HELMUTH PLESSNER

 

A cura di Diego Fusaro


 


H. PLESSNER


INTRODUZIONE


Helmuth Plessner (Wiesbaden 4/9/1892 – Gottinga 12/6/1985) è, con Scheler e con Gehlen, uno dei fondatori dell’antropologia filosofica contemporanea. Tra le sue opere più importanti, meritano di essere ricordate I gradi dell'organico e l’uomo (1928), Potere e natura umana (1931), La nazione in ritardo (1935), La questione della condizione umana (1961). Secondo Plessner, se si vuole comprendere l’uomo (ed è questo l’obiettivo dell’antropologia filosofica), non si devono più porre come criteri né l’antitesi tra filosofia e vita né tanto meno quella tra anima e corpo (tematizzata nel modo più chiaro da Cartesio). Proprio per questo motivo, l’antropologia di Plessner non si interessa di sostanze o di princìpi dal valore assoluto; essa si occupa piuttosto di strutture, con la conseguenza che l’animale, l’albero e l’uomo sono studiati non più come essenze, ma in relazione con l’ambiente circostante. E il rapporto tra l’organismo e l’ambiente è, per l’appunto, ciò su cui si fonda l’antropologia di Plessner. Sicché l’uomo, lungi dall’essere una realtà distaccata dalla natura e dai vari gradi dell’organico che lo precedono nella scala evolutiva e lungi dall’esprimere un’opposizione tra spirito e vita (come credeva Max Scheler), è costituito sia dal fisico sia dallo spirituale. Con l’uomo, la sfera della vita ha compiuto una vera e propria svolta radicale, raggiungendo il più alto livello di consapevolezza possibile. L’identità umana è particolarmente complessa e si riconosce sia nel suo essere-corpo sia nel suo essere-nel-corpo: ciò significa che l’io si riconosce appieno sia nella sua sfera fisica sia in quella psichica. In forza della sua “posizionalità eccentrica”, l’uomo può rapportarsi tanto alla dimensione corporea quanto a quella spirituale, tanto al mondo esterno quanto a quello interno. In altri termini, l’uomo ha se stesso ed è se stesso: può intendere il suo corpo (Körper) come un qualsivoglia altro oggetto e analizzarne in tal modo l’estensione e il peso; oppure può identificarsi col suo corpo (Leib), concepito come il cuore delle proprie sensazioni, azioni, emozioni. È un corpo vivente che ha un corpo inanimato: a differenza dell’animale, che è un corpo di cui diventa consapevole a seconda delle situazioni che di volta in volta vive, l’uomo non è solo un corpo, ma ha anche un corpo. Per l’uomo, trovarsi in una posizione eccentrica significa decentrarsi, smarrire la propria centralità rispetto alle cose e alle persone circostanti, fino a divenire anch’esso cosa tra le cose del mondo. È soltanto distanziandosi da sé (“ponendosi alle proprie spalle”, dice Plessner) che l’uomo può vedere se stesso e la propria situazione nel cosmo, quel centro provvisorio che occupa e da cui poi si decentra. A questa distanza da sé, a questo non coincidere mai con se stessi, la tradizione ha dato il nome di “coscienza”, la quale è dunque sinonimo di lacerazione. L’eccentricità ha originato un’insanabile frattura, la quale resta anche dopo che sia stata compiuta l’autoriflessione e che si sia raggiunta la coscienza. La necessità di essere un corpo in senso somato-psichico e, insieme, la necessità di avere un corpo in senso materiale portano infatti ad una frattura all’interno della vita umana: l’uomo è per l’appunto tale frattura, il centro dell’ininterrotta mediazione tra l’esterno e l’interno. Proprio in questa instabile posizione, egli deve condurre la propria esistenza, cercando una pur paradossale unità. Dalla riflessione di Plessner affiora dunque un’immagine dell’uomo assai particolare, caratterizzata da una naturale disposizione dell’io a non opporsi alla sua condizione antropologica fondamentale, che lo qualifica come incessante processualità. È da qui che affiora la condizione umana di perenne inquietudine, di incertezza e di insicurezza, una condizione che caratterizza soprattutto l’uomo del XX secolo.         


I GRADI DELL’ORGANICO E L’UOMO


Plessner intende sviluppare una fenomenologia del vivente che, avvalendosi di un unico principio, possa render conto della specificità che caratterizza i diversi gradi della vita nel mondo organico e, soprattutto, la tipicità della natura umana. Nel 1928, l’anno in cui vede la luce La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler, esce anche I gradi dell'organico e l’uomo (Die Stufen des Organischen und der Mensch) di Plessner: in quest’opera, egli propone la teoria dei modali organici, detta anche “teoria aprioristica dei caratteri organici essenziali”; con tale teoria, egli opera una deduzione (in senso kantiano) delle categorie e dei princìpi a priori dai quali dipendono le caratteristiche della vita in generale e di quella dell’uomo in particolare. Al cuore di questa teoria è il principio della posizionalità, da cui si deduce la differenziazione (a livello sia ontologico sia conoscitivo) da un lato tra realtà organica e inorganica, e dall’altro tra mondo animale e mondo umano. Plessner può così stabilire una differenziazione “posizionale” tra i tre diversi regni della natura (vegetale, animale, umano), attribuendo a tale differenziazione non solo un valore di classificazione, bensì intendendola come un vero e proprio principio costitutivo della natura stessa, dalla quale traggono origine i diversi livelli organici. La gradualità con cui questi livelli si succedono si basa sulla coesione interna del vivente, sulla capacità di rapportarsi col mondo esterno e sull’autonomia interiore del proprio io. Per questa via, si istituisce un’autentica scala posizionale, caratterizzata da una gerarchia sistematica per cui al vertice sta l’uomo. Il primo livello di questa scala del livello organico è dato dal vegetale, contrassegnato da una forma aperta in cui l’albero si trova ad essere immediatamente inserito. Sicché l’organismo vegetale si trova inglobato nell’area di cui fa parte senza potersene distinguere, ma restando necessariamente legato al ciclo vitale cui appartiene. Si ha dunque, in tal caso, un rapporto soltanto assimilatorio con l’ambiente favorevole allo sviluppo, senza alcuna possibilità di distaccarsene per far affiorare la sua individualità. Nel mondo vegetale manca dunque la capacità di distinguere tra mondo esterno e mondo interno, che risultano unificati nell’esigenza di sopravvivenza, proprio in forza del fatto che manca un organo centrale, un sé che conferisca consapevolezza al soggetto. Mancando di un organo centrale, l’albero è non già un individuum, bensì un dividuum: è inoltre incapace di muoversi in senso proprio; tutt’al più può compiere movimenti impercettibili e involontari (tende verso la luce, verso l’acqua, ecc). Infine la forma aperta dell’albero non perviene mai al proprio completamento, ma si trova in un mutamento incessante: dalla nascita alla morte, continua a crescere, ad allungarsi, giacché la sua caratteristica è un’intrinseca incompiutezza. Nel regno animale la forma aperta si tramuta in forma chiusa. Ci troviamo dinanzi ad un nuovo livello vitale in cui l’interazione è mediata da una struttura centrale determinante l’attiva immissione dell’animale nel suo habitat; viene meno quella circolarità indisturbata che caratterizzava il ciclo biologico delle piante. L’animale è un organismo autonomo che reagisce all’ambiente secondo i propri impulsi, istinti, sensazioni: esso dunque agisce direttamente sull’ambiente. L’animale è pertanto un vivente equipaggiato di coscienza, poiché è capace di distinguersi dall’ambiente e di opporsi ad esso. Ma la sua è una coscienza limitata, perché non è consapevole di quel che fa: l’animale ha un suo corpo, ha un ambiente che conosce e su cui agisce, ma non sa di averli. Proprio in ciò risiede l’insuperabile limite dell’animale. Plessner tratteggia il livello animale ricorrendo alla metafora della “centricità”: l’animale occupa una posizione nello spazio che altro non è se non il suo centro. In tale centro, l’animale avverte gli stimoli che provengono dall’esterno e da questo centro mette in moto le sue risposte. Plessner sostiene che “l’animale vive a muovere dal centro e a ritornare nel suo centro […], ma non vive come centro”, non ha riflessività, è posto nel suo corpo vivente e si muove a partir dal centro dato da questo corpo, ma senza avere coscienza di ciò che fa. L’organismo centrale dell’animale non è ancora un io: pur sapendo conoscere e agire, l’animale non ne ha coscienza. Al livello più alto della scala sta l’umano, che costituisce il più compiuto grado della legge posizionale: al pari dell’animale, anche l’umano rientra nella forma chiusa; ma a differenza dell’animale “si pone alle proprie spalle”, riuscendo cioè a distanziarsi da sé e a raggiungere l’autocoscienza, che è il più alto punto di riflessività di tutto il sistema vivente. Solo nell’umano è raggiunta la riflessività totale: l’uomo, prendendo le distanze da sé, riesce a porre fine al dominio incontrastato della centralità. In virtù di ciò, l’uomo supera la necessità biologica a cui restava ancorato l’animale (il quale vive al centro del proprio ambiente naturale e non può mai uscirne perché non ha coscienza). Grazie all’autoriflessione, all’uomo è dato trascendere il centro biologico della propria vita, conquistando una posizione eccentrica. Caratteristico dell’uomo è poi il presentarsi in una pluralità di forme, per cui “è corpo, nel corpo (come vita interiore o psichica) e fuori dal corpo, come punto di vista dal quale esso è entrambi. Un individuo che ha questa triplice caratteristica posizionale si chiama ‘persona’”. Se con l’animale si passa dal dividuum (tipico del vegetale) all’individuum (che è la singolarità garantita dal centro), con l’uomo e con la sua eccentricità si passa dall’individuo alla persona. Quest’ultima è la perfetta realizzazione dell’eccentricità, il più perfetto modo dell’uomo di essere se stesso e di riflettere su di sé, raggiungendo l’autocoscienza.

 


LE TRE LEGGI ANTROPOLOGICHE


Come può l’uomo assumere un’adeguata posizione all’interno della sua vita? Su quali basi deve fondare il proprio agire? A costituire un ostacolo al modo di vivere umano è l’opposizione conflittuale tra eccentricità e vitalità. Esponendo le tre leggi antropologiche fondamentali, Plessner intende mettere in luce come l’uomo costruisca la sua vita nel distacco originario dall’immediatezza mediata. La prima è la legge dell’artificialità naturale, per cui l’uomo non vive in contatto immediato con l’ambiente, ma ha bisogno di ricorrere a cose artificiali. Se l’animale esiste semplicemente senza conoscersi e senza riflettere sull’ambiente di cui è parte, l’uomo ha smarrito la naturalezza e deve tramutare il mondo naturale in mondo artificiale, trovandosi in una situazione di disagio e di instabilità costante. Si vede costretto a produrre strumenti (utensili, abitazioni, vestiti) per vivere nella natura. L’uomo trova nell’artificialità del mondo della cultura la sua seconda terra di nascita e può in tal maniera infrangere tutti i limiti che lo vincolano ad un’esistenza soltanto naturale: se vuole sopravvivere, deve agire e deve farlo in modo intelligente, superando le carenze che la natura gli ha imposto (“l’uomo è un animale carente”). Proprio perché sa far ricorso a mezzi naturali (e con essi raggiunge un equilibrio che la sola natura mai gli avrebbe concesso), l’uomo è il più alto livello del processo vitale. La seconda è la legge dell’immediatezza mediata, per cui l’uomo vive al contempo come organismo animale nell’immediatezza della natura e come essere eccentrico nella mediazione culturale. Nel comportamento umano sussiste una costante correlazione tra gli aspetti a priori e quelli a posteriori: la produttività umana e la capacità di dar vita a ciò che prima era inesistente richiedono sempre una trasformazione del naturale. Si parte dalla natura immediata e la si tramuta in una creazione artificiale. Dall’immediatezza dell’esigenza di potenziare la forza umana si è passati all’artificiosa mediazione del martello, inventato appunto per potenziare la forza della mano. La terza è la legge del luogo utopico, per cui l’uomo, in quanto essere eccentrico, si trova sempre proiettato al di là di tutto ciò che gli si presenta dinanzi: rinunciando ad ogni stabilità, egli non ha patria, non può contare su una propria casa nel mondo. È da ricercarsi qui la scaturigine dell’insicurezza umana e dell’inquietudine: allontanandosi dall’immediatezza del puro dato, l’uomo sperimenta se stesso e il mondo come nullità; proprio per ciò avverte l’esigenza di ricercare un fondamento assoluto. E poiché all’eccentricità non corrisponde alcuna precisa posizione, l’uomo non può mai sapere in quale luogo stia la verità. Sicché la nozione di essere e di nulla, la causa dell’esistenza individuale e del mondo, mutano senza sosta nel corso della storia a seconda delle diverse culture e religioni che si succedono. L’uomo è diviso tra un mondo interno e uno esterno: egli si trova dietro e sopra la sua vita e sperimenta il suo essere e quello del mondo come elementi contingenti e del tutto deboli. L’eccentricità della sua forma di vita, il suo non esser mai da nessuna parte (il luogo utopico per l’appunto), dischiudono all’uomo le più svariate possibilità, che spaziano da un pessimismo nichilistico a un’apertura verso Dio.

 


IL COMPORTAMENTO DELL’UOMO


Essere nel mondo significa per l’uomo dirigere la propria vita: egli è esposto agli stimoli dell’ambiente esterno e, di fronte ad essi, deve selezionare le risposte comportamentali adeguate. Perché ciò possa accadere, l’uomo deve architettarsi un ambiente artificiale, un cosmo culturale equipaggiato di complessi strumenti con cui esprimersi e relazionarsi agli altri. Ciò non di meno, l’uomo mantiene sempre uno stretto rapporto con l’organicità naturale, alla quale resta ancorato. In questo senso, l’espressione, che pure dimostra un forte rapporto corporeo, mette in luce la presenza di un qualcosa che non è di per sé corporeo, ma che piuttosto sembra appartenere a un grado di interiorità psichica e mentale. Le sue estrinsecazioni appaiono non soltanto in forza della mediazione corporale: esprimono anche una componente concettuale. Il punto di partenza per Plessner ora non è più la differenza tra l’umano e il resto del vivente: è piuttosto il mondo dei comportamenti. Il nuovo percorso della riflessione plessneriana procederà dunque dalla sfera delle espressioni corporee fino alla più alta sfera dell’interiorità. Ed è quel che egli fa nello scritto Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano. In questa indagine, Plessner si trova ad approfondire comportamenti espressivi umani come il linguaggio, il gesto, il pianto e il riso, senza più curarsi degli elementi a priori su cui si fonda il carattere eccentrico dell’uomo. La corporeità e le sue attestazioni sono un’inesauribile fonte di conoscenza dell’uomo: non si può infatti separare la persona dal suo corpo, proprio perché essa è un’inscindibile unità psico-fisica. Comportamenti come l’espressione, la gestualità, il linguaggio, il riso e il pianto sono altrettanti prodotti derivanti dall’interazione fra l’uomo e l’ambiente, cosicché la loro unica spiegazione è di tipo meccanicistico. Plessner rigetta la soluzione darwiniana per cui ogni atto espressivo deriverebbe da un’eccitazione nel sistema nervoso e sarebbe riconducibile ad una ripetizione di comportamenti diventati abituali poiché selezionati come utili alla sopravvivenza della specie. Nella manifestazione mimica dell’ira, ad esempio, si mostra un’espressione della bocca che mette in evidenza i denti canini: questa smorfia è per Darwin ormai inutile in termini filogenetici, ma serviva (come difesa o come mezzo di minaccia) alle scimmie antropoidi (da cui deriva l’uomo). Una siffatta spiegazione è, agli occhi di Plessner, semplicistica e riduttiva, poiché egli si propone di interpretare il comportamento umano come uno specchio dell’essenza dell’uomo, alla luce del fatto che “il comportamento è la dimensione in cui l’uomo esprime se stesso e dalla quale è lecito partire per comprenderlo adeguatamente […] è la tipica manifestazione di un essere che è per natura in rapporto col mondo”. La capacità espressiva umana si manifesta particolarmente in due ambiti: il linguaggio e la gestualità. Il primo costituisce il simbolo dell’essenza umana che realizza per suo tramite la possibilità di tratteggiare ciò che al momento non è presente e di riattualizzarlo grazie al ragionamento. Più di ogni altra forma espressiva, il linguaggio definisce la specificità dell’uomo, consistente nella sua capacità di operare astrazioni concettuali e di comunicare in maniera articolata. A differenza dell’uomo, l’animale non ha il linguaggio giacché non è interessato alle informazioni che vanno al di là dell’immediata necessità. Permettendo la creazione di un mondo di concetti (grazie ai quali diventa possibile non smarrirsi in quel babelico eccesso di stimoli inviati senza sosta dal mondo circostante), il linguaggio aiuta l’uomo ad orientarsi e, insieme, a distaccarsi dal mondo, rendendo possibile l’acquisizione dell’umana posizione eccentrica. L’espressione mimica rappresenta, insieme al linguaggio, uno dei mezzi di cui l’uomo si serve per trasmettere ad altri i suoi stati d’animo: in essa il contenuto psichico e la forma fisica si comportano come i due poli di un unico insieme, che non può essere diviso senza demolire la sua vitalità naturale. L’aspetto del volto è un’immagine avente una trasparenza spirituale e un’adamantina capacità simbolica: e, per quanto sia possibile ingannare gli altri controllando la propria espressione mimica e la propria gestualità per mascherare il nostro aspetto interiore, sussiste comunque una specifica modalità dell’espressione corporea che non si può sostituire in alcun caso.


IL PIANTO E IL RISO


Secondo Plessner, l’uomo si caratterizza non solo per la sua capacità di esprimersi col linguaggio, di compiere procedimenti astrattivi e razionalizzanti, ma anche per la sua capacità di piangere (Weinen) e di ridere (Lachen). Sono espressioni emotive tipiche soltanto dell’essere umano: ma se fossero solo manifestazioni affettive, moti espressivi emozionali, allora dovrebbero essere presenti allo stesso modo negli animali. Ne segue che il pianto e il riso non sono soltanto forme emotive: per coglierne la natura, occorre indagare sul rapporto che l’uomo ha con se stesso e, soprattutto, col suo corpo. Quando si scoppia a piangere o a ridere, avviene una vera e propria frattura nell’equilibrio psico-fisico dell’uomo: questi perde il controllo di sé e non riesce più ad esprimersi come fa abitualmente, ad affrontare di petto l’ondata emotiva che lo travolge. Entra in questo modo in crisi l’unità della persona ed emerge un comportamento disgregato e di rottura: in esso, i processi corporei si emancipano e l’individuo perde il controllo sull’aspetto fisico del suo esistere. L’esistere gli sfugge di mano e lo obbliga a reazioni insospettate. Nello scoppio del riso e del pianto, l’uomo si sente improvvisamente spossessato: è come se smarrisse il rapporto con la dimensione fisica dell’esistenza, la quale sfugge al suo comando e scivola in una reazione incontrollabile. Sicché le condizioni essenziali del riso e del pianto sono la reazione “repentina” ed “eruttiva” verso un evento minaccioso a cui non si può rispondere. Tanto nel pianto quanto nel riso, si infrange l’equilibrio tra fisico e psichico, tra corpo e mente, con un’improvvisa perdita di autodominio; ma nell’esplosione fulminea del riso si interrompe il rapporto tra l’io e il suo corpo, lasciando a quest’ultimo la completa libertà di replicare. Invece, nel graduale abbandono al pianto, è l’uomo stesso a rinunciare a tale rapporto, lasciandosi trascinare dall’emotività. Sia nel riso sia nel pianto, è messa in luce la natura composita dell’uomo, il quale si presenta nella dialettica duplicità dell’essere un corpo e dell’avere un corpo. In questa duplicità, che richiede un’ininterrotta mediazione, consiste il rischio e, insieme, l’unicità dell’umana esistenza.   

 

 

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