La poetica di Antonio Vigilante in Rima Rerum e Quartine
di Antonietta Pistone
La parola come crepa, fenditura, apertura delle cose, contro la parola che crea, che riporta alla vita, che dona un senso al mondo. Rassicurante diade di noesis e noema, nel significato del dire, del riandare dei segni tra il pensiero e l’Essere. Pietrificando la realtà, ordinando il confuso mondo senza apparenti certezze. La parola come quiete, riposo, vagheggiamento. Per la quale appare impossibile squarciare l’insondabile abisso del nulla, aprire il varco dell’indicibile. Eppure Rima Rerum[i] di Antonio Vigilante vuole essere una crepa, dal solco profondo e incisivo, che abbandona l’univocità dell’approdo della parola alla cosa nella parola che solca, fende, apre, e che è solcata, fessa, aperta. Che mentre sembra possedere tutto, tutto nell’apertura all’Essere perde. E perde se stessa, ed il corrispettivo biunivoco del riandare, ritornando, all’Essere. La parola è crepa ed è apertura, che fende l’Essere incidendolo nella sua sostanzialità. Ed incidendo taglia, penetra, trafigge fino in fondo alla radice delle cose, frammentando la realtà in mille derive dell’Essere. Laddove l’apertura accade. E accade così, semplicemente, come ogni intelligenza delle cose. E nell’apertura sboccia la possibilità della poesia, che è metafora, non detto, polisemia, complessità. Vigilante rompe la consuetudine dell’«illusoria signoria del dire», rappresentando l’inizio, il cominciamento di una nuova collana, edita con licenza copyleft, dal nome gli apolidi che per l’autore sono anche una categoria ben precisa del genere umano, cui ritiene evidentemente di appartenere, e che descrive come individui «privi di cittadinanza, […che] varcano i confini, attraversano le frontiere, gettano ponti, stabiliscono connessioni. In un’epoca in cui l’identità è rivendicata con ferocia, essi si dedicano alla contaminazione, alla comunicazione, alla fusione di orizzonti». Nell’apertura degli esseri la poesia interpreta fedelmente la complessità del reale, servendola come a rendergli omaggio. Ma la crepa, l’apertura è vacuità, nulla. Possibile che il senso dell’Essere scaturisca dal nulla? La vacuità non è il vuoto, ma l’assenza dell’Essere, del pieno, del presente. È il già stato e il non-ancora. È il possibile come pienezza di senso e istantaneo annichilimento di significato. È il tutto e il niente. «Il linguaggio è la casa dell’Essere e nella sua dimora abita l’uomo» diceva Heidegger[ii]. Non abbiamo altro potere che non sia nelle parole. Esse dominano il mondo, ordinando, categorizzando, concettualizzando. Eppure esiste un linguaggio allusivo, metaforico, poetico, appunto, che scopre e squarcia il velo di Maya[iii] attraverso le pause, i silenzi, il non-detto. Il non-ancora diventa così attesa dell’incerto, dell’inatteso. La vacuità è promessa dell’Essere, della sua epifania. L’assenza diventa attesa messianica della rivelazione. Nella caduta la risalita, nell’apertura il pieno essere, nel nome la crepa, il varco. Nella forma la sinuosa plasticità morbida e priva di spigoli. La parola è pietra che spacca, che apre. Ma quando fende è crepa anch’essa, e si fa aperta al mondo della vita. La parola si fa dolore, perdita, lacerazione, ferita e cicatrice ad un tempo. La parola significa la morte ed è vita istantaneamente, «[…] ce ne andremo nudi e senza nome/come siamo venuti ce ne andremo» (III, pag. 63). Vita e morte sono in compresenza, nella realtà come nella parola. Tutto torna indietro, in un eterno riandare, e va avanti insieme. La parola ritorna alla cosa, come specchio della sua apertura. Ma la parola che ferisce, è ferita. La parola che accoglie, è accolta. La parola-dolore è come la goccia che scava la roccia. Dove persino «tutti i lupi mannari del mondo piangono» (Paul Celan, die Werwölfe auf der Strecke bleiben in V, pag. 76). Essa è il luogo in cui la fenditura si fa accoglienza. Il buio diviene luce. Il nulla, tutto. La crepa, possibilità dell’Essere. «La vita ha ammassato una quantità incalcolabile di sfumature di silenzio […] dopo il quale avviene il crollo. Da qualche parte, dentro, comincia un rumore terribile, un ritmo violento che gli trasuda dalla pelle e prende a martellare le cose, investendo il gracile pannello della finestra, i letti a castello, il televisore, per poi concentrarsi contro il pavimento. L’uomo è atterrito, ma è ancora in sé [...] attraverso quella sola parola, ceragh[iv], la terra trema ancora come in preda a un singhiozzo» (IV, pag. 74 e seg.). La poetica di Vigilante, che può sembrare ad un primo, superficiale approccio, nichilistica rinuncia al senso, pur attraversando completamente la vacuità dell’apertura, si scopre cammino di ricerca, che riafferma la verità, l’Essere nella polisemia e nella complessità. La semplicità è tradimento, chiusura, negazione. La complessità è adesione fedele alla realtà, apertura, dialogo, cammino che si compie in compagnia dell’interlocutore, nel quale un senso incontra l’altro, se ne accosta pacatamente, comprendendo e sostenendo, ad un tempo, la vanità del tutto. Nulla è importante. E tutto è niente. Fino a che il niente non si faccia attesa di poter divenire tutto. Si scorgono, in questa accattivante ambivalenza di elementi, la logica e l’etica buddhista, che abituano il discepolo ad amare tutto senza tuttavia legarsi a nulla. Così le parole vengono adoperate, con semplicità. Nella convinzione che esse esprimano un senso, il cui profondo valore ontologico superi di gran lunga le possibilità di comprensione indicate dalla parola stessa. La parola è viva quando rifiuta la fissità del dogma. Quando, nel farsi crepa dell’Essere, diventa aperta essa stessa ad infiniti sensi, che ne fanno canto e poesia, nel senso più vero. Quando, dopo aver divelto con violenza l’antico, facendolo tremare dalle fondamenta, mettendo tutto in discussione, si ponga come cominciamento di un nuovo inizio, possibilità di ricostruzione di un rinnovato senso, nella vivida luce della verità che illumina rischiarando le tenebre del passato. Come, ancora una volta, riesce a fare in Rima Rerum Antonio Vigilante, quando osserva «È cresciuta l’erba tra gli ulivi. Mio padre diceva che un campo dev’essere/tenuto ben pulito perché l’erba/ruba la vita agli alberi, ma a me/piace quest’erba tenera ed allegra/e rompo il guscio delle mandorle, e bevo/il vino e me la rido del tramonto/e della notte che inciampa nel mondo» (VI, pag. 58). Il tempo, le parole, le cose, che significano lontananza, dolore, pietà, già dalla sua prima produzione poetica Quartine[v], che si pregia della presentazione del prof. Stefano Capone, si propongono come elementi del radicamento nella storia dell’uomo, «Abisso è ciò che esiste – e lontananza/E sulla superficie la parola/passa leggera, scivola ammirata/finché la cosa-abisso non la inghiotte»(XXXIII, pag.47). Radicamento che si scioglie nella mancanza di punti di riferimento certi, «[…] sono uno che abita il terrore/e in ogni sua parola ascolta il nulla»(II, pag.16). Di cose che non appartengono di necessità a chi si sente apolide, perché ontologicamente sradicato, cittadino del mondo, capace, però, di sfidare l’ignoto, l’apertura, stando nella possibilità, in cui tutte le certezze si perdono, svelando nuovi orizzonti di meraviglia e di stupore, «Non più a casa: distratti costruttori/di dimore leggere e provvisorie/siamo una stirpe mitica e terribile,/folgorazione d’un sogno distrutto»(XLV, pag. 59). Perché per abbracciare tutto questo incanto è necessario rinunciare alle certezze, al dogma, alla stabilità monotona dell’ordine, alla sistematicità del conoscere e del pensare, che è sempre un varcare le colonne d’Ercole del sapere. Il nuovo è, allora, nell’apertura, «[…] impara l’arte della leggerezza/impara dalle rondini la vita»(III, pag. 17). E il nome non è vincolo, ma catena che svela ed emancipa l’Essere, facendolo risplendere in tutte le sue forme e potenzialità, «Come l’antica pietra dei filosofi/cerco l’unico nome che fa liberi […]»(XXI, pag. 35).
Antonietta Pistone
Studio pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura
[i] A. Vigilante, Rima Rerum, Edizioni del Rosone, Foggia 2008.
[ii] M. Heidegger, Lettera sull’Umanesimo, 1947.
[iii] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819.
[iv] Termine iraniano che significa letteralmente “bagliore”.
[v] A. Vigilante, Quartine, Edizioni del Rosone, Foggia 2001.