METAFISICA E SCIENZA NEI PRESOCRATICI
Di Antonietta Pistone
Chi sono, da dove provengo, perché vivo, qual è il fine ultimo della mia vita, e della vita in generale, sono gli interrogativi più frequenti che ognuno si pone. E costituiscono anche le prime questioni di interesse filosofico, seppure le domande della filosofia riguardino altresì il mondo, l’universo, la natura, e tutti quei fenomeni fisici ai quali si cerca di fornire una spiegazione plausibile, nell’ambito delle certezze possibili per la ragione. E di ragione si comincia a parlare necessariamente dal momento in cui la speculazione filosofica segna, al suo nascere nelle colonie greche dell’Asia minore, anche un ulteriore scarto rispetto alla mitologia che in precedenza aveva tentato di sopperire alle inevitabili lacune determinate dall’assenza di un pensiero logico, argomentato e razionale. Prima del VII sec. A.C., difatti, i popoli dell’Oriente si erano già posti le medesime domande dei Greci delle colonie, ma le risposte ai grandi interrogativi umani erano differenti, perché si richiamavano all’antica tradizione delle narrazioni fantastiche. Si può ben dire perciò che la ricerca di spiegazioni logico-razionali seguisse ad un’indagine naturale che congetturava attorno alla realtà fornendo spiegazioni mitiche, nella forma e nella tipologia, che dovevano pacificare il desiderio di sapere, ponendo ordine al contempo nell’universo mentale degli antichi attraverso storie immaginarie, che riuscivano a rendere conto di cataclismi, terremoti, inondazioni, e di tutti quegli eventi catastrofici della natura indomita e selvaggia che l’uomo non sapeva ancora spiegarsi razionalmente, e che non poteva, pertanto, dominare con gli strumenti della conoscenza scientifica. La “Teogonia” di Esiodo e gli stessi poemi omerici sembrano rispondere alle citate caratteristiche del mito, che verrà successivamente sostituito dalle prime espressioni della filosofia presocratica a partire dal VII sec. A.C. Quasi in contemporanea con il sorgere di una religione orientale, a sfondo filosofico, come il Buddhismo, che nasceva nel VI sec. A.C., nell’intento di recuperare, unitamente all’Induismo, che risale addirittura al XIII sec. A.C., quei valori della spiritualità animistica, ormai apparentemente superati dall’indagine razionale. Altra differenza tra le due tipologie speculative è da rilevarsi nel loro rispettivo oggetto di indagine: l’uomo e l’esperienza esistenziale per buddhisti ed induisti, l’universo e la sua origine per i primi filosofi greci. Il passaggio dal mito al logos non è indolore per le culture orientali. La conquista della razionalità rappresenta senz’altro una rottura con la tradizione accreditata del passato e, in qualche caso, anche la perdita del senso religioso, per fare spazio ad un’altra tipologia della ragione umana, che si fa scevra dell’appartenenza alle sue radici emotive e sentimentali, a tutto vantaggio di un’analisi criticamente orientata al reale, sgombrando la mente da qualsivoglia tipo di fantasie illusorie e di attese salvifiche e messianiche in cui credere. La sola fede possibile diventa, infatti, il ricorso alla ragione che indaga i principi e prevede il futuro andamento degli eventi, spiegandone la natura attraverso la descrizione dei fenomeni visibili, come di quelli invisibili, che ne sono la causa ultima e la radice sostanziale. Sarà per questo riandare alle cose osservabili, senza fermarsi ad esse, tuttavia presupponendo l’esistenza di essenze di fondamento, che la ricerca dei Presocratici si va sempre più caratterizzando, anche per la storiografia filosofica contemporanea, come indagine fisica sui fondamenti e sulle cause prime di tutto il reale, configurandosi così anche nella forma di una vera e propria speculazione metafisica. Se infatti definiamo Metafisica l’indagine sulle cause prime, sui fondamenti gnoseologici del sapere, su ciò che chiamiamo Dio, allora i primi filosofi, che si interrogarono proprio sulle cause prime della realtà osservabile dal punto di vista fenomenico, fecero né più né meno che una speculazione di tipo metafisico. E, nel sostenere ciò, conforta la definizione che il filosofo Aristotele dà nella sua “Metafisica” quando, parlando delle quattro cause della ricerca scientifica, egli cita la causa formale, quella materiale, quella efficiente e quella finale, soffermandosi però, in modo del tutto particolare, sulla causa formale, e dicendo che se è vero che il sinolo, come unità di materia e forma costituisce la sostanza propria di ogni realtà, è però anche vero che ciò che si definisce propriamente sostanza, come “ciò per cui una cosa è quella che è”, è in tutto e per tutto la forma che ne determina l’essenza, in quanto destinazione finale propria di ogni realtà considerata. E questa causa è da intendersi, dunque, come origine e fondamento imprescindibile, come ciò senza di cui non vi sarebbe essere, e corrisponde nella forma pienamente alle cause prime che ricercano i Presocratici monisti e pluralisti, naturalisti e non. Si può allora concludere, con le parole di Heidegger, che non esiste speculazione filosofica senza ricerca metafisica. Essendo la ricerca metafisica ogni domanda fondamentale sul “perché l’essere e non piuttosto il nulla”. La differenza fondamentale, difatti, tra la ricerca scientifica e la speculazione filosofica è nell’essere la prima un’indagine descrittiva del fenomeno fisico, che si tenta di spiegare osservandolo nello spazio e nel tempo, e riproducendone artificiosamente le caratteristiche salienti in laboratorio, allo scopo di “interrogare la natura”; mentre riflessione filosofica è ogni interpretazione che risalga alle cause prime e fondanti, perciò dette ontologiche dello stesso fenomeno osservato, per rispondere al “perché” e al “come” della natura. La parola “filosofia” significa “amore per il sapere”, e il filosofo che si interroga per cercare l’origine del tutto, è l’uomo sapiente per eccellenza. I primi speculatori venivano ritenuti saggi, e venerati e rispettati perché considerati depositari della verità del mondo. Oggi, il progresso delle conoscenze scientifiche e l’applicazione delle tecniche, hanno consentito all’uomo di acquisire un dominio sulla natura che non lascia nulla di intentato, e quelle forze inspiegabili che nell’antichità subivano il fascino del mistero insondabile, quasi fossero mitiche ed invalicabili colonne di Ercole, ormai sono assolutamente svelate a chiunque. Nessuno può ritenersi attualmente depositario della verità consacrata, in ambito scientifico come in questioni di carattere filosofico. Semmai il problema odierno è nel discernere il corretto uso e la giusta applicazione delle conoscenze umane, per evitare una distorsione dei fini e degli obiettivi più sacri della ricerca, il cui soggetto principe deve restare di necessità l’uomo con il suo bagaglio di valori culturali ed emotivi. Ciononostante, non si può disconoscere il debito che le culture postmoderne, scientifica e umanistica, vantano nei confronti delle prime espressioni della speculazione filosofica presocratica, i cui protagonisti, senza disporre delle strumentazioni logiche e scientifico-tecnologiche attuali, furono in grado di intuire con un acume del pensiero ed una così lucida finezza espositiva, da fare invidia ai nostri scienziati più quotati. Già allora esistevano due differenti atteggiamenti nei confronti della natura dei fenomeni. Il meccanicismo degli atomisti si pone in aperto contrasto con il finalismo di Anassagora e di Eraclito, che ingloba il valore del contradditorio per superarlo entro la ragione dialettica, anticipando i temi dell’argomentazione platonica, nello spiritualismo idealistico romantico tedesco ripresi e sviluppati dal grande Hegel. Vi è poi la distinzione tra naturalisti, come coloro che pongono le ragioni seminali del reale in elementi della natura, e non-naturalisti. Talete, Anassimene, Senofane e lo stesso Eraclito, riconoscono i principi primi nell’acqua, nell’aria, nella terra e nel fuoco, o in tutte e quattro le radici, come fa Empedocle, con la sua metafisica dei quattro elementi. Per questi filosofi la natura è viva, e il principio che dà origine a tutto è vivo anch’esso ed è in tutte le realtà naturali. L’ilozoismo ed il panteismo dei Presocratici si accompagnano poi al monismo o al pluralismo, quando all’origine di tutto il reale vengono poste una sola o più possibili radici ontologiche. Già il naturalismo era stato superato dagli stessi monisti, con l’àpeiron di Anassimandro, che unificava tutte le contraddizioni del reale nell’infinito-indefinito, per il quale l’esistenza manifesta una colpa come “desiderio di essere” a prezzo della rottura dell’armonia originaria del tutto in tutto dell’àpeiron. E sarà successivamente sviluppato nell’Ontologia di Parmenide e di Melisso, che pongono l’Essere, in quanto pensiero, come l’origine costitutiva della realtà, rinnegando il naturalismo ilozoistico, ma anche l’archetipo inteso come sostanza specifica e determinata di qualcosa, sia pure essa risolta nell’indeterminato che tutto ingloba. Con l’unica differenza che Parmenide concepisce, alla maniera dei Pitagorici, l’Essere perfetto in quanto finito, e Melisso lo riconsegna alla prospettiva dell’infinito, avvicinandosi ad Anassimandro. Eppure qui siamo ancora nell’ambito dei Presocratici monisti. Il passaggio ad una concezione più complessa del mondo fenomenico si attua, invece, quando ad un’unica radice ontologica viene a sostituirsi la concezione metafisica di arché plurimi, come nel caso dei semi, detti anche omeomerie, di Anassagora e degli atomi di Leucippo e Democrito. Ma sono al contempo pluralisti anche Eraclito, che parla di legge del divenire, di alternarsi dei contrari, di fuoco e di guerra, considerando insieme tutti questi elementi possibili radici ontologiche della realtà fenomenica. E Pitagora, che può essere ritenuto monista e pluralista ad un tempo, per aver fondato la questione del numero, come concetto logico, ed aver rappresentato graficamente i numeri, come punti del piano euclideo. I pitagorici, inoltre, furono i primi che con Filolao affermarono la validità dell’ipotesi eliocentrica su quella geocentrica, anticipando di molti secoli la Rivoluzione scientifica che annoverò tra i suoi più noti protagonisti Copernico e Galilei. La scuola pitagorica, però, come tutte le accademie filosofiche antiche e moderne risentiva di un’impostazione dogmatica, che condannava al silenzio i discepoli del grande maestro, seppure avessero scoperto delle incongruenze concettuali nell’impostazione del suo pensiero logico-matematico. La sorte del povero Ippaso, noto a tutti per aver pagato con la vita la sua capacità di fine discernimento critico, prova la chiusura elitaria e poco aperta al confronto delle scuole filosofiche pitagoriche, il cui principale fondamento consisteva nella fede sull’esistenza dei soli numeri interi. La scoperta dei frazionari irrazionali da parte di Ippaso, che prova l’incommensurabilità della diagonale di un quadrato (ossia dell’ipotenusa di un triangolo retto) distrugge i fondamenti dell’aritmogeometria, condannando il pitagorismo a fine certa. Così gli adepti della scuola, per evitare lo scandalo, uccisero il giovane discepolo Ippaso e preferirono l’illusione del dogma alla verità della scienza certa. Lo sviluppo successivo delle matematiche del Novecento, attraverso l’adozione di differenti modelli, prova le ragioni di chi ha scontato duramente la propria fedeltà nei confronti della verità scientifica, che è debito per chi pratica la strada impervia e difficile, costantemente in salita, della ricerca. Oggi, dopo la Teoria degli Insiemi di Cantor, si conoscono i numeri naturali, reali, razionali, irrazionali, interi, decimali e immaginari. Attraverso l’ipotesi del continuo si può affermare che il vuoto non è il nulla perché la vacuità è piena di numeri. Lo zero che rappresenta il vacuo, in quanto non-numero, forma gli altri numeri. Perciò dal vuoto deriva il tutto. La scoperta delle geometrie non euclidee, apre nel Novecento la strada alla considerazione delle matematiche come modelli della realtà. I Logicisti risolvono l’aritmetica nella logica. I Formalisti utilizzano i metodi dell’algebra astratta. Gli Intuizionisti sono convinti assertori del ruolo imprescindibile assunto dall’intuito, prima che dalla Teoria della Dimostrazione, per rinvenire gli assiomi o i postulati di fondazione delle matematiche. Ugualmente, seppure ebbero sorte migliore dell’incauto pitagorico Ippaso, è lodevole la capacità di previsione di cui danno prova gli Atomisti, tenuto conto del fatto che, all’epoca, non erano disponibili le risorse tecnologiche e strumentali che oggi invece possediamo per la ricerca scientifica. Molti secoli prima dell’effettiva scoperta dell’atomo e della sua struttura, grazie alle osservazioni di Leucippo e Democrito, i nostri filosofi furono già in grado di predire la costituzione della materia, composta da corpuscoli invisibili e sottili, differenti per forma, grandezza e posizione nello spazio, e numericamente infiniti. Sostenendo poi che anche le realtà spirituali, come l’anima, fossero composte di sostanza atomica, sebbene più sottile e leggera di quella caratterizzante i corpi pesanti, concepivano in anticipo, malgrado ancora allo stato embrionale, l’idea della conversione in energia della massa corporea, che sarebbe poi stata successivamente sviluppata e scientificamente comprovata dalla teoria della relatività generale di Einstein, da lui esposta in forma definitiva nel 1916. Einstein formulò, difatti, una nuova teoria della gravitazione, in cui il campo gravitazionale generato da ogni corpo materiale è rappresentato come una modificazione delle proprietà geometriche dello spazio fisico, che diventa curvo. La geometria euclidea risultava perciò insufficiente nello spazio e nel tempo curvi, la cui percezione era così modificata dalla gravitazione universale e dall’energia che da essa promanava, nel momento in cui si andava a generare un vero e proprio campo di attrazione elettromagnetica. Einstein aveva studiato l’elettromagnetismo di Maxwell, per il quale le onde elettromagnetiche modificano lo spazio e creano attorno un campo di attrazione elettromagnetica. La teoria elettromagnetica aveva intuito l’esistenza di un’energia capace di modificare, e di curvare, lo spazio. Nella teoria della Relatività generale di Einstein il tempo, in quanto quarta dimensione, diventava una sola realtà con lo spazio. Veniva così superata la concezione dello spazio-tempo di Newton, intese come dimensioni reali ed ontologiche, che già Kant aveva svuotato della loro connotazione oggettiva, definendole strutture razionali della soggettività percettiva. Spazio-tempo diventano così dimensioni che acquisiscono un significato grazie ai corpi e all’energia che li attraversano, modificandoli. Einstein sostiene che la geometria euclidea sia valida ad interpretare lo spazio terrestre. Mentre il mondo celeste ha bisogno di un’altra geometria, che studi lo spazio curvo, come farà poi la geometria ellittica di Riemman. Le dimensioni spazio-tempo non sono perciò assolute, e si modificano a seconda del punto di osservazione assunto, che determina un cambiamento percettivo. Lo spazio-tempo curvi trasformano completamente le leggi della conoscenza. E poiché la massa si trasforma in energia, la materia ristruttura completamente lo spazio-tempo, curvandolo. Einstein aveva anche studiato la meccanica quantistica elaborata nel 1900 da Max Plank. Plank contraddiceva la teoria ondulatoria della luce, per la quale le onde sarebbe continue ed ininterrotte. Egli sosteneva, invece, la natura corpuscolare ed ondulatoria insieme della luce, costituita da quanti, che si comportano ora come onde, ora come corpuscoli. L’ipotesi del continuo si alterna così a quella del discreto, creando una condizione di equilibrio tra pieno e vuoto nello spazio. Conclusione questa che porterà il fisico Heisenberg ad elaborare il suo “principio di indeterminazione”, per il quale avrebbe ricevuto il premio nobel nel 1932: “Tutto ciò che si osserva in natura varia col variare delle situazioni spazio-temporali e col modificarsi delle condizioni della ricettività sensoriale. È pretesa impossibile determinare con il criterio dell’oggettività la realtà fisica percepita dai sensi. Resta sempre un quantum di imponderabile e di indeterminabile nella percezione fenomenica”. Gli atomisti, non possedevano ancora la chiara concezione di struttura atomica. Per avere notizie certe circa la composizione dell’atomo è necessario attendere gli studi di Bohr. Solo nel 1897, infatti, Thomson scoprirà gli elettroni, e Rutherford più tardi intuirà l’esistenza del nucleo atomico, composto dall’energia positiva dei protoni e dalle cariche neutre dei neutroni, in ugual misura, capaci di creare una condizione di equilibrio energetico, tale che sia neutro il risultato della carica finale complessiva del nucleo. Ma bisogna attendere i risultati delle ricerche di un giovane danese di nome Bohr, il quale nel 1913 riuscirà a scoprire la struttura atomica nota e riconosciuta fino ad oggi, composta da elettroni che ruotano attorno al nucleo, costituito da protoni e da neutroni. Bohr proverà che l’attrazione generata dalle forze energetiche messe in campo dalle cariche negative degli elettroni e da quelle positive dei protoni, è in tutto simile all’energia gravitazionale di Newton. Perché all’interno dell’atomo si genera un campo magnetico in cui le orbite degli elettroni sono identiche alle orbite ellittiche che i pianeti descrivono attorno al sole. Si comprende bene quale perspicace finezza intuitiva avessero i Presocratici Leucippo e Democrito che, senza conoscenze sofisticate di livello, come i loro successori Thomson, Rutherford e Bohr, furono in grado nel VI sec. A.C. di anticipare una teoria così solida dal punto di vista scientifico, adottata tuttora come concezione ontologico-metafisica della materia atomica e della sua convertibilità in energia, sebbene si sappia ormai, dopo la scoperta del quark, ad opera dei fisici statunitensi Murray Gell-Mann e George Zweig, che nel 1963 ipotizzarono di spiegare le proprietà di alcune particelle della materia considerandole composte da quark elementari, che l’atomo non è più ritenuto dalla comunità scientifica internazionale la porzione più piccola ed indivisibile della materia. Se nella Teoria della Relatività generale di Einstein aveva ancora senso l’ipotesi del continuo, la scoperta del quark, e della nuova struttura atomica, mette in evidenza il valore della fisica del discreto, del vuoto, e dell’antimateria, che dovrebbero pareggiare la materia. È lecito, allora, porsi la domanda paradossale se materia ed energia non siano costituite dal vuoto. Si finisce così per parlare, nell’ambito della meccanica quantistica, di vuoto quantistico. La fisica dei quanti, infatti, fluttua tra l’ipotesi del continuo e quella del discreto. Assumendo che il vuoto non esiste, si è costretti ad affermare l’esistenza della materia. La materia però è costituita di parti vuote. Il vuoto allora esiste. La materia necessita allora di un’antimateria. Il vuoto, difatti, è un tutto pieno di materia, se già gli Atomisti concepiscono la realtà dell’atomo vuota al novanta per cento. Ma se la materia è energia, l’energia è materia. Il vuoto, come campo di forze attrattive, di cariche elettromagnetiche, è allora materia. La vacuità, il “farsi vuoto”, è il richiamo alle energie mistiche dello spirito, capace di accogliere l’altro in sé, di abbracciarlo nel tutto. Una variante del Buddhismo, lo Zen, nato in Giappone, sostiene l’importanza del vuoto, che non è assenza o privazione di Essere, non è il nulla, ma semplicemente pausa, silenzio, attesa, che si farà attività, suono, compimento di ciò che verrà. E come lo zero che è un non-numero forma gli altri numeri, così il vuoto-nulla è la promessa del pieno-essere. Dal vuoto il tutto, e dal nulla, concepito come vuoto, la realtà. Se così fosse davvero le ultime frontiere della scienza fisica sarebbero rintracciabili nella metafisica dei principi. E la scienza razionale troverebbe i suoi limiti naturali nella mistica. I contrari si attraggono e le contraddizioni, molte volte, sono solo apparenti. Contro l’evidenza della logica classica aristotelica, fondata sul principio di non-contraddizione, la logica buddhista, come la dialettica hegeliana, sostiene la verità del contraddittorio, a partire dall’esperienza. Lo sviluppo successivo delle scienze che i Presocratici avevano cominciato ad indagare da un punto di vista filosofico metafisico, lascia aperti gli orizzonti della filosofia, il cui ambito di ricerca si estende così, di necessità, oltre i suoi stessi limiti, per diventare sempre più riflessione scientifica, di tipo fisico-matematica. Comprendere un mondo che procede a velocità implementata verso un futuro incerto, ma intuibile solo attraverso i progressi tecnologici, frutto della ricerca scientifica d’avanguardia, vuol dire, per la filosofia, mettersi al passo con i tempi, che non sono più quelli dello sguardo del poeta o dell’astronomo Talete, rivolto pensosamente al cielo e alle sue stelle, ma diventano sempre più complessi e critici, vaghi appunto, sebbene con la sola consapevolezza che nelle applicazioni della matematica teorica e della fisica subnucleare vi sia ancora tanto da dire del fenomeno, a partire da interrogativi ontologico-metafisici che presumano di superare l’improbabile evidenza dell’incertezza ontologica e semantica della realtà.
Antonietta Pistone
BIBLIOGRAFIA
1. Questioni di Storiografia filosofica, a cura di Vittorio Mathieu, volume 1, Dai Presocratici ad Occam, La Scuola, Lucarini, Brescia, 1975
2. Protagonisti e testi della filosofia, Giovanni Fornero, volume D tomo 2, Sviluppi della Filosofia della Scienza, casa editrice Paravia, Varese, 2000
3. Il Pensiero plurale di Enzo Ruffaldi, Piero Garelli, Ubaldo Nicola, volume 1, Edizioni Loescher, Torino, 2008
SITOGRAFIA
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3. http://www.matematicamente.it/appunti/analisi_per_le_superiori/somme_di_riemman_200710241872/
4. http://www.lamentemente.com/2008/07/31/la-costante-di-plank/
5. http://www.italysoft.com/curios/einstein/index.php
6. http://www.bioenergyresearch.com/ita/atomo.htm
7. http://digilander.libero.it/fabioutili/presocr.html