PIRRONE DI ELIDE
A cura di Marco Machiorletti
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Pirrone nacque a Elide fra il 365 e il 360 a.C. Inizialmente esercitò la pittura e in seguito si dedicò alla filosofia, ascoltando dapprima maestri delle Scuole socratiche (in particolare la scuola megarica), e poi Anassarco di Abdera, che gli fece conoscere il pensiero democriteo. Insieme ad Anassarco, Pirrone prese parte alla spedizione di Alessandro in Oriente (334-324 a.C.): un avvenimento, questo, che incise profondamente nel suo animo. Intorno al 324/323 a.C., Pirrone tornò a Elide, dove visse e insegnò la sua nuova visione della vita, con successo. Morì fra il 275 e il 270 a.C. Egli non scrisse nulla (eccetto un carme in onore di Alessandro).
Il suo discepolo Timone di Fliunte fissò per iscritto le dottrine pirroniane.
Pirrone, dalla nativa città di Elide, a partire dal 323 a.C. (o poco dopo), diffondeva il suo nuovo verbo scettico, e dava così inizio a un movimento di pensiero destinato ad avere notevoli sviluppi nel mondo antico.
Egli non fondò una vera e propria Scuola e non volle neppure mettere per iscritto la sua parola. Si prodigò invece per riprendere l’esempio di Socrate, convinto che attraverso la parola, e anzi nemmeno attraverso la parola ma soprattutto attraverso la testimonianza della vita, si dovesse e si potesse comunicare il più autentico messaggio della saggezza filosofica.
I suoi discepoli si legarono a lui al di fuori degli schemi tradizionali; più che di veri e propri discepoli si trattò di estimatori, di ammiratori e di imitatori: uomini che nel maestro cercarono soprattutto un nuovo modello di vita, un paradigma esistenziale a cui fare costante riferimento, soprattutto una prova sicura che, malgrado i tragici eventi che sconvolgevano i tempi, e malgrado il crollo dell’antica tavola dei valori etico-politici, la felicità era tuttavia raggiungibile.
Pirrone cercava di dimostrare come sia possibile vivere una vita felice, anche senza la verità e senza quei valori che erano stati venerati in passato.
Il Giardino e la Stoà – che sorsero pochi lustri dopo – quando già il verbo di Pirrone cominciava a diffondersi lentamente, pur concordando nell’attribuire al saggio una serie di caratteri esistenziali già chiaramente individuati dal nostro filosofo, assunsero tuttavia una posizione diametralmente opposta, proclamando, con estrema risolutezza, che al saggio sono indispensabili «dogmi» e «certezze», e quindi ribadirono la convinzione greca che l’essere e la verità esistono e sono raggiungibili dall’uomo, e che la regola del vivere felici può scaturire solo da queste acquisizioni, e, dunque, dalla ricostruzione di una precisa tavola di valori.
Come è giunto Pirrone al rovesciamento di questa convinzione, così ben radicata? E come ha potuto dedurre una «regola di vita» e costruire una «saggezza», rinunciando all’essere e alla verità e dichiarando ogni cosa vana apparenza?
Una risposta a questi problemi può essere data solo tenendo conto dei seguenti tre fattori essenziali:
a) il momento storico in cui maturò il pensiero di Pirrone, e, in particolare, la sua partecipazione alla grande spedizione di Alessandro;
b) l’incontro con l’Oriente, che gli rivelò una tipologia di «saggezza» del tutto sconosciuta ai Greci;
c) i maestri e le correnti filosofiche greche da cui egli desunse gli strumenti concettuali per l’elaborazione e per la formulazione del suo pensiero.
La spedizione di Alessandro nonché la conquista dell’Oriente, e, in generale, la rivoluzione dell’assetto politico e ideologico del mondo antico da lui operato, significarono il crollo delle poleis, la distruzione della libertà come era stata tradizionalmente intesa, la rottura dell’identificazione di uomo e cittadino, la parificazione tra Greci e barbari, l’affermazione del cosmopolitismo, la scoperta e l’esaltazione dell’individuo, la diffusione della cultura ellenica con la conseguente assimilazione di elementi propri di altre culture, e, in particolare, di quelle orientali.
Pirrone partecipò, insieme al filosofo Anassarco di Abdera, alla grande spedizione di Alessandro e assistette di persona allo svolgersi dei grandi eventi, proprio al fianco della eccezionale personalità del protagonista, il quale andava distruggendo ciò che fino ad allora era stato ritenuto indistruttibile, faceva crollare le più antiche e radicate opinioni dei Greci e apriva alla storia sconcertanti prospettive.
Non è dunque sorprendente il fatto che proprio il pensiero di Pirrone, più di quello degli altri filosofi, abbia risentito del violento impatto con queste nuove realtà.
La spedizione di Alessandro costituì un avvenimento – per così dire – di rottura; così, analogamente, anche il pensiero pirroniano rappresentò «una filosofia di rottura», vale a dire un pensiero che segnò esso pure un repentino passaggio da un mondo a un altro.
In effetti, Pirrone si situa nel preciso momento in cui la coscienza perde alcune verità e non riesce ancora a trovarne altre, e dunque, come è stato efficacemente detto, egli si colloca «al momento zero della verità».
Fra le varie esperienze che Pirrone ebbe al seguito di Alessandro e che lo influenzarono in vario modo, una fu di importanza eccezionale, e, in certa misura, determinante: l’incontro con i «Gimnosofisti» (“sapienti nudi”), che praticavano una vita monastica, tutta tesa al superamento dei bisogni umani, all’esercizio di rinuncia alle cose e alla conquista dell’impassibilità.
L’influsso dei Gimnosofisti su Pirrone fu già rilevato con accuratezza dagli antichi, come riferisce Diogene Laerzio:
“Pirrone ebbe la possibilità di avere rapporti con i Gimnosofisti in India e con i Magi. Di qui attinse maggiore stimolo per le sue convinzioni filosofiche e pare che egli si aprì la via più nobile nella filosofia, in quanto introdusse ed adottò i principi dell’acatalessia (cioè della irrappresentabilità o incomprensione delle cose) e dell’epoché (cioè della sospensione del giudizio); questo primato gli viene attribuito da Ascanio di Abdera”. (Vite dei filosofi, IX, 61)
Ma c’è di più: gli storici ci riferiscono anche un episodio concernente uno di questi Gimnosofisti, di nome Calano, che ebbe grande eco. Calano si diede volontariamente la morte, gettandosi tra le fiamme e sopportando con impassibilità gli spasimi delle ustioni. Calano, dunque, dimostrava che, se è possibile accogliere con impassibilità anche quelli che sono considerati i peggiori dei mali, questi non debbono avere di per sé quella «realtà» e quella «natura» che vengono loro comunemente attribuite e che, in ogni caso, il saggio può essere in grado di porsi al di sopra di essi.
Pirrone nella testimonianza di Calano vide la dimostrazione di quell’idea che era destinata a trionfare nell’età ellenistica (la si ritrova in Epicuro e negli Stoici), e cioè che il saggio può essere felice anche fra i tormenti.
Certamente l’incontro con i Gimnosofisti e con Calano dovette contribuire, congiuntamente e contemporaneamente al crollo dei valori classici della Grecità che Alessandro stava provocando, a far maturare in Pirrone la convinzione «dell’irrealtà di tutto ciò che sembra “reale”», cioè l’idea fondamentale del suo Scetticismo, a livello di intuizione emozionale; invece gli strumenti concettuali per la formulazione della medesima vennero al filosofo dalle Scuole filosofiche greche, e in modo particolare dalla Scuola atomistica e da quella megarica.
I contatti di Pirrone con l’Atomismo avvennero mediante Anassarco.
Scrive Diogene Laerzio:
“Anassarco nacque ad Abdera. Fu alunno di Diogene di Smirne, il quale a sua volta fu alunno di Metrodoro di Chio, che era solito dire che non sapeva nulla, neppure che non sapeva nulla. Dicono che Metrodoro sia stato alunno di Nessa di Chio, ma corre anche la versione che sia stato alunno di Democrito”. (Vite dei filosofi, IX, 38)
Del resto Pirrone menzionava frequentemente Democrito.
La testimonianza sopra riportata, confermata da molte altre, ci dice che già il maestro di Anassarco faceva affermazioni di sapore scettico, e Sesto Empirico, accomunando col maestro anche il discepolo, scrive:
“E non pochi erano […] quelli che dicevano che anche Metrodoro e Anassarco […] negarono l’esistenza del criterio di giudizio; anzitutto Metrodoro, perché disse: «Nulla sappiamo, e non sappiamo neppure questa cosa, che nulla sappiamo». (Contro i matematici, VII, 87 sg.)
Ma nelle opere dello stesso Democrito abbondavano critiche ai sensi e alla conoscenza sensibile che potevano essere sfruttate in senso scettico e che, in effetti, divennero assai care agli Scettici; in modo particolare, piacque loro la seguente affermazione: “in realtà nulla noi conosciamo, perché la verità giace nell’abisso”.
Ora, è vero che Democrito diceva tutto questo riferendosi esclusivamente alla conoscenza sensoriale e che riteneva di raggiungere la verità «nel suo profondo» tramite la conoscenza intellettiva (com’è noto, per Democrito veri erano gli atomi e il vuoto): tuttavia egli presuppose l’esistenza della conoscenza intellettiva, senza riuscirla a giustificarla teoreticamente, sicché era pressoché inevitabile che (prima che Epicuro riformasse in maniera puramente sensistica la gnoseologia atomistica) le critiche alla conoscenza sensibile finissero per assumere un peso tale da alimentare largamente le istanze scettiche.
Anche dalla dialettica dei Megarici Pirrone dovette desumere elementi scettici; infatti l’originario principio positivo affermato da Euclide, ossia l’unità dell’Essere e del Bene, che essi intendevano difendere con la loro confutazione e distruzione delle tesi di fondo del pluralismo, venne reso sempre meno esplicito e, talora, addirittura taciuto.
Dall’Atomismo e dal Megarismo, dunque, Pirrone poté trarre una serie di concetti e di deduzioni che, al servizio di quella nuova intuizione del senso della vita e delle cose emozionalmente colta e maturata durante la spedizione di Alessandro, generò il suo scetticismo.
Pirrone nega sia la «fisica» sia la «metafisica», e, in generale, ogni forma di ontologia in quanto tale.
Il ripudio dell’ontologia in senso «fisico», ossia presocratico, è chiaramente attestato dal seguente frammento di Timone di Fliunte, l’allievo di Pirrone:
“O vecchio, o Pirrone, come e dove trovasti scampo dalla servitù alle vane e false opinioni dei Sofisti, e spezzasti le catene di tutti gli inganni e l’incanto delle loro ciance? Né ti curasti di investigare quali venti corrano nell’Ellade, né da che si formi ogni cosa e in che si risolva”.
Il rifiuto dell’ontologia platonica, dell’Idea, della forma e della sostanza aristotelica è netto. L’Idea platonica e la forma aristotelica, sia pure in differente modo, fondano la natura delle cose, la loro intelligibilità e, quindi, la possibilità della loro conoscenza, nonché la stabilità e l’eternità dei valori. Tutte le cose, insomma, nell’ontologia platonico-aristotelica, hanno una «stabilità nell’essenza», e pertanto possiedono una differenziazione, una misura e una discriminazione oggettiva. Al contrario, secondo Pirrone le cose non hanno alcuna differenza, né misura, né discriminazione. Ne segue che non esistono valori, e niente è per natura brutto o bello, buono o cattivo, giusto o ingiusto e tutto indifferentemente si equivale (e anche non si equivale), giacché per Pirrone niente è più questo che quello.
Potremmo dunque affermare che egli respinge le istanze di ogni forma di ontologia in quanto tale. Infatti, mentre il cammino dell’ontologia va dalle apparenze all’essere, all’opposto Pirrone si ritrae dall’essere alle apparenze, negando recisamente che ci sia l’essere, e quindi che sia possibile qualsiasi giudizio sull’essere e riconoscendo per conseguenza soltanto l’apparire. Dunque, secondo Pirrone, non domina l’essere ma l’apparire:
“Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia”. (Timone, fr.69 Diels)
Ma come e che cosa può costruire Pirrone su questo azzeramento dell’essere e dei suoi principi?
I Sofisti, che negarono l’essere e la verità, spostarono la loro fiducia sull’uomo, inteso come «misura di tutte le cose»; Pirrone non ha più fiducia nemmeno nell’uomo, perché ne sente la nullità. Non a caso, ci viene riferito che Pirrone apprezzava i versi di Omero in cui si canta la fragilità, la pochezza, la miseria e la nullità dell’uomo:
“Filone ateniese, suo intimo amico, diceva che Pirrone menzionava spessissimo Democrito, ma poi anche Omero, che egli ammirava e di cui era solito citare il verso:
Quale la stirpe delle foglie, tale anche quella degli uomini.
E lo lodava anche perché soleva paragonare gli uomini alle vespe, alle mosche e agli uccelli. E citava volentieri anche i seguenti versi:
Dunque, amico, pure tu muori! Perché così piangi il tuo [destino]?
Morì anche Patroclo che era molto più valoroso di te.
E tutti i passi che alludono all’instabilità della condizione umana, all’inutilità dei propositi e alla fanciullesca follia dell’uomo”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 67)
Allora, se criterio non è più l’essere e se criterio non può essere nemmeno l’uomo, dove lo cercheremo? La risposta di Pirrone è: «da nessuna parte». Il criterio è la rinuncia al criterio.
Riferisce il peripatetico Aristocle, attingendo direttamente dalle opere di Timone di Fliunte:
“[Pirrone] non ha lasciato nulla di scritto, ma il suo discepolo Timone dice che colui che vuole essere felice deve considerare queste tre cose: 1) in primo luogo, quale è la natura delle cose; 2) in secondo luogo, in quale modo dobbiamo disporci nei confronti di esse; 3) in terzo luogo; che cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione. 1) Orbene, egli dice che Pirrone mostra che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. 2) Per conseguenza, non bisogna accordare ad esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. 3) Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno, dice Timone, in primo luogo l’afasia, e poi l’atarassia”. (Aristocle, fr.6 Heiland)
Questo passo contiene nei tre punti che sono così lucidamente stabiliti lo statuto dello Scetticismo pirroniano e quindi la matrice dalla quale scaturiranno tutte le forme dello Scetticismo posteriore.
Ma, prima di passare all’analisi dei tre punti, è bene sottolineare il significato e la portata della premessa, in cui si dice che la considerazione di questi punti deve essere fatta da «colui che vuole essere felice». L’aspetto «eudemonistico» prevale, dunque, nettamente nel pensiero di Pirrone.
I tre principi cardinali dello Scetticismo pirroniano esprimono un sistema pratico di saggezza, e in questo spirito vanno letti e interpretati.
Dei tre il più difficile da interpretare è il primo, che è anche il più importante.
La difficoltà sta in questo: le cose sono in se stesse indifferenti, immisurabili e indiscernibili, oppure sono tali non in se stesse, ma solo per noi?
L’indifferenza delle cose è oggettiva o soggettiva?
La maggior parte degli interpreti (in gran parte sotto l’influenza dello Scetticismo posteriore) ha creduto che Pirrone intendesse dire semplicemente che noi uomini non abbiamo strumenti adeguati (sensi e ragione) per riuscire a cogliere le differenze, le misure e le determinazioni delle cose. Ma, in realtà, il testo pare affermare il contrario: non dice, cioè, che, poiché sensi e opinioni sono inadeguati, le cose per noi risultano indifferenziate, immisurate e indiscriminate; ma dice, all’opposto, che le cose stesse sono indifferenti, immisurate e che proprio in conseguenza di questo sensi e opinioni non possono né dire il vero né il falso. Insomma, sono le cose che rendono sensi e ragione incapaci di verità e di falsità, e non viceversa. È, questa, una conseguenza necessaria che scaturisce dalla negazione dell’essere, dell’eidos e della sostanza, è, cioè, la posizione che scaturisce dalla negazione dell’ontologia platonico-aristotelica.
Una chiara conferma la troviamo in un passo di Diogene Laerzio:
“Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello”. (Vite dei filosofi, IX, 61)
I valori etici e in genere tutti i valori, così come tutte le cose, non hanno una loro statura ontologica, appunto perché «nulla esiste in verità».
Invece dell’essere, quindi, si pongono come determinanti la «convenzione» (il nomos) e il «costume» (l’ethos).
Aristotele aveva indicato la sostanza come essere per eccellenza e l’aveva definita come «un qualcosa di determinato»; per contro Pirrone rovescia la posizione aristotelica: «ciascuna cosa non è più questo che quello».
Non contraddicono questa interpretazione, anzi la riconfermano, due celebri frammenti di Timone:
(1) “Non affermo che il miele è dolce, ma riconosco che appare dolce”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 105)
Il che significa che in sé il miele, essendo come ogni cosa indeterminato, è inqualificabile, mentre qualificabile è solo l’apparire. Non vuol dire che esiste un miele come cosa in sé dotato di una sua natura ma da noi non raggiungibile; il miele non ha una sua natura, e il suo apparire, se da me è qualificabile come dolce, da un altro (cui il miele non piace) può essere qualificato in altro modo. L’essere, insomma, non è espresso, perché non c’è, è espresso solo l’apparire.
Di conseguenza, all’«essere» si sostituisce l’«apparire».
(2) “Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia”. (Timone, fr.69 Diels)
Questo «fenomeno» o «apparenza», dagli Scettici posteriori è stato trasformato nel fenomeno inteso come apparenza di un qualcosa che è al di là dell’apparire, ossia di una «cosa in sé», e da questa trasformazione sono state tratte numerose deduzioni che, per la verità, non sembrano essere presenti in Pirrone.
Pirrone tuttavia non è giunto tanto avanti da risolvere tutto nell’«apparenza pura e universale» in modo preciso. Infatti la risoluzione di tutte le cose nella pura apparenza senza alcun residuo avrebbe portato non già al dubbio assoluto, bensì alla certezza assoluta, perché, se tutto si risolve nell’apparire, le cose sono così appunto come appaiono e non diversamente.
Riguardo alla sua concezione della natura del divino c’è un frammento di Timone che mostra chiaramente come fosse assai complessa.
Viene domandato a Pirrone:
“O Pirrone, questo il mio cuore desidera di apprendere da te, come mai tu, pur essendo uomo, ancora così facilmente conduci la vita tranquilla, tu che solo sei guida agli uomini, simile a un Dio”. (Timone, fr.67, Diels)
Risponde Pirrone:
“Io ti dirò in verità come mi sembra che sia, prendendo come retto canone questa parola di verità: che vive eternamente una natura del divino e del bene, da cui deriva all’uomo la vita più eguale”. (Sesto Empirico, Contro i matematici, XI, 20)
Come intendere questa «natura del divino e del bene» e il conseguente «retto canone»?
Ha notato a tal proposito lo studioso E. Brèhier: «un accento religioso di questo genere ha qualcosa di enigmatico; il Dio che Pirrone venera non è una provvidenza del mondo né degli uomini come il Dio degli Stoici; è solamente come l’essere perfettamente stabile davanti al quale svaniscono gli aspetti diversi e fuggevoli del reale».
Che Pirrone abbia creduto in un Dio è, per altro verso, confermato anche dal fatto che ci viene espressamente riferito che i suoi concittadini lo scelsero come sommo sacerdote.
Ma come conciliare queste affermazioni con tutte le altre sopra esaminate?
Due ipotesi si possono fare per rispondere al problema.
La prima è che Pirrone risenta l’influsso delle dottrine dei Megarici, dei quali fu discepolo. Anche i Megarici, con la loro dialettica, tentavano di ridurre la molteplicità delle cose, il movimento e il divenire ad apparenza, ma questo facevano appunto per guadagnare la realtà dell’Uno-Bene, che era il loro Dio, come risulta chiaro soprattutto dai frammenti di Euclide.
La seconda è che Pirrone risenta altresì dell’influsso di dottrine orientali, peraltro da noi incontrollabili. Ma anche stando semplicemente alla prima di queste ipotesi, la posizione di Pirrone si può spiegare.
Le cose, secondo Pirrone, risultano mere apparenze non già in funzione del presupposto dualistico dell’esistenza di «cose in sé» a noi come tali inaccessibili, bensì in funzione della contrapposizione appunto a quella «natura del divino e del bene» di cui parla il frammento di Timone. Misurato con il metro di questa «natura del divino e del bene» tutto appare a Pirrone come irreale.
L’analogia fra questa posizione radicale di Pirrone e quella megarica spiega anche le analogie fra le rispettive posizioni pratiche di fronte alle cose: i Megarici predicavano l’«apatia» intesa come un ne sentire quidem, come ci riferisce Seneca; Pirrone predica la medesima dottrina (radicalizzandola) e anche per lui, come attesta Cicerone, la posizione del sapiente è l’«apatia» intesa come un ne sentire quidem.
Se così è, non si può negare l’esistenza di un sottofondo religioso che ispira lo Scetticismo pirroniano. L’abisso che egli scava fra l’unica «natura del divino e del bene» e tutte le altre cose, implica una visione quasi mistica delle cose e una valutazione della vita di un rigore estremo, appunto perché non concede alle cose del mondo alcun significato autonomo, mentre concede realtà al divino e al bene.
Se le cose sono indifferenti, immisurabili e indiscernibili e se, di conseguenza, senso e ragione non possono dire né il vero né il falso, l’unico atteggiamento corretto che l’uomo può tenere è quello di non dare alcuna fiducia ai sensi né alla ragione, ma restare adoxastos vale a dire rimanere «senza opinione», ossia astenersi dal giudizio (l’opinare è sempre un giudicare), e, per conseguenza, deve anche restare senza alcuna inclinazione (non inclinare verso una cosa piuttosto che verso un’altra), e restare senza agitazione, ossia non lasciarsi scuotere da alcuna cosa, rimanere indifferenti.
Questa «astensione dal giudizio» venne successivamente espressa con il termine «epoché», di derivazione stoica. Come è stato recentemente messo bene in rilievo, Zenone di Cizio affermava la necessità per il saggio di non dare l’assenso, ossia di «sospendere il giudizio» (epoché), di fronte a ciò che è incomprensibile (e di dare l’assenso solo a ciò che è evidente); Arcesilao e Carneade, in polemica con gli Stoici, sostengono che il saggio deve «sospendere il giudizio» su ogni cosa, perché nulla è evidente.
Il termine «epoché» fu quindi ripreso anche dal neopirroniano Enesidemo di Cnosso per esprimere il concetto dell’«astensione dal giudizio» e divenne un termine tecnico e venne esteso a Pirrone. Sembra corretto, dunque, concludere che Pirrone parlava di «assenza di giudizio» o «mancanza di giudizio», e che il termine «epoché» è posteriore.
Questa posizione di «totale astensione dal giudizio» è di una coerenza adamantina rispetto al principio che nega alle cose l’essere e l’essenza e quindi nega la legge fondamentale dell’essere, ossia la non-contraddizione.
Scriveva Aristotele, riferendosi ai negatori della suprema legge dell’essere:
“È evidente che la discussione con tale avversario non può vertere su nulla, perché egli non dice nulla: infatti, egli non dice né che la cosa sta così, né che non sta così, ma dice che la cosa sta così e non così, e poi, daccapo, egli nega e l’una e l’altra affermazione, e dice che la cosa né sta così né non così”. (Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1008 e 30-33)
Ebbene, la posizione che Pirrone assume è esattamente questa:
“Bisogna essere senza opinione […] affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno in primo luogo l’afasia […]”. (Aristocle, presso Eusebio, Praep. evang, XIV, 18, 3)
Sono parole che, se anche storicamente non sono una risposta ad Aristotele, rappresentano tuttavia l’ideale antitesi delle sue affermazioni.
È chiaro che ciò che sul piano teoretico è la mancanza di giudizio, sul piano pratico è l’indifferenza (adiaphoria) per le cose, appunto per la ragione che nulla è più questo che quello.
Ed ecco come, nella sua vita, Pirrone compie con assoluta indifferenza quelle cose che per un Greco erano servili e ignobili:
“Visse piamente insieme con la sorella, che era ostetrica, secondo la testimonianza di Erastotene nella sua opera Ricchezza e povertà, ove si narra che talvolta Pirrone portava a vendere al mercato, secondo i casi, uccellini o maialetti e faceva le pulizie di casa con perfetta indifferenza. Si dice anche che un’altra prova di indifferenza la dava lavando lui stesso un porcellino”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66)
Naturalmente, sorge spontanea l’obiezione che tale indifferenza non può andare oltre certi limiti: per esempio non può essere mantenuta di fronte ai presunti pericoli.
Pirrone, tuttavia, cercando di essere coerente con il suo pensiero, manifestava indifferenza anche nelle situazioni di pericolo, lasciandosi investire dai carri (dato che non poteva dire se ciò fosse un bene oppure no):
“La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all’arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 62)
“Non perdeva mai la sua compostezza, così che se qualcuno lo piantava nel mezzo del discorso, egli lo finiva per conto suo, benché in giovinezza sia stato piuttosto facilmente irritabile […].
Quando una volta Anassarco cadde in un pantano, Pirrone continuò la sua strada senza aiutarlo. Qualcuno gli rimproverò un tal comportamento, ma Anassarco stesso lodò la sua indifferenza e la sua impassibilità”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 63)
Più volte, nella Metafisica, Aristotele ribadisce il concetto che chi nega il supremo principio dell’essere, per restare coerente con questa negazione dovrebbe tacere e non esprimere assolutamente nulla.
E tale è precisamente la conclusione che trae Pirrone proclamando l’«afasia».
Ora, l’afasia non è il non-parlare in assoluto ossia l’assoluto silenzio, ma il tacere sulla natura e sull’essere delle cose, il non giudicare «é» o «non é» di nulla.
L’afasia resterà un atteggiamento tipico di tutto lo Scetticismo.
Il distacco dalle cose, che raggiunge il momento culminante nell’«afasia», comporta l’«atarassia», cioè la mancanza di turbamento.
Riportiamo due testimonianze significative:
“Mentre i suoi compagni di viaggio su una nave si erano incupiti a causa di una tempesta, egli rimaneva tranquillo e riprendeva animo, additando un porcellino che continuava a mangiare e aggiungendo che una tale imperturbabilità era esemplare per il comportamento del sapiente”. (Posidonio, presso Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 68)
“Si narra inoltre che quando per qualche ferita gli furono applicati medicamenti corrosivi o dovette subire tagli o cauterizzazioni, non contrasse neppure le ciglia”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 67)
È difficile non riconoscere, in questi esempi, gli influssi dei Gimnosofisti e di Calano.
Scrive Cicerone:
“Secondo Aristone il bene consiste nel non essere in queste cose [intermedie fra virtù e vizio] mosso né da una parte né dall’altra e che da lui vien chiamato adiaforia. Ma Pirrone dice che il saggio non le sente neppure e chiama questo apatia”.
Anche Diogene Laerzio conferma:
“Il fine degli scettici è l’apatia” (Vite dei filosofi, IX, 108).
L’apatia pirroniana è dunque l’insensibilità. Si tratta, come Cicerone ha detto a ragione, non solo di essere indifferenti e senza turbamento, ma di non sentire neppure (ne sentire quidem). Questo è possibile per mezzo di una modificazione del modo di ricevere le impressioni: invece di classificarle come buone o cattive, occorre lasciarle a sé medesime senza emettere giudizio.
L’«apatia» è un punto di arrivo; e lo stesso Pirrone, talvolta, non riuscì a essere insensibile:
“Ma una volta perdette la calma per un’ingiuria arrecata a sua sorella – che si chiamava Filista – e a chi lo riprendeva disse che una donna non è una buona pietra di paragone per l’indifferenza. Un’altra volta fu messo in agitazione dall’assalto di un cane e replicò che era difficile spogliare completamente l’uomo soggiungendo che contro le cose bisogna, in primo luogo, se è possibile, lottare con i fatti, se no con la ragione”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66)
Questo «spogliare completamente l’uomo» non ha come fine l’annullamento totale dell’uomo, ossia il non-essere assoluto, ma, al contrario, coincide con la realizzazione di quella «natura del divino e del bene da cui deriva all’uomo la vita più eguale», di cui parla il frammento di Timone, ossia la realizzazione di quella vita che non sente il peso delle cose, le quali, rispetto a quella natura, non sono che indifferenti, immisurate e indiscriminate apparenze.
Il successo che Pirrone raccolse fu assai cospicuo.
Molti dei tratti del saggio stoico ripetono quelli del saggio scettico; Epicuro stesso
ammirava il modo di vivere di Pirrone. E, nella sua patria, il nostro filosofo ebbe stima e onori al punto «da essere eletto sommo sacerdote», e già Timone lo cantò come «simile a un dio».