IL
VIAGGIO
Da tredici anni Adriana Braggi non usciva più dalla
casa antica, silenziosa come una badia, dove giovinetta era entrata sposa.
Non la vedevano più nemmeno dietro le vetrate delle finestre i pochi
passanti che di tanto in tanto salivano quell'erta via a sdrucciolo e
mezza dirupata, così solitaria che l'erba vi cresceva tra i ciottoli a
cespugli.
A ventidue anni, dopo quattro appena di matrimonio, con la morte del
marito era quasi morta anche lei per il mondo. Ne aveva ora trentacinque,
e vestiva ancora di nero, come il primo giorno della disgrazia; un
fazzoletto nero, di seta, le nascondeva i bei capelli castani, non più
curati, appena ravviati in due bande e annodati alla nuca. Tuttavia, una
serenità mesta e dolce le sorrideva nel volto pallido e delicato.
Di questa clausura nessuno si meravigliava in quell'alta cittaduzza
dell'interno della Sicilia, ove i rigidi costumi per poco non imponevano
alla moglie di seguire nella tomba il marito Dovevano le vedove starsene
chiuse così in perpetuo lutto, fino alla morte.
Del resto, le donne delle poche famiglie signorili, da fanciulle e da
maritate, non si vedevano quasi mai per via: uscivano solamente le
domeniche, per andare a messa; qualche rara volta per le visite che di
tempo in tempo si scambiavano tra loro. Sfoggiavano allora a gara
ricchissimi abiti d'ultima moda, fatti venire dalle primarie sartorie di
Palermo o di Catania, e gemme e ori preziosi; non per civetteria: andavano
serie e invermigliate in volto, con gli occhi a terra, impacciate, strette
accanto al marito o al padre o al fratello maggiore. Quello sfoggio era
quasi d'obbligo; quelle visite o quei due passi fino alla chiesa erano per
loro vere e proprie spedizioni da preparare fin dal giorno avanti. Il
decoro del casato poteva scapitarne; e gli uomini se ne impacciavano;
anzi, i più puntigliosi erano loro, perché volevano dimostrare così di
sapere e potere spendere per le loro donne.
Sempre sottomesse e obbedienti, queste si paravano com'essi volevano, per
non farli sfigurare; dopo quelle brevi comparse, ritornavano tranquille
alle cure casalinghe; e, se spose, attendevano a far figliuoli, tutti
quelli che Dio mandava {era questa la loro croce); se fanciulle,
aspettavano di sentirsi dire un bel giorno dai parenti: eccoti, sposa
questo; lo sposavano; quieti e paghi gli uomini di quella supina fedeltà
senza amore.
Soltanto la fede cieca in un compenso oltre la vita poteva far sopportare
senza disperazione il lento e greve squallore in cui volgevano le
giornate, una dopo l'altra tutte uguali, in quella cittaduzza montana,
così silenziosa che pareva quasi deserta, sotto l'azzurro intenso e
ardente del cielo, con le straducole anguste, male acciottolate, tra le
grezze casette di pietra e calce, coi doccioni di creta e i tubi di latta
scoperti.
A inoltrarsi fin dove quelle straducole terminavano, la vista della
distesa ondeggiante delle terre arse dalle solfare, accorava. Alido il
cielo, alida la terra, da cui nel silenzio immobile, addormentato dal
ronzio degli insetti, dal fritinnìo di qualche grillo, dal canto lontano
d'un gallo o dall'abbajare d'un cane, vaporava denso nell'abbagliamento
meridiano l'odore di tante erbe appassite, dal grassume delle stalle
sparso.
In tutte le case, anche nelle poche signorili, mancava l'acqua; nei vasti
cortili, come in capo alle vie, c'erano vecchie cisterne alla mercé del
cielo; ma anche d'inverno pioveva poco; quando pioveva era una festa:
tutte le donne mettevan fuori conche e buglioli, vaschette e botticine, e
stavano poi su gli usci con le vesti di baracane raccolte tra le gambe a
vedere l'acqua piovana scorrere a torrenti per i ripidi viottoli, a
sentirla gorgogliare nelle grondaie e per entro ai doccioni e ai cannoni
delle cisterne. Si lavavano i ciottoli, si lavavano i muri delle case, e
tutto pareva respirasse più lieve nella freschezza fragrante della terra
bagnata.
Gli uomini, tanto o
quanto, trovavano nella varia vicenda degli affari, nella lotta dei
partiti comunali, nel Caffè o nel Casino di compagnia, la sera, da
distrarsi in qualche modo; ma le donne, in cui fin dall'infanzia s'era
costretto a isterilire ogni istinto di vanità, sposate senz'amore, dopo
avere atteso come serve alle faccende domestiche sempre le stesse,
languivano miseramente con un bambino in grembo o col rosario in mano, in
attesa che l'uomo, il padrone, rincasasse.
Adriana Braggi non aveva amato affatto il marito.
Debolissimo di complessione e in continuo orgasmo per la cagionevole
salute, quel marito l'aveva oppressa e torturata quattr'anni, geloso fin
anche del fratello maggiore, a cui sapeva d'aver fatto, sposando, un grave
torto, anzi un vero tradimento. Ancora, là, di tutti i figli maschi
d'ogni famiglia ricca uno solo, il maggiore, doveva prendere moglie,
perché le sostanze del casato non andassero sparpagliate tra molti eredi.
Cesare Braggi, il fratello maggiore, non aveva mai dato a vedere d'essersi
avuto a male di quel tradimento, forse perché il padre, morendo poco
prima di quelle nozze, aveva disposto che il capo della famiglia rimanesse
lui e che il secondogenito ammogliato gli dovesse obbedienza intera.
Entrando nella casa antica dei Braggi, Adriana aveva provato una certa
umiliazione nel sapersi così soggetta al cognato. La sua condizione era
diventata doppiamente penosa e irritante, allorché il marito stesso,
nella furia della gelosia, le aveva lasciato intendere che Cesare aveva
già avuto in animo di sposar lei. Non aveva saputo più come contenersi
di fronte al cognato; e tanto più imbarazzo era cresciuto, quanto meno il
cognato aveva fatto pesare la sua potestà su lei, accolta fin dal primo
giorno con cordiale franchezza di simpatia e trattata come una vera
sorella.
Era di modi gentili, e nel parlare e nel vestire e in tutti i tratti,
d'una squisita signorilità naturale, che né il contatto della ruvida
gente del paese, né le faccende a cui attendeva, né le abitudini di
rilassata pigrizia, a cui quella vuota e misera vita di provincia induceva
per tanti mesi dell'anno, avevano potuto mai, non che arrozzire, ma
neppure alterare d'un poco.
Ogni anno, del resto, per parecchi giorni, spesso anche per più d'un
mese, s'allontanava dalla cittaduzza e dagli affari. Andava a Palermo, a
Napoli, a Roma, a Firenze, a Milano, a tuffarsi nella vita, a prendere -
com'egli diceva un bagno di civiltà. Ritornava da quei viaggi
ringiovanito nell'anima e nel corpo.
Adriana, che non aveva mai dato un passo fuori del paese natale, nel
vederlo rientrare così nella vasta casa antica, ove il tempo pareva
stagnasse in un silenzio di morte, provava ogni volta un segreto
turbamento indefinibile.
Il cognato recava con sé l'aria d'un mondo, che lei non riusciva nemmeno
a immaginare.
E il turbamento le cresceva, udendo le stridule risate del marito che di
là ascoltava il racconto delle saporite avventure occorse al fratello;
diventava sdegno, ribrezzo poi, la sera, allorché il marito, dopo quei
racconti del fratello, veniva a trovarla in camera, acceso, sovreccitato,
smanioso. Lo sdegno, il ribrezzo erano per il marito, e tanto più forti
quanto più ella vedeva invece il cognato pieno di rispetto, anzi di
riverenza per lei.
Morto il marito, Adriana aveva provato un'angoscia piena di sgomento al
pensiero di restar sola con lui in quella casa. Aveva, sì, i due piccini
che in quei quattro anni le erano nati; ma, benché madre, non era
riuscita a superare, di fronte al cognato, la sua nativa timidezza di
fanciulla. Questa timidezza, veramente, non era stata mai in lei ritrosia;
ma ora sì; e ne incolpava il marito geloso, che l'aveva oppressa con la
più sospettosa e obliqua sorveglianza.
Cesare Braggi, con squisita premura, aveva allora invitato la madre di lei
a venirsene a stare con la figliuola vedova. E a poco a poco Adriana,
liberata dall'esosa tirannia del marito, con la compagnia della madre,
aveva potuto, se non acquistare al tutto la pace, tranquillare alquanto lo
spirito. S'era dedicata con intero abbandono alla cura dei figliuoli,
prodigando loro quell'amore e quelle tenerezze che non avevano potuto
trovare uno sfogo nel matrimonio disgraziato.
Ogni anno Cesare aveva seguitato a fare il suo viaggio d'un mese nel
Continente, recando doni al ritorno così a lei come alla nonna e ai
nipotini, per i quali aveva sempre avuto le più delicate premure paterne.
La casa, senza il presidio d'un uomo, faceva paura alle donne,
segnatamente la notte. Nei giorni ch'egli era assente, pareva ad Adriana
che il silenzio, divenuto più profondo, più cupo, tenesse come sospesa
sulla casa una grande ignota sciagura; e con infinito sbigottimento udiva
stridere la carrucola dell'antica cisterna in capo all'erta via solitaria,
se un soffio di vento veniva a scuoterne la fune. Ma poteva egli, per
riguardo a due donne e a due piccini che in fondo non gli appartenevano,
privarsi di quell'unico svago dopo un anno di lavoro e di noja? Avrebbe
potuto non curarsi né tanto né poco di loro, vivere per sé, libero,
poiché il fratello gli aveva impedito di formarsi una famiglia sua; e
invece - come non riconoscerlo? - tolte quelle brevi vacanze, era tutto
dedito alla casa e ai nipotini orfani.
Col tempo, s'era addormentato ogni rammarico nel cuore di Adriana I
figliuoli crescevano, e lei godeva che crescessero con la guida di quello
zio. La sua dedizione era divenuta ormai totale cosicché si meravigliava
se il cognato o i figliuoli si opponevano a qualche cura soverchia che si
dava di loro. Le pareva di non far mai abbastanza. E a che avrebbe dovuto
pensare, se non a loro?
Era stato per lei un gran dolore la morte della madre: era venuta a
mancarle l'unica compagnia. Da un pezzo parlava con lei come con una
sorella; tuttavia, con la madre accanto, lei poteva pensarsi ancora
giovane, qual'era in fondo. Sparita la madre, con quei due figliuoli ormai
giovinetti, uno di sedici, l'altro di quattordici anni, già alti quasi
quanto lo zio, cominciò a sentirsi e a considerarsi vecchia.
Era in quest'animo, allorché per la prima volta le
avvenne di avvertire un vago malessere, una stanchezza, una oppressione un
po' a una spalla, un po' al petto; un certo dolor sordo che le prendeva
talvolta anche tutto il braccio sinistro e che di tratto in tratto
diventava lancinante e le toglieva il respiro.
Non ne mosse lamento; e forse nessuno lo avrebbe mai saputo, se un giorno
a tavola ella non avesse avuto l'assalto d'uno di quei fitti spasimi
improvvisi.
Fu chiamato il vecchio medico di casa, il quale fin da principio restò
costernato dal ragguaglio di quei sintomi. La costernazione crebbe dopo un
lungo e attento esame dell'inferma.
Il male era alla plèura. Ma di che natura? Il vecchio medico, con l'ajuto
d'un collega, tentò una puntura esplorativa, senza alcun esito. Poi,
notando un certo indurimento nelle glandole sopra e sottoscapolari,
consigliò al Braggi di condurre subito la cognata a Palermo, lasciando
intendere chiaramente che temeva fosse un tumore interno, forse
irrimediabile.
Partire subito non fu possibile. Adriana, dopo tredici anni di clausura,
era affatto sprovvista d'abiti per comparire in pubblico e per viaggiare.
Bisognò scrivere a Palermo per provvederla con la massima sollecitudine.
Cercò d'opporsi in tutti i modi, assicurando il cognato e i figliuoli che
non si sentiva poi così male. Un viaggio? Solo a pensarci, le venivano i
brividi. Era poi giusto il tempo che Cesare soleva prendersi le sue
vacanze d'un mese. Partendo con lui, gli avrebbe tolto la libertà, ogni
piacere. No, no, non voleva a nessun patto! E poi, come, a chi avrebbe
lasciato i figliuoli? a chi affidato la casa? Metteva avanti tutte queste
difficoltà; ma il cognato e i figliuoli gliele abbattevano con una
risata. Si ostinava a dire che il viaggio le avrebbe fatto certo più
male. Oh, buon Dio, se non sapeva più neppure come fossero fatte le
strade! Non avrebbe saputo muovervi un passo! Per carità, per carità, la
lasciassero in pace!
Quando da Palermo arrivarono gli abiti e i cappelli, fu per i due
figliuoli un tripudio.
Entrarono esultanti con le grosse scatole avvolte nella tela cerata, in
camera della madre, gridando, strepitando, ch'ella dovesse subito subito
provarseli. Volevano veder bella la loro mammina, come non la avevano
veduta mai. E tanto dissero, tanto fecero, che dovette arrendersi e
contentarli.
Erano abiti neri, da lutto anche quelli, ma ricchissimi e lavorati con
meravigliosa maestria. Ormai ignara affatto di mode, inesperta, non sapeva
da che parte prenderli per vestirsene. Dove e come agganciare i tanti
uncinetti che trovava qua e là? Quel colletto, oh Dio, così alto? E
quelle maniche, con tanti sbuffi... Usavano adesso così?
Dietro l'uscio, intanto, tempestavano i figliuoli, impazienti:
- Mamma, fatto? Ancora?
Come se la mamma di là stésse ad abbigliarsi per una festa! Non
pensavano più alla ragione per cui quegli abiti erano arrivati; non ci
pensava più, veramente, nemmeno lei, in quel momento.
Quando, tutta confusa, accaldata, levò gli occhi e si vide nello specchio
dell'armadio, provò un'impressione violentissima, quasi di vergogna.
Quell'abito, disegnandole con procacissima eleganza i fianchi e il seno,
le dava la sveltezza e l'aria d'una fanciulla. Si sentiva già vecchia: si
ritrovò d'un tratto in quello specchio, giovane, bella; un'altra!
- Ma che! ma che! Impossibile! - gridò, storcendo il collo e levando una
mano per sottrarsi a quella vista.
I figliuoli, l'esclamazione, cominciarono a picchiare più forte all'uscio
con le mani, coi piedi, a sospingerlo, gridandole che aprisse, che si
facesse vedere.
Ma che! no! Si vergognava. Era una caricatura! No, no.
Ma quelli minacciarono di buttar l'uscio a terra. Dovette aprire.
Restarono anch'essi, i figliuoli, abbagliati dapprima da quella
trasformazione improvvisa. La mamma cercava di schermirsi, ripetendo: - Ma
no, lasciatemi! ma che! impossibile! siete matti? - quando sopravvenne il
cognato. Oh, per pietà! Tentò di scappare, di nascondersi, come se egli
l'avesse sorpresa nuda. Ma i figliuoli la tenevano; la mostrarono allo zio
che rideva di quella vergogna.
- Ma se ti sta proprio bene! - disse egli, alla fine, ritornando serio. -
Su, lasciati vedere.
Si provò ad alzare il capo.
- Mi pare d'essere mascherata...
- Ma no! Perché? Ti sta invece benissimo. Voltati un poco... così, di
fianco...
Obbedì, sforzandosi di parer calma; ma il seno, ben disegnato dall'abito,
le si sollevava al frequente respiro che tradiva l'interna agitazione
cagionata da quell'esame attento e tranquillo di lui, espertissimo
conoscitore.
- Va proprio bene. E i cappelli?
- Certe ceste! - esclamò Adriana, quasi sgomenta.
- Eh sì, usano grandissimi.
- Come farò a mettermeli in capo? bisognerà che mi pettini in qualche
altro modo.
Cesare tornò a guardarla, calmo, sorridente; disse:
- Ma sì, hai tanti capelli...
- Sì, sì, brava mammina! Pettinati subito! - approvarono i figliuoli.
Adriana sorrise mestamente:
- Vedete che mi fate fare? - disse, rivolgendosi anche al cognato.
La partenza fu stabilita per la mattina appresso.
Sola con lui!
Lo seguiva in uno di quei viaggi, a cui un tempo pensava con tanto
turbamento. E un solo timore aveva adesso: quello di apparire turbata a
lui che le stava davanti, tutto intento a lei, ma tranquillo come sempre.
Questa tranquillità di lui, naturalissima, avrebbe fatto stimare a lei
indegno il suo turbamento e tale da doverne arrossire, ove ella, con una
finzione quasi cosciente, appunto per non doverne aver vergogna e
raffinarsi di se medesima, non gli avesse dato un'altra cagione: la
novità stessa del viaggio, l'assalto di tante impressioni strane alla sua
anima chiusa e schiva. E attribuiva lo sforzo che faceva su se stessa per
dominare quel turbamento (il quale tuttavia, così interpretato, non
avrebbe avuto nulla di riprovevole) alla convenienza di non darsi a vedere
tanto nuova delle cose e meravigliata, di fronte a uno che, per esser da
tanti anni esperto di tutto e padrone sempre di sé, avrebbe potuto
provarne fastidio e dispiacere. Anche ridicola, infatti, avrebbe potuto
apparire, alla sua età, per quella meraviglia quasi infantile che le
ferveva negli occhi.
Si costringeva pertanto a frenare l'ilare ansia febbrile dello sguardo e a
non voltare continuamente il capo da un finestrino all'altro, come aveva
la tentazione di fare per non perdere nulla delle tante cose, su cui i
suoi occhi, così in fuga, si posavano un attimo per la prima volta. Si
costringeva a nascondere la maraviglia, a dominare quella curiosità, che
pure le avrebbe giovato tener desta e accesa, per vincere con essa lo
stordimento e la vertigine che il rombar cadenzato delle ruote e quella
fuga illusoria di siepi e d'alberi e di colli le cagionavano.
Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni giro di ruota,
aveva l'impressione di penetrare, d'avanzarsi In un mondo ignoto, che d
improvviso le si creava nello spirito con apparenze che? per quanto le
fossero vicine, pur le sembravano come lontane e le davano, insieme col
piacere della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e
indefinibile: la pena ch'esse fossero sempre esistite oltre e fuori
dell'esistenza e anche dell'immaginazione di lei; la pena d'essere tra
loro estranea e di passaggio, e ch'esse senza di lei avrebbero seguitato a
vivere per sé con le loro proprie vicende.
Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e
strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei
nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue
abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a
vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno:
tanti e tanti lì nascevano e lì crescevano e morivano, senza aver visto
nulla di quel che ora andava a veder lei in quel suo viaggio, che era
così poco a petto della grandezza del mondo, e che tuttavia a lei
sembrava già tanto.
Nel volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il
sorriso del cognato, che le domandava:
- Come ti senti?
Gli rispondeva con un cenno del capo:
- Bene.
Più d'una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e
nominarle un paese lontano, ov'era stato, e quel monte là dal profilo
minaccioso, tutti gli aspetti di maggior rilievo che si figurava dovessero
più vivamente richiamare l'attenzione di lei. Non intendeva che tutte le
cose, anche le minime, quelle che per lui erano le più comuni, destavano
intanto in lei un tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazioni, le
notizie ch'egli le dava, anziché accrescere, diminuivano e raffreddavano
quella fervida, fluttuante immagine di grandezza, ch'ella, smarrita, con
quel sentimento di pena indefinibile, si creava alla vista di tanto mondo
ignoto.
Nel tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché
far luce, le cagionava quasi un arresto bujo e violento, pieno di fremiti
pungenti; e allora quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei,
più distinto. Si vedeva meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un
oscuro e quasi ostile rincrescimento della vista di tutte quelle cose che
ora, troppo tardi per lei, all'improvviso, le riempivano gli occhi e le
entravano nell'anima.
A Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo
la lunghissima visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato
per nascondere la profonda costernazione, dalla premura affettata con cui
ancora una volta aveva voluto farsi insegnare il modo di usare la medicina
prescritta e dell'aria con cui il medico gli aveva risposto; comprese bene
che questi aveva dato su lei la sentenza di morte, e che quella mistura di
veleni da prendere a gocce con molta precauzione, due volte al giorno
prima dei pasti, non era altro che un inganno pietoso o il viatico di una
lenta agonia.
Eppure, appena, ancora un po' stordita e disgustata dal diffuso odore
dell'etere nella casa del medico, uscì dall'ombra della scala sulla via,
nell'abbagliamento del sole al tramonto, sotto un cielo tutto di fiamma
che dalla parte della marina lanciava come un immenso nembo sfolgorante
sul Corso lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d'oro il
brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi
purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati, quasi di pietre
preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle botteghe; la
vita, la vita, la vita soltanto si sentì irrompere in subbuglio
nell'anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un'ebbrezza
divina; né poté avere alcuna angustia, neppure un fuggevole pensiero per
la morte prossima e inevitabile per la morte ch'era pure già dentro di
lei, appiattata là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a tratti
sentiva le punture. No, no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno che
le sconvolgeva lo spirito, le faceva impeto intanto alla gola, ove non
sapeva che cosa, quasi un'antica pena sommossa dal fondo del suo essere le
si era a un tratto ingorgata, ed ecco la forzava alle lagrime, pur fra
tanta gioja.
- Niente, niente... - disse al cognato, con un sorriso che le s'illuminò
vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. - Mi par d'essere... non
so... Andiamo, andiamo...
- All'albergo?
- No... no...
- Andiamo allora a cenare allo «Châlet» a mare, al Foro Italico; ti
piace?
- Sì, dove vuoi.
- Benissimo. Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la
musica...
Montarono in vettura e andarono incontro a quel nembo sfolgorante, che
accecava.
Ah, che serata fu quella per lei, nello «Châlet» a mare, sotto la luna,
alla vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di
vetture scintillanti, tra l'odore delle alghe che veniva dal mare, il
profumo delle zagare che veniva dai giardini! Smarrita come in un incanto
sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi
interamente, l'angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto
vedeva, si sentiva lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né
coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.
L'impressione di questa lontananza infinita, la riebbe più intensa la
mattina seguente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del
parco della Favorita, perché, a un certo punto, con un lunghissimo
sospiro poté quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur
senza rompere l'incanto né turbare l'ebbrezza di quel sogno nel sole, tra
quelle piante che parevano assorte anch'esse in un sogno senza fine.
E, senza volerlo, si voltò a guardare il cognato, e gli sorrise, per
gratitudine.
Subito però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé
condannata a morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi
stupiti tante bellezze maravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe
potuto essere qual era per tante creature che lì vivevano. E sentì che
forse era stata una crudeltà farla viaggiare.
Ma poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale
remoto, ed ella sorretta da lui ne scese per vedere da vicino la fontana
d'Ercole; Il davanti a quel la fontana, sotto il cobalto del cielo così
intenso che quasi pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea del
semidio su l'alta colonna sorgente in mezzo all'ampia conca, chinandosi a
guardare l'acqua vitrea, su cui natava qualche foglia, qualche cuora
verdastra che riflettevano l'ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulio
di quell'acqua, vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile
delle sfingi che guardano la conca, quasi un'ombra di pensiero si sentì
anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da
quell'acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le
allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d'altri cieli le si
accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì
d'attingere in quel punto quasi l'eternità, d'acquistare una lucida,
sconfinata coscienza di tutto, dell'infinito che si nasconde nella
profondità dell'anima misteriosa, e d'aver vissuto, e che le poteva
bastare, perché era stata in un attimo, in quell'attimo, eterna.
Propose al cognato di ripartire quello stesso giorno.
Voleva ritornarsene a casa, per lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni
sottratti alle sue vacanze. Un altro giorno egli avrebbe perduto per
riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via, la sua corsa annuale per
paesi più lontani, oltre quell'infinito mare turchino. Senza timore
poteva, ché di sicuro lei non sarebbe morta così presto, in quel mese
delle sue vacanze.
Non gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse
contento di ricondurla al paese.
- Ma no, perché? - le rispose egli. - Ormai ci siamo; tu verrai con me a
Napoli. Consulteremo là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.
- No, no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. E inutile!
- Perché? Nient'affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.
- Non basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene,
vedi? Farò la cura. Basterà.
Egli la guardò serio e disse:
- Adriana, desidero così.
E allora ella non poté più replicare: vide in sé la
donna del suo paese che non deve mai replicare a ciò che l'uomo stima
giusto e conveniente; pensò che egli volesse per sé la soddisfazione di
non essersi contentato d'un solo consulto, la soddisfazione che gli altri,
là in paese, domani, alla morte di lei, potessero dire: «Egli fece di
tutto per salvarla; la portò a Palermo, anche a Napoli...». O forse era
in lui veramente la speranza che un altro medico di più lontano, più
bravo, riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per salvarla? O
forse... ma sì, questo era da credere piuttosto: sapendola
irremissibilmente perduta, egli voleva, poiché si trovava in viaggio con
lei, procurarle quell'ultimo e straordinario svago, come un tenue compenso
alla crudeltà della sorte.
Ma ella aveva odore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo
a guardarlo, con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato quasi avesse
dovuto attraversarlo a nuoto.
- Ma no, vedrai - la rassicurò egli, sorridendo. - Non avvertirai neppure
d'esserci, di questa stagione. Vedi com'è tranquillo? E poi vedrai il
piroscafo... Non sentirai nulla.
Poteva ella confessargli l'oscuro presentimento che la angosciava alla
vista di quel mare, che cioè, se fosse partita, se si fosse staccata
dalle sponde dell'isola che già le parevano tanto lontane dal suo
paesello e così nuove; in cui già tanta agitazione, e così strana,
aveva provato; se con lui si fosse avventurata ancor più lontano, con lui
sperduta nella tremenda, misteriosa lontananza di quel mare, non sarebbe
più ritornata alla sua casa, non avrebbe più rivalicato quelle acque, se
non forse morta? No, neanche a se stessa poteva confessarlo questo
presentimento; e credeva anche lei a quell'orrore del mare, per il solo
fatto che prima non lo aveva mai neppur veduto da lontano; e, doverci ora
andar sopra...
S'imbarcarono quella sera stessa per Napoli.
Di nuovo, appena il piroscafo si mosse dalla rada e usò dal porto,
passato lo stordimento per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che
saliva e scendeva per il pontile, vociando, e lo stridore delle grue su le
stive; vedendo a grado a grado allontanarsi e rimpiccolirsi ogni cosa, la
gente su lo scalo, che seguitava ad agitare in saluto i fazzoletti, la
rada, le case, finché tutta la città non si confuse in una striscia
bianca, vaporosa, qua e là trapunta da pallidi lumi sotto la chiostra
ampia dei monti grigi rossigni; di nuovo si sentì smarrire nel sogno, in
un altro sogno maraviglioso, che le faceva però sgranare gli occhi di
sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur grande, sì, ma forse
fragile se vibrava tutto così ai cupi tonfi cadenzati delle eliche,
entrava nelle due immensità sterminate del mare e del cielo.
Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad alzarsi e passandole con
una intimità che finora non s'era mai permessa un braccio sotto il
braccio, per sorreggerla, la condusse a vedere di là, su la coperta
stessa, i lucidi possenti stantuffi d'acciaio che movevano quelle eliche.
Ma ella, già turbata di quel contatto insolito, non poté resistere a
quella vista e più al fiato caldo, al tanfo crasso che vaporavano di là,
e fu per mancare e reclinò e quasi appoggiò il capo su la spalla di lui.
Si contenne subito, quasi atterrita di quella voglia istintiva d'abbandono
a cui stava per cedere.
E di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:
- Ti senti male?
Col capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due,
così a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia fervida
fosforescente sul mare già divenuto nero sotto il cielo polverato di
stelle, in cui il tubo enorme della ciminiera esalava con continuo sbocco
il fumo denso e lento, quasi arroventato dal calore della macchina.
Finché, a compir l'incanto, non sorse dal mare la luna; dapprima tra i
vapori dell'orizzonte come una lugubre maschera di fuoco che spuntasse
minacciosa a spiare in un silenzio spaventevole quei suoi dominii d'acqua;
poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi precisa nel suo niveo
fulgore che allargò il mare in un argenteo palpito senza fine. E allora
più che mai Adriana sentì crescersi dentro l'angoscia e lo sgomento di
quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere,
esausta, la faccia sul petto di lui.
Fu a Napoli, in un attimo, nell'uscire da un
caffè-concerto, ove avevano cenato e passato la sera. Solito egli, nei
suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei ritrovi con una donna sotto
il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse all'improvviso sotto il gran
cappello nero piumato il guizzo d'uno sguardo acceso, e subito, quasi
senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta rapida e
forte contro il suo petto. Fu tutto. L'incendio divampò.
Là, al bujo, nella vettura che li riconduceva all'albergo, allacciati,
con la bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi
momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al
guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti
anni di silenzio e di martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza
volerlo, senza saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la
aveva desiderata, nel sogno di farla sua, così, sua! sua!
Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile
la brama di ricompensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale
di lei, di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta
febbre; il bisogno d'accecarsi, di perdersi, di non vedersi quali finora
l'uno per l'altra erano stati per tanti anni, nelle composte apparenze
oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro
amore, le loro nozze domani sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.
Che nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell'atto quasi sacrilego
per rutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai tanto poco da
vivere? No, no: l'amore, quell'amore frenetico e travolgente, in quel
viaggio di pochi giorni; viaggio d'amore, senza ritorno; viaggio d'amore
verso la morte.
Non poteva più ritornare laggiù, davanti ai figliuoli. Lo aveva ben
presentito, partendo; lo sapeva che, passando il mare, sarebbe finita per
lei. E ora, via, via, voleva andar via, più sé, più lontano, così in
braccio a lui, cieca, fino alla morte.
E così passarono per Roma, poi per Firenze, poi per Milano, quasi senza
veder nulla. La morte, annidata in lei, con le sue trafitture, li
fustigava, e fomentava l'ardore.
- Niente! - diceva a ogni assalto, a ogni morso. - Niente...
E porgeva la bocca, col pallore della morte sul volto.
- Adriana, tu soffri...
- No, niente! Che m'importa?
L'ultimo giorno, a Milano, poco prima di partire per Venezia, si vide
nello specchio, disfatta. E quando, dopo il viaggio notturno, le si aprì
nel silenzio dell'alba la visione di sogno, superba e malinconica, della
città emergente dalle acque, comprese che era giunta al suo destino; che
lì il suo viaggio doveva aver fine.
Volle tuttavia avere il suo giorno di Venezia. Fino alla sera, fino alla
notte, per i canali silenziosi, in gondola. E tutta la notte rimase
sveglia, con una strana impressione di quel giorno: un giorno di velluto.
Il velluto della gondola? il velluto dell'ombra di certi canali? Chi sa!
Il velluto della bara.
Com'egli, la mattina seguente, scese dall'albergo per andare a impostare
alcune lettere per la Sicilia, ella entrò nella camera di lui: scorse sul
tavolino una busta lacerata; riconobbe i caratteri del maggiore dei suoi
figliuoli: si portò quella busta alle labbra e la baciò disperatamente;
poi entrò nella sua camera; trasse dalla borsa di cuojo la boccetta con
la mistura dei veleni intatta, si buttò sul letto disfatto e la bevve
d'un sorso.
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