dei
piedi per guardar sopra la banda che copriva la parte inferiore del
cancello, chiamò forte:
- Rosaria!
Rosaria era la
moglie del contadino che aveva in custodia la grangia ove ogni estate
erano condotte le Orfanello a villeggiare.
Invece di Rosaria
rispose un grosso cane di guardia con furibondi latrati.
- Ecco «Bobbo» -
disse la suora anziana, sorridendo alla conversa.
- Bobbo, Bobbo,
siamo noi di casa, - aggiunse la conversa e sonò di nuovo il campanello.
Accorse alla fine la
custode, sbracciata, scarmigliata, col faccione acceso, dorato dal sole,
tutto in sudore, due grandi cerchi d'oro agli orecchi, un fazzoletto rosso
sgargiante sul seno, e il ventre pregno che le lasciava scoperti, sotto la
gonna di baracane tirata su, i fusoli delle gambe entro le grosse calze
turchine di cotone, sporche di creta.
- Oh suor Sidonia
mia, suor Sidonia! - cominciò a strillare con furiosi gesti di maraviglia
e di gioja. - Come va, con tanta compagnia? Anche voi, donna Mita? Come
va? Stavo a lavare e, mi vede? - aggiunse, indicando il ventre immane. -
Dopo otto anni, suor Sidonia mia! Mah! E queste? Sono tre suore nuove?
Le tre convalescenti
s'erano un poco allontanate, e guardavano smarrite le vecchie finestre di
quella villa, l'antica cisterna patriarcale, là a principio del lungo
pergolato, di fronte al portoncino verde. Si voltarono, nel sentirsi
indicate dalla custode, e videro la suora anziana e la conversa parlar
piano tra loro; poi la custode prendersi con un gesto d'orrore la testa
tra le mani e voltarsi, allargando un po' le mani, a guardare verso di
loro, con la bocca aperta e gli occhi pieni di raccapriccio:
- E lo sanno? lo
sanno?
Le tre convalescenti
si guardarono negli occhi, angosciate. Quella delle tre, che durante il
tragitto non aveva aperto bocca, suor Leonora, ebbe negli occhi come un
guizzo di follia; si coprì il volto con le mani emise un mugolio sordo
fra un tremore delle spalle e delle braccia.
- Perché? - chiese
allora, suor Ginevra, volgendo gli occhi azzurri infantili all'altra
compagna che s'era recata una mano alle labbra e con gli occhi sbarrati
era rimasta come sospesa davanti a un abisso scoperto all'improvviso.
Sopravvennero suor
Sidonia e la conversa e, poco dopo, con le chiavi della villa, la custode.
Su per la scala, ove
l'aria della campagna stanava mista col tanfo grasso della corte vicina e
con l'umidore esalante dalla prossima cisterna, suor Leonora afferrò un
braccio alla suora anziana e le chiese piano per sé e le compagne se
fosse vero ciò che le era parso di dover capire al gesto d'orrore della
custode.
Quella socchiuse gli
occhi e chinò il capo più volte, sospirando. Suor Leonora scivolò sul
gradino della scala. Suor Agnese, ritta addossata al muro, socchiuse gli
occhi da cui sgorgarono grosse lagrime. Ignara ancora restava la più
giovane dagli occhi celesti. Guardava le lagrime silenziose della compagna
addossata al muro, udiva i singhiozzi dell'altra accasciata sullo scalino,
ascoltava il conforto e le esortazioni delle tre altre; e non ne capiva
ancora la ragione.
Aveva
quella villa, nella quiete attonita che regnava tutt'intorno, alcunché di
lugubre, con tutti quei fasci di sole che si allungavano di traverso,
simmetricamente, nei corridoj. Si vedeva in ognuno di quei fasci fervere
lento il polviscolo. Di tratto in tratto, il canto d'un gallo pareva
volesse rompere il fascino di quella quiete misteriosa; e un altro gallo,
che rispondeva da qualche ala lontana, pareva dicesse che lo stesso
fascino di misteriosa quiete gravava anche lì, e più lontano ancora.
Fin dove?
Le tre suore,
affacciate alle finestre, si perdevano nella lontananza di quella quiete
misteriosa. Non sapevano dove andare con l'anima, a chi rivolgersi per
conforto, come nascondere ai loro stessi occhi l'onta di quel martirio.
Era per due di esse
in quella lontananza, ma più là, assai più là, dove lo sguardo si
perdeva e l'anima non ardiva di arrivare, sé in Toscana, più sé in
Lombardia, una casa da tanti anni abbandonata. Picchiare alla porta di
quelle case, per conforto, suor Leonora e suor Agnese non potevano. Né il
vecchio padre, né il fratello, né la cognata di suor Leonora dovevano
sapere; tanto meno poi, oh Dio, il fratello della cognata! Non dovevano
sapere la vecchia madre né la sorella di suor Agnese in quel tranquillo
borgo sul Po, presso Mantova. Beata suor Ginevra, che non aveva alcuna
idea né di casa né di famiglia! Sapeva soltanto d'esser nata a Sorrento;
non sapeva da chi; era stata allevata dalle suore in un ospizio, e s'era
fatta suora: era dunque, tutta, nell'abito che indossava: e la sciagura
presente non le mordeva a sangue le carni offese, coi ricordi d'una vita
estranea, d'estranei affetti, da cui le altre due si erano con violenza
strappate.
L'abito che aveva
indosso, rappresentava per suor Leonora un sacrifizio. La violenza che
aveva dovuto fare a se stessa per serbare intatta, contro l'insidia della
sua propria carne, la sua purezza, era stata resa vana dalla violenza
altrui, brutale; e Dio aveva permesso che quell'abito, simbolo del
sacrifizio, le pesasse ora addosso come uno scherno; Dio permetteva che in
un corpo offerto a Lui fosse accolto e stesse a maturare un frutto infame,
e sotto quell'abito crescesse la vergogna, il ribrezzo, l'orrore d'una
atroce maternità. Come poteva Dio permetter questo?
Finché ai loro
occhi la castità dell'abito non cominciò a essere offesa dal progressivo
sformarsi del corpo, stettero insieme tutte e tre, per sentirsi nel
cordoglio meno sperdute dentro quell'ampio rustico casamento dai lunghi
corridoi rintronanti, ove per tante finestre in fila entravano l'aria
salsa e il fragorio continuo del mare, gli odori sparsi della campagna, il
ronzio degli insetti, il frusciare delle piante.
Scendevano insieme a
pregare nella cappelletta; ma spesso le preghiere erano interrotte dai
singhiozzi quasi rabbiosi di suor Leonora, che scappava via. Le altre la
seguivano e cercavano di calmarla nell'ombra del lungo percolato davanti
alla villa o per i sentieruoli in mezzo al frutteto, dove al vespro si
raccoglievano tanti uccelli a far sbaldore.
Suor Ginevra aveva
trovato 1ì un cantuccio, ove un certo odore amaro di prugnole e un altro
denso e pungente di mentastro le avevano ridestato vivo il ricordo
dell'ospizio di Sorrento, in cui aveva passato l'infanzia; e spesso andava
lì quasi a covare quel ricordo, felice di sentirsi accanto la sua dolce
innocenza d'allora Era ancora come stordita dalla sciagura. Non concepiva
adatto l'orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava
negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa, soffrendo delle
fosche, smaniose ambasce dell'una, delle cocenti lagrime dell'altra.
Rosaria, la custode,
qualche volta le raggiungeva e, senza rendersi conto della urtante
impertinenza delle sue parole, si metteva a parlar loro come a compagne di
sventura, che non dovessero aver più ritegno ormai di guardare quel suo
sconcio ventre e di udire certi discorsi circa al loro stato comune. Si
lamentava di aver dato via ad altre contadine più poverette di lei, le
camicine, le fasce, le cunette, i bavaglini del corredo, perché mai più
non si sarebbe aspettato di poterne aver bisogno; e ora non aveva tempo di
attendere a prepararne uno nuovo. Aveva comperato la tela: oh, rozza tela
per le tenere carnucce d'un bimbo; ma i figli dei poveri, si sa, bisognava
che presto imparassero a sentire le durezze della vita.
Subito suor Ginevra
si profferse di ajutarla a cucire quel corredino. Anche suor Agnese allora
le disse che la avrebbe ajutata. Suor Leonora non ne volle sapere.
Con l'inverno, si
chiusero ciascuna in una cameretta tra le tante che avevano l'uscio lì
sul lungo corridojo. Le finestre davano su l'orto, e di sul muro di cinta
si scorgeva l'azzurro denso del mare, che si congiungeva con quello tenue
e vano del cielo. Ma cielo e mare perdevano spesso, ora, quella loro
diversa azzurrità, si mescevano sconvolti in fosche brume, e nel silenzio
tetro della villa solitaria durava per giornate intere su i vetri delle
finestre il crepitio della pioggia.
Suor Agnese cuciva e
si sforzava di non intenerirsi alla vista di quelle camicine, di quelle
cunette, di quei bavaglini: non doveva pensare al bimbo che sarebbe nato
da lei. Erano per un altro bimbo quelle camicine, che sarebbe cresciuto lì.
Il suo sarebbe scomparso di furto, ignudo. E forse non lo avrebbe neppure
veduto.
Non doveva
intenerirsene: era appunto questo il martirio: accogliere e maturare nel
corpo offerto a Dio quel frutto infame. Ma era in lei; lei lo teneva in
grembo, oh Dio! e lo nutriva di sé. O Dio! oh Dio! E non avrebbe potuto,
non avrebbe dovuto far nulla per lui? per riscattarlo dall'infamia da cui
nasceva? Forse il suo latte, forse le sue cure lo avrebbero redento!
Sottratto a lei, allevato in un ospizio, senza amore, come sarebbe
cresciuto, concepito com'era nell'orrore d'una strage, frutto nefando d'un
sacrilegio?
Ma Dio, certo, nella
sua infinita misericordia, aveva disposto che il martirio di lei, nel
tempo ch'ella lo soffriva, giovasse al nascituro, bastasse a mondarlo
della colpa originaria, bastassero a lavarlo per sempre di quel sangue
osceno le lagrime ch'ella ora versava per l'onta e per il supplizio. Così
il suo martirio non sarebbe stano invano.
L'altra, invece,
suor Ginevra, sollevando con le mani ceree contro il lume della finestra
la carnicina or ora cucita, piegava da un lato la testa, la contemplava e
sorrideva.
Scendevano adesso
nella cappelletto in ore diverse, ciascuna a pregar sola; prendevano il
cibo nelle loro camerette e, quand'erano stanche di cucire e di pregare,
s'affacciavano alla finestra, oppresse già dal peso del corpo, a guardare
l'orto solingo e il mare vicino.
Venne la primavera,
e un bel mattino entrò, col sole, nella vecchia villa, Rosaria, ridente e
dimagrita, reggendo alto un grosso bimbo roseo tra le ruvide mani e
gridando per il corridojo:
- Eccolo qua! È
nato! è nato!
Entrò prima nella
cella di suor Agnese, che schiuse appena le labbra a un sorriso di
infinita tristezza, contemplando con gli occhi rossi di pianto il bimbo e
levando come a riparo davanti al seno le mani bianche.
- Coraggio,
coraggio, sorella mia! Si fa presto, sa? Vedrà che si fa presto! Vede
com'è bello? Ha gli occhi del padre. E guardi qua, guardi con quanti
capelli m'è nato!
Corse poi da suor
Ginevra e, senz'altro, le posò in grembo il piccino:
- A lei! Eccolo qua,
lo vede che cos'è? Pesa, no? pesa. Con la cuffietta che gli ha fatto lei;
e anche la camicina, vede?
Suor Ginevra si provò
a posare le labbra sul petto roseo del bimbo, che la madre aveva scoperto,
poi a sollevare su le mani il dolce peso, e con curiosità mista di pena
mirava i movimenti delle pàlpebre del neonato per adattar gli occhi a
resistere alla luce. Eccolo: uno così, tra poco, sarebbe nato da lei. E
non sapeva ancora come. Uno così!
Rosaria glielo tolse
per farlo vedere a suor Leonora; ma questa, storcendo la faccia, la
respinse, le gridò sulle furie che non voleva vederlo: via! via! via!
S'era spogliata
dell'abito. Non scendeva più a pregare. Passava l'intera giornata a
sedere sul letto, inerte, coi denti serrati e gli occhi a terra in una
dura e truce fissità. La notte le due compagne la intravedevano
dall'uscio delle loro camerette, andare su e giù per il corridojo
rischiarato a fasci dalla luna: tozza, enorme, con la testa da maschio e i
piedi nodi.
Farneticava.
E i tonfi cupi dei
passi nella sonorità del lungo corridojo impaurivano suor Ginevra.
La paura diventò
terrore una di quelle notti, allorché, destandosi di soprassalto, udì
certe grida laceranti e ululi lunghi e mugolai da belva ferita. Volle
accorrere; ma fu trattenuta sull'uscio dalla conversa la quale le annunziò
che, non suor Leonora urlava così, ma l'altra, l'altra: suor Agnese.
- È l'ora sua. Ora
si libera, poverina!
E suor Ginevra
rimase atterrita, addossata all'uscio, a udire quegli urli che non
parevano umani e che, partendo dalla campagna silenziosa, le
rappresentavano spaventosamente il mistero che si compiva di là. Avrebbe
tra poco urlato così anche lei? Come avrebbe fatto, debole e gracile
com’era, a resistere ai dolori che strappavano quegli urli?
E urli, altri urli,
ancora urli, poco dopo l'alba, più selvaggi, più lunghi, fra un gran
tramestio per il corridojo, le giunsero agli orecchi.
Gelata, allibita,
inginocchiata davanti al tettuccio, col rosario in mano, suor Ginevra
ascoltava e tremava tutta, senza ardire di alzarsi e di picchiare
all'uscio che la conversa aveva chiuso a chiave.
Seppe nel pomeriggio
che tutte e due le compagne s'erano liberate, e che ora riposavano
tranquille. Una domanda angosciosa le affiorò alle labbra, che subito
vani nel silenzio lugubre della villa. Non si sentiva alcun piccolo
vagito. La conversa apri le mani e scosse il capo mestamente, con gli
occhi socchiusi.
Salì, invece, da un
albero dell'orto un cinguettio, nella letizia serena del vespro
primaverile.
Tre
giorni dopo, sul far della sera, venne la volta di suor Ginevra.
Toccò allora alle
altre due, ormai consapevoli, di tremare alle grida disperate della
piccola compagna; grida, grida che strappavano altre grida di pietà e di
rivolta, come allo spettacolo d'una spietata atroce sopraffazione contro
un timido inerme, che invano si dia per vinto.
Tutt'a un tratto, le
grida tacquero nella notte. Fu per alcuni minuti, eterni, un silenzio
orribile. Poi si udì per il corridojo una corsa precipitosa, tra gemiti,
e suono di voci cupe tra fiati affannosi, là nella colletta in fondo al
corridojo. Le due compagne non seppero resistere più oltre all'angoscia
che le soffocava; scesero dal letto, si buttarono addosso le prime vesti
che vennero loro sotto mano e, vacillanti, s'avviarono a quella colletta.
Nessuno parlò. La
vecchia conversa ricomponeva sul letto le membra della morta, a cui nel
pallido, livido visino affilato erano rimasti semiaperti i dolci occhi
azzurri. E pareva che in quel pallore la piccola morta sorridesse
d'essersi liberata così
Assalita
all'improvviso da un impeto di singhiozzi, suor Agnese andò a buttarsi in
ginocchio accanto al letto. Ma suor Leonora? volgendo attorno obliquamente
gli occhi da matta, scorse in un angolo un movimento convulso dentro un
lenzuolo insanguinato tutto ravvoltolato per terra. Con una mossa da belva
balzò a quell'angolo, raccattò da terra una creaturina paonazza, che
emise un vagito rôco, e scappò nella sua cella: vi si chiuse, e con
gioja selvaggia offrì il seno che le scoppiava a quella creaturina.
La Madre Superiora,
accorsa alcune ore dopo dalla città, dovette stentare a lungo per
persuaderla a riaprire l'uscio. Pareva impazzita; si teneva quella
creaturina stretta al seno e gridava:
- La prendo io! la
prendo io! O datemi la mia! Butto via l'abito! Dio ha voluto troppo, ha
voluto troppo, ha voluto troppo!
Pian piano,
dolcemente, quella trovò il verso di sciogliere in lagrime quel fiero
ingorgo di demenza; e la piccina fu fatta sparire.
Poco dopo, le due
compagne superstiti piangevano e pregavano inginocchiate ai due lati del
letto della piccola morta, che certo aveva riaperto in paradiso i suoi
dolci occhi di cielo.
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