FILOSOFIA DELLA STORIA E POLITICA IN KANT



Concluderemo la nostra disamina con qualche riflessione di filosofia della storia, cercando di trarre le conclusioni sui concetti di frode e di forza nella modernità: dobbiamo cercare di spostare l’attenzione da tali concetti alla filosofia della storia, la quale nasce come disciplina moderna il cui contenuto specifico ha a che vedere con la promessa che la dimensione del ricorso a mezzi come la forza e la frode sia destinata, nel corso della storia, ad essere superata, all’interno di un processo di graduale razionalizzazione anche del corso storico. Il che implica che, nelle relazioni politiche, alcuni mezzi tradizionali (come appunto la forza e la frode) dovrebbero essere abbandonati e sostituiti da altri. In realtà, il senso che affiora dal discorso che stiamo per condurre è un diffuso scetticismo circa il fatto che la frode sia decaduta e sia stata soppiantata da altri strumenti, anche alla luce del fatto che nella storia essa è stata sempre ammessa (anche se mai del tutto legittimata). Ragionando di filosofia della storia, parleremo di Per la pace perpetua di Kant: infatti, se si vuole analizzare la riflessione kantiana sulla storia, sono tre i testi che debbono assolutamente essere esaminati. Il primo, risalente al 1784, si intitola Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico ed è il primo testo in cui Kant dà una formulazione compiuta della sua riflessione sulla filosofia della storia: l’espressione “storia universale” andava sempre più diffondendosi nell’età illuministica - età che del resto aveva anche coniato (a farlo era stato Voltaire nel suo Saggio sui costumi) l’espressione “filosofia della storia” –, ad indicare che la considerazione della storia doveva porsi su un piano universale, a monte degli ambiti geografici specifici; la storiografia dell’età illuministica tende infatti, per sua natura, a prestare attenzione all’universale e, di conseguenza, ad atteggiarsi in maniera cosmopolitica, analizzando il senso della storia non dal punto di vista ora di quel Paese, ora di quell’altro, ma in maniera generale. In questo scritto, Kant pone i pilastri della sua riflessione sulla storia, che sarà poi sviluppata in Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, del 1795. Nei dodici anni intercorsi tra l’Idea e questo secondo scritto, è avvenuta la Rivoluzione Francese e ciò fornisce un nuovo stimolo di riflessione, aprendo la speranza e introducendo motivi di uno scetticismo che emergerà soprattutto nella terza opera kantiana – la sua ultima opera pubblicata - sulla filosofia della storia, Il conflitto delle facoltà (1798), dove le “facoltà” in questione sono le facoltà universitarie (di teologia, di giurisprudenza, di medicina, ecc), che sono tra loro in conflitto per l’egemonia accademica. Il tema di quest’ultima opera, in realtà, esulerebbe dagli interessi che qui ci animano, se non fosse che, in essa, compare un frammento significativamente intitolato Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio. In tale frammento, che porta a compimento la riflessione kantiana sulla filosofia della storia, si notano differenze di rilievo rispetto al precedente Per la pace perpetua: nei tre anni che separano i due scritti, la Rivoluzione Francese ha infatti preso un’altra direzione e, se ai tempi di Per la pace perpetua, Kant non aveva ancora le idee chiare sul valore da attribuire alla Rivoluzione, ora che ha coscienza del Terrore giacobino non ha più alcun dubbio. Quello che abbiamo testé delineato sommariamente è il campo su cui dobbiamo fissare i concetti della filosofia della storia kantiana, partendo dall’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Quest’ultima, è un’opera assai succinta e articolata in tesi: Kant prova a ragionare sulla storia e, nel fare ciò, propone nove tesi argomentate; nella premessa all’opera, egli avverte i lettori che il dominio dell’agire pratico e storico ha a che fare con la libertà del volere, i cui fenomeni sono determinati come tutti gli altri eventi naturali. Ha allora senso – si chiede Kant – porsi il problema della filosofia della storia come ricerca di leggi che regolano anche l’agire umano, pur senza mettere in discussione la libertà dell’uomo (la quale si esercita in uno spazio predeterminato da quella che egli definirà come legge della ragione nella storia, ossia come una sorta di teleologia della natura, sulla scia di quanto si sostiene nella Critica del Giudizio)? Kant, a differenza di Hegel e dei Positivisti, non ha la percezione e la convinzione che l’umanità stia prendendo tra le mani il proprio destino e che il progresso sia necessario e scontato: al contrario, la visione che egli ha è alquanto problematica, come appare fin dalla premessa dell’opera: “poiché gli uomini, nei loro sforzi, non si comportano semplicemente in modo istintivo, come gli animali, ma neppure in modo prestabilito […] di loro non pare possibile una storia sistematica, come ad esempio quella delle api o dei castori”. Centrale, nel discorso kantiano, è la nozione di “sforzo”: la natura, che pure si configura come versione secolarizzata della Provvidenza,  è anche matrigna, nella misura in cui non lascia l’uomo nella sua comodità, ma anzi gli richiede sforzi immani. Del resto, l’uomo non si comporta istintivamente (come fanno invece gli animali) né secondo un piano prestabilito: col che è esclusa sia una dimensione pacificamente evolutiva sia quello che verrà chiamato “costruttivismo”, alludendo a una concezione razionale della storia come progetto umano che trasforma la medesima. Gli evoluzionisti storici sono coloro che, in senso quasi istintuale, hanno un’idea radicale e autogarantita del mercato (così certo liberismo suppone che l’abbandono alla dimensione dei bisogni istintuali produca evoluzione e la maggior felicità per il maggior numero); sull’altro versante, i costruttivisti pensano che la storia possa essere guidata verso la felicità per il maggior numero attraverso la pianificazione della società. Si tratta di due maniere ottimistiche e deterministiche di intendere la storia, e Kant le rifiuta entrambe, in quanto convinto che la storia umana non sia riducibile ad automatismi né a costruzioni razionali tali da governare gli accadimenti. Affiora poi lo scetticismo kantiano, nella misura in cui egli dice che “non si può trattenere un certo fastidio a vedere rappresentato il loro [degli uomini] fare e omettere sulla grande scena del mondo, e pur con l’apparenza, di tanto in tanto, della saggezza […] si trova il fare e omettere intessuto di vanità infantile”. È un’antropologia pessimistica in forza della quale si prova fastidio a vedere gli uomini che agiscono: ci sono sì degli sprazzi di razionalità, ma lo spettacolo, nel suo complesso, è colmo di stupidità, vanità, cattiveria. Kant, che pure altrove parla di “male radicale” (ossia di una volontà che può essere distorta e scegliere, nella sua libertà, il male anziché il bene), sta qui sottolineando la dimensione di quella stupidità infantile dell’uomo che porta a guerre e a lotte fratricide, a tal punto che, in conclusione, Kant stesso resta scettico sul genere umano. “Per il filosofo non c’è altra via d’uscita […] che quella di tentare se, in questo assurdo andamento delle cose umane, possa scoprire uno scopo della natura”: con ciò, il filosofo tedesco intende dire che lo spettacolo della storia umana è così desolato e sconsolante che non possiamo ammettere uno scopo in essa, cosicché l’unico appiglio che abbiamo (ed è questa la carta che la filosofia della storia gioca) è che ci sia uno scopo della natura, che incarna in forma secolarizzata la Provvidenza dei Cristiani. Pertanto la natura persegue uno scopo contro la volontà degli uomini e a loro insaputa: essi sono come burattini che agiscono al suo servizio. Allora si può, e anzi si deve, ammettere “una storia secondo un determinato piano della natura”. È, questa, una delle possibili opzioni che si aprono alla filosofia della storia: se volgiamo lo sguardo al frammento - contenuto in Il conflitto delle facoltà - Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, notiamo come in esso Kant affronti la problematica in maniera più esplicita, cercando di capire che cosa il filosofo possa predire del futuro, senza però diventare una Pizia: ha senso – si chiede Kant – interrogarsi sul futuro? Egli risponde che, in fin dei conti, se guardiamo alla storia interrogandoci sul futuro, possiamo delineare tre diverse concezioni della medesima: 1) una concezione “terroristica”, 2) una “abderitistica”, 3) una “eudemonistica”. Partendo dalla prima, Kant asserisce che essa è teoricamente possibile ma pragmaticamente problematica, giacché, se pensiamo alla storia come costante regresso verso il peggio (questo significa “terrorismo” morale), allora arriviamo a un punto in cui la storia è destinata a finire, cosicché essa “distruggerebbe se stessa”. Quando parla di “terrorismo”, Kant ha in mente soprattutto le concezioni apocalittiche della storia, dall’Apocalisse fino al Medioevo, quando si pensava che ormai la Terra fosse il regno dell’Anticristo: si tratta di una concezione propria dei “visionari”, ossia di chi ha una prospettiva religiosa e mistica del corso storico e che, nella massima corruzione, scorge una possibile rigenerazione: in questo senso, la concezione terroristica si declina innanzitutto come “millenarismo” o “chiliasmo”. Tuttavia essa presenta anche un’altra faccia: quella dell’apocalittica secolarizzata; ad esempio, Günter Stern sostiene che, con la bomba atomica, il genere umano ha acquisito la possibilità di annientarsi e, di conseguenza, potrà sopravvivere nella misura in cui si controllerà: in quest’accezione, il resto della storia è solo “dilazione”. A differenza del millenarismo, che prevedeva una rigenerazione, l’apocalittica secolarizzata non la prevede. Diverso è invece il modo di affrontare il problema da parte di quanti sostengono la concezione “abderitistica”: quest’espressione deriva dalla città di Abdera e fa riferimento ad un noto dibattito, sviluppatosi da Mendelssohn in poi, sulla storia come guazzabuglio caotico. La posizione abderitistica, che è la più diffusa, affiora già nelle concezioni della storia cicliche di un Platone o di un Polibio: essendo ciclica, la storia viene a configurarsi come dominio della follia, “si rovescia – dice Kant – il piano del progresso, si costruisce per poter abbattere”. L’immagine che meglio esprime una siffatta posizione è quella di Sisifo che eternamente tira su una pietra destinata a ricadere di continuo: “il risultato ne sarebbe l’inerzia […] un gioco da marionette”, giacché, in tale agitarsi vano, ci troveremmo – nota Kant – sullo stesso piano degli animali, con la sola differenza che per loro accade per istintualità, mentre gli uomini si sforzano e si logorano l’intelletto. Anche l’abderitismo, al pari del terrorismo, si declina in due forme: oltre alla già citata ciclicità della storia, esso si presenta infatti anche nelle sembianze di una concezione anarchica che esclude qualsiasi ordine (mentre la concezione ciclica contemplava un qualche ordine, anche se con andamento – per così dire – sinusoidale). Infine, la terza e ultima concezione della storia è quella “eudemonistica”, secondo la quale la storia dev’essere intesa come progresso: se leggiamo le pagine in cui Kant ne parla, subito ci accorgiamo che, almeno a prima vista, egli rifiuta tale concezione del progresso verso il meglio: come può aumentare – egli si chiede – la quantità del bene inerente la nostra natura? Se infatti nell’uomo c’è libertà di scegliere il bene o il male, come si può allora assumere che la storia proceda verso il bene e si lasci alle spalle per sempre il male? Tutte le filosofie (quella di Condorcet in primis) che considerano il progresso come garantito, muovono dalla convinzione che si riesca, un po’ alla volta, a cambiare la natura umana (poiché soltanto cambiando la natura umana può esserci progresso: altrimenti si cadrebbe nel paradosso di riconoscere che da un “legno storto”, ossia da un misto di bene e di male quale è l’uomo, nasca solo il bene): ma quelle dell’eudemonismo – dice Kant – sono solo “vane speranze” insostenibili e da rifiutare, alla stregua di ogni concezione dogmatica ed escatologica del progresso. Così dicendo, Kant si pone in un orizzonte lontanissimo da quello di certe filosofie ottocentesche, secondo le quali la storia sarà o un costante accrescimento della libertà (Hegel) o una progressiva razionalizzazione del corso storico (Comte) o ancora una transizione dal “regno della necessità” al “regno della libertà” (Marx). Ciò non di meno Kant non esclude un’altra avriante dell’eudemonismo, una concezione del “progresso possibile”, sulla quale egli ragiona alla luce del “piano della natura” di cui prima abbiamo detto. “Quand’anche fosse provato che il genere umano […] abbia a lungo progredito e possa ancora progredire […], nessuno può sostenere che non possa ora iniziare il suo regresso”: la filosofia della storia, cioè, non può garantire nulla, dal momento che – a monte – sta un discorso di antropologia, per cui, prima di domandarsi “dove va il genere umano?”, occorre chiedersi “che cos’è l’uomo?”. A quest’ultima domanda, Kant risponde dicendo che l’uomo è un “legno storto”, ossia una miscela di bene e di male da cui non è dato pronosticare un esito della storia o totalmente positivo o totalmente negativo. Dal momento che abbiamo a che fare con esseri che agiscono liberamente, dei quali non si può predire l’agire, non possiamo trarre certezze, possiamo soltanto indicare agli uomini che cosa fare (senza però avere la certezza che effettivamente lo faranno) e possiamo proporre – come fa Kant stesso in Per la pace perpetua - dei modelli di convivenza politica (senza trarne la certezza che gli uomini li attueranno). Kant ragiona, in particolare, sulla Rivoluzione Francese, che a suo avviso è l’evento decisivo per dare un nuovo impulso alla filosofia della storia: nel 1894, egli aveva più certezze circa il progresso; ora, dopo la Rivoluzione, dice che esse mancano ma che tuttavia ci sono “segni prognostici” che inducono a ritenere plausibile uno sviluppo verso il meglio. “Dobbiamo ricercare un avvenimento che riveli […] l’esistenza di una tale causa del progresso verso il meglio”: la formulazione kantiana del problema è alquanto contorta, in quanto egli sta combattendo contro se sesso e contro le sue convinzioni secondo cui l’uomo è un legno storto; la ragione si rifiuta di credere che dal legno storto possa nascere un albero della storia diritto, ma ciononostante bisogna cercare nell’evento storico qualcosa che ci convinca di un possibile futuro progresso verso il meglio. Tale evento, che cambia le carte in tavola della riflessione sulla storia, è appunto la Rivoluzione Francese, la quale “non consiste in fatti o misfatti”: al contrario, dobbiamo riconoscere quell’evento con l’atteggiamento di chi guarda al corso storico come spettatore. Se ci caliamo nell’evento della Rivoluzione, non abbiamo il conforto di un argomento in favore della tesi del progresso (infatti i misfatti compiuti dalla Rivoluzione sembrano provare l’opposto del progresso, in quanto non attestano che terrorismo e violenza). Ma se guardiamo con distacco di spettatori tale evento, allora possiamo ravvisare i segni premonitori del progresso. “La Rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità […] può riuscire o fallire, essa può accumulare miseria e crudeltà tali che un uomo benpensante esiterebbe a ripeterla”, però essa “trova negli spiriti di tutti gli spettatori […] una partecipazione ed aspirazione che rasenta l’entusiasmo”. Nel fatto che gli spettatori prendano le distanze dagli orrori e dalle violenze rivoluzionari, pur avendo entusiasmo, poiché vi scorgono qualcosa che dischiude nuovi orizzonti, seppur attraverso lutti e disavventure, è racchiuso l’indizio di una disposizione morale dell’uomo ad andare verso il meglio: non è casuale se, nella storia (la quale è storia di libertà), agisce anche tale disposizione morale che, date certe condizioni, può avere l’esito del progresso. Si tratta tuttavia di un discorso che diventa problematico se riferito al XX secolo, il quale ha portato forti argomenti (la bomba atomica, il totalitarismo, i gulag, i lager, ecc) in favore della concezione “terroristica” della storia. Ma nel corso dell’Ottocento, all’interno di concezioni meno problematiche della storia e tali da scorgere nel progresso non una possibilità ma una necessità ineludibile, si viene a postulare anche il necessario realizzarsi del progresso morale: una tale convinzione, alla luce del Novecento e delle sue grandi catastrofi, non può che sgretolarsi, giacché se è senz’altro vero che v’è stato progresso scientifico, tecnologico, giuridico, istituzionale e politico, ciò non di meno non è possibile affermare che vi sia stato progresso morale. Dobbiamo allora fare nostra la posizione kantiana, rendendola ulteriormente scettica in merito alla nozione di progresso morale, alla luce del fatto che il Novecento ha distrutto quello che era il dispositivo stante alla base della filosofia kantiana della storia. Ed è sicuramente curioso il fatto che, tra le varie discipline filosofiche, la filosofia della storia sia quella che ha avuto la vita più breve: infatti, se di filosofia politica o di filosofia morale parlavano già Platone e Aristotele, e se perfino la filosofia analitica, che prima facie parrebbe essere un’invenzione di Wittgenstein, è in realtà già al cuore della retorica aristotelica, della discussione scolastica dell’età medievale e della logica di Port-Royal, resta vero il fatto che, dal canto suo, la filosofia della storia compare più recentemente sullo scenario filosofico, in quanto non si può sicuramente ascrivere ad essa la troppo rudimentale nozione di anakuklosiV presente in Platone e Polibio. Abbiamo in precedenza notato come il termine – “filosofia della storia” – sia stato coniato da Voltaire nella seconda metà del XVIII secolo e come, di fatto, la disciplina stessa nasca in quel torno di anni, per poi morire nel Novecento: l’ultima opera di filosofia della storia può considerarsi Il tramonto dell’Occidente di Spengler, composto sul finire della Prima Guerra Mondiale. Ciò è sintomatico del fatto stesso che il dispositivo teorico della filosofia della storia non regge più, è collassato, anche perché forse non era che una secolarizzazione dell’idea religiosa di Provvidenza. Torniamo ora a Kant, alla sua Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e alla prima tesi in essa contenuta, che così recita: “tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in modo completo e conforme al fine”. Si tratta di una paradigmatica formulazione della tesi teleologica secondo la quale, in natura, vi sono delle disposizioni che sono – in senso aristotelico – in potenza e destinate a passare all’atto; a tal proposito, Kant dice che “un organo non utilizzato […] è una contraddizione nella dottrina teleologica della natura”, mettendo così in luce come debba essere rigettata l’idea che in natura vi possano essere giochi senza scopi (è in tal maniera riproposta, in forma secolarizzata, la tesi dell’armonia prestabilita). La seconda tesi non fa che specificare la prima in riferimento all’uomo: “nell’uomo, in quanto unica creatura razionale sulla terra, quelle disposizioni naturali che sono finalizzate all’uso della sua ragione si sviluppano completamente nel genere e non nell’individuo”. Ciò significa che, nel caso del genere umano, non si può dire che per tutti i singoli uomini quelle disposizioni razionali si dispieghino interamente: ci sono sì individui particolarmente dotati in cui ciò avviene, ma nella maggior parte dei casi tali disposizioni raggiungono livelli minimi. Sicché l’eccezione del genere umano risiede nel fatto che il teleologismo vale soprattutto per il genere preso nel suo insieme. La terza tesi afferma che “la natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da sé tutto ciò che va oltre l’organizzazione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse di altra felicità o perfezione se non quella che egli si fosse procurato da se stesso per mezzo della ragione”. Emerge qui la peculiarità della condizione umana, il fatto che in essa il teleologismo non avvenga in modo spontaneo o istintivo, ma attraverso uno sforzo: la natura, infatti, “non fa nulla di superfluo e non si prodiga”, cosicché le realizzazioni umane dipendono dallo sforzo e dalla lotta contro una natura che è parsimoniosa e che quasi ha voluto che l’uomo dovesse avere il merito esclusivo del proprio progresso. Antropologicamente l’uomo è infatti un essere difettivo e deficitario, non ha le certezze istintive né la protezione naturale di cui invece dispongono gli altri animali (zanne, olfatto, artigli, ecc): proprio in questa avarizia della natura verso l’uomo, noi possiamo individuare il segno del fatto che la natura stessa a lui chieda una prova morale, domandandogli di uscire dalla rozzezza iniziale e di raggiungere da solo la felicità, in maniera tale da dover poi ringraziare soltanto se stesso e da acquisire una stima razionale di sé. Questo punto è compendiato da Kant in questa riflessione: “c’è un intero esercito di fatiche […] sembra che la natura non sia stata affatto interessata che egli [l’uomo] vivesse bene, bensì che si sforzasse tanto da rendersi degno della vita e del benessere col suo agire”. La quarta tesi dice che “il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro [degli uomini] antagonismo nella società”: è qui racchiuso il nocciolo dell’antropologia kantiana (che molto deve a Hobbes), che per “antagonismo” intende “l’insocievole socievolezza degli uomini”, ossia la loro tendenza a unirsi in società e, al contempo, la resistenza a farlo, la voglia di sciogliere la società stessa e di isolarsi. L’antagonismo che caratterizza la società deriva appunto dall’insocievole socievolezza, per cui l’uomo tende a isolarsi perché prova, all’interno della società, il fastidio di non poter realizzare tutti i propri progetti come vorrebbe (in quanto ostacolato dalla presenza degli altri uomini): ma è proprio a questo punto che scatta la molla del progresso, giacché nell’uomo si risvegliano tutte le forze e ciò lo porta a superare la tendenza alla pigrizia e lo induce a tentare di procurarsi un rango tra quei suoi consoci che non può sopportare ma dei quali non può neppure fare a meno. Così, attraverso tale antagonismo, si compiono i primi passi dalla barbarie alla cultura: l’idea di Kant è che, in origine, gli uomini siano costretti ad entrare in società dalle loro manchevolezze; poi però tale ingresso in società produce quel qualcosa in più e in meglio che è la disposizione morale a vivere in società. Passiamo alla quinta tesi: “il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto”. Originariamente, l’uomo non arriva alle organizzazioni giuridiche, finché poi non si introduce lo stratagemma della natura che, tramite l’antagonismo con gli altri uomini, lo costringe ad entrare nella società civile. Dunque l’inclinazione naturale dell’uomo è all’anarchia, alla libertà incondizionata: è poi la pena a costringerlo a condizionare la sua libertà, giacché, quando si violano le regole della società, vengono comminate sanzioni. In questo senso, le leggi poste dal diritto sono parziali proiezioni della morale. Per meglio chiarire questo punto, Kant ricorre ad un esempio piuttosto efficace: proprio come gli alberi crescono forti perché ognuno cerca di privare gli altri della luce e dell’aria costringendoli per ciò ad innalzarsi con sforzo, così l’uomo – nota Kant – è un “legno storto” che si raddrizza sotto costrizione della natura, ma si tratta di un raddrizzarsi giuridico e non morale. Così dicendo, il filosofo tedesco non si illude che l’ordinamento giuridico trasformi gli uomini in angeli dall’agire morale irreprensibile, e tuttavia è convinto che esso possa raddrizzarli almeno dal punto di vista del comportamento esteriore, creando condizioni favorevoli all’esercizio della morale (è infatti più facile, com’è ovvio, essere onesti in una società regolata da leggi piuttosto che in una caotica situazione di anarchia). Kant riscontra dunque, con la quinta tesi, il problema della nascita della societas civilis, ossia dello Stato – come lo si designava all’epoca: sarà poi il primo Ottocento a contrapporre tra loro società civile e Stato, in un’accezione ancora oggi usata, mentre tra Seicento e Settecento la grande dicotomia è tra lo stato di natura e la società civile. La sesta tesi recita che “questo problema è insieme il più difficile e quello che sarà risolto più tardi dal genere umano”. Ciò significa che la costituzione della società civile si pone alla fine di un lungo processo e, per di più, non nella naturalità del medesimo (come invece credeva Aristotele quando concepiva la poliV come un prodotto naturale di quell’animale politico che è a suo avviso l’uomo); non è allora qualcosa di scontato, ma è piuttosto il compito più difficile che l’umanità sia chiamata a svolgere. L’illustrazione che dà Kant di questa tesi è piuttosto interessante, anche perché è qui che egli introduce la definizione dell’uomo come “legno storto”. La difficoltà che questo compito pone sta nel fatto che  “l’uomo è un animale che, quando vive tra altri del suo stesso genere, ha bisogno di un padrone”. Se per Aristotele tra i cittadini v’è uguaglianza e non sussiste il bisogno di un padrone, per Kant, antropologicamente più pessimista, l’uomo necessita di un padrone che ne freni gli abusi di libertà nei confronti dei suoi simili. Il paradosso sta nel fatto che, da un lato, gli uomini desiderano leggi che limitino la libertà di tutti, ma, dall’altro, ciascuno, dopo che la libertà altrui è stata limitata, non vorrebbe a propria volta andare incontro a tale limitazione: proprio per ciò occorre un padrone che lo costringa ad obbedire a una volontà universalmente valida. Tale padrone non è però un despota: piuttosto, è un sovrano tale da rappresentare un ordine giuridico per tutti valido. Con ciò, il problema non è ancora risolto, giacché resta pur sempre vero che anche il padrone è “un animale che ha bisogno di un padrone”: egli (ma il discorso può anche essere esteso a un’assemblea) tenderà naturalmente, in quanto uomo, ad abusare della sua libertà, a meno che non sia disciplinato da un padrone che lo limiti. Con questa riflessione, Kant sta gettando le basi di quell’atteggiamento tipicamente liberale di chi nutre un sentimento scettico verso il potere, perché consapevole che esso tende sempre fatalmente a capovolgersi in abuso e a limitare la libertà altrui. “Il capo supremo deve essere giusto per se stesso e deve essere anche un uomo”: questa è l’aporia formulata da Kant, che riconosce esplicitamente come un tale compito sia difficilissimo e non presenti una soluzione perfetta. È sì vero che esiste il progresso giuridico delle istituzioni, ma ciononostante la soluzione perfetta è impossibile perché “da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla di completamente diritto”. Nella società civile, il “legno storto” cresce più diritto (perché limitato), ma vi sarà sempre un albero più alto (quello della sovranità) che potrà cedere alla corruzione perché non limitato da qualcuno di superiore. Come Kant chiarirà meglio in Per la pace perpetua, l’assetto delle istituzioni che fornisce la soluzione migliore è quello repubblicano, ossia il governo esercitato sotto leggi universali e caratterizzato dalla divisione dei poteri. Tuttavia, il problema del progresso giuridico non si esaurisce qui: v’è ancora un passo da compiere, un passo non ancora compiuto ai tempi di Kant ma nel quale il filosofo tedesco confida. Esso consiste nella formazione di una “confederazione di Stati pacifici”, ossia in quello che egli – in Per la pace perpetua - chiama foedus pacificum: non basta neutralizzare il conflitto che avviene tra gli individui all’interno dello Stato, bensì occorre anche superare il conflitto tra gli stati, ossia la guerra. Così la settima tesi dice che “il problema dell’instaurazione di una costituzione civile perfetta dipende dal problema di un rapporto esterno tra gli Stati secondo leggi e va risolto su questo piano”: Kant sta qui suggerendo una spiegazione piuttosto acuta, sottolineando come gli Stati – al pari degli individui – tendano a confliggere tra loro; tuttavia, se gli individui comprendono piuttosto agevolmente come ciò sia per loro rischioso e, per ciò, costituiscono lo Stato come superamento dei conflitti stessi, ciò avviene per gli stati in maniera meno agevole. Anch’essi – dice Kant – debbono superare i conflitti, ma ciò è reso difficile dal fatto che, guerreggiando, essi – a differenza di quel che accade nei conflitti tra individui - non mettono a repentaglio la loro stessa esistenza, cosicché lo Stato potrà essere sconfitto e, ciononostante, non perirà né esso né il sovrano. Sicché uscire dallo stato di natura vigente tra gli Stati è cosa assai più difficile rispetto all’uscita dallo stato di natura degli individui: ci vuole un meccanismo tale da spiegare siffatta evoluzione e Kant lo rinviene nel fatto che, facendosi guerra, gli Stati si devono sempre riorganizzare al proprio interno, giacché vince quello meglio organizzato, ossia quello che presenta al proprio interno la divisione dei poteri, concede libertà ai sudditi: insomma, meglio organizzati sono gli Stati civili. In quest’ottica, la guerra non fa altro che ammodernare e perfezionare le istituzioni, facendole passare dalla forma dispotica a quella repubblicana e dando sempre più potere al popolo: e quest’ultimo non ha alcun interesse a fare la guerra, perché ne paga sulla propria pelle i costi (in termini di tasse e di vite umane). Pertanto – nota Kant – la guerra ha funzione di progresso giuridico degli Stati, in quanto li fa diventare repubblicani: al termine di quest’evoluzione messa in moto dalla guerra, troviamo individui che non hanno più alcun interesse a fare la guerra, con la conseguenza che a prevalere sarà la pace anche tra gli Stati; al contrario, negli Stati non repubblicani, il sovrano praticava la guerra quasi come uno sport, come se si trattasse di una “battuta di caccia”. Al cuore di Per la pace perpetua vi sono tre “articoli” fondamentali per l’attuazione della pace che analizzeremo più avanti: il primo merita però di essere esaminato ora, in quanto recita che “la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana”, cioè – precisa Kant – dev’essere: a) secondo princìpi della libertà dei membri in quanto uomini, b) secondo fondamenti della dipendenza di tutti, in quanto sudditi, da un’unica legislazione comune, c) secondo la legge dell’eguaglianza in quanto cittadini. Si tratta di una costituzione che prevede diritti sanciti da una carta e divisione dei poteri. Nell’ Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant tenta di sostenere la plausibilità del passaggio alla pace tra Stati, consapevole che si tratta di congetture più che di argomenti probanti: in particolare, a chi sostiene che la pace può sussistere solo tra gli individui e non tra gli Stati, possiamo secondo Kant obiettare che sarebbe un’assurdità che la natura facesse regnare la teleologia tra le parti ma non nel tutto. Nell’ottava tesi, egli sostiene che “si può considerare la storia del genere umano in grande come il compimento di un piano nascosto della natura volto ad instaurare una perfetta costituzione statale interna e anche esterna, in quanto unica condizione nella quale la natura possa completamente sviluppare nell’umanità tutte le sue disposizioni”: se – come abbiamo visto prima - originariamente è il conflitto a sviluppare le disposizioni umane degli individui, le quali però giungono a compimento soltanto in condizioni pacifiche, allora ciò varrà anche per gli Stati, cosicché la condizione di pace sarà in assoluto la più favorevole allo sviluppo delle disposizioni umane. La nona tesi è presentata come un’integrazione dell’ottava: “un tentativo filosofico di elaborare la storia universale secondo un piano della natura che tenda alla perfetta unificazione civile nel genere umano deve essere considerato possibile, e anzi tale da promuovere questo scopo naturale”. Ciò significa che i filosofi non possono pianificare la storia e creare un ordine giusto, il quale è invece il prodotto della natura stessa; tuttavia, essi possono chiarire e, dunque, accelerare tale sviluppo e proprio in ciò risiede il compito dell’Aufklärung. Passiamo ora a Per la pace perpetua: si tratta di un libro che, a tutta prima, può risultare strano per via della sua articolazione inconsueta. Infatti, vi troviamo una prima sezione contenente sei articoli, poi una seconda contenente gli articoli definitivi, dopo di che un primo ampliamento e, dopo, un secondo ampliamento. Questa strana struttura si spiega se teniamo conto che Kant, nello scrivere questo testo, ha ironicamente assunto come paradigma letterario i trattati di pace stesi dai diplomatici del suo tempo: in particolare, egli si rifà al testo del trattato di pace siglato a Basilea nel 1795 e traveste il suo saggio nelle forme di un trattato avente le sue precondizioni, le sue parti centrali e le “clausole segrete” (così si spiega il curioso titolo del secondo supplemento: Articolo segreto per la pace perpetua). Abbiamo in precedenza definito il primo dei tre articoli definitivi dell’opera, quello secondo cui ogni costituzione civile dev’essere una repubblica. Il secondo introduce l’elemento esterno, in quanto guarda al rapporto intercorrente tra gli Stati, ossia al diritto internazionale, che deve risolversi in una “confederazione di liberi Stati” (liberi nel senso di sovrani, cioè privi di un potere superiore) tale da poter dirimere le controversie tra Stati senza far ricorso alla guerra. Kant è pienamente consapevole del rischio che si possa voler risolvere il problema dei rapporti tra Stati creando uno Stato “planetario” (del resto già Dante pensava ad una “monarchia universale”): ma ciò comporterebbe – egli rileva – un dispotismo tale da costringere gli altri Stati attraverso princìpi troppo rigidi. Tuttavia, egli riconosce anche che, se tale Stato planetario fosse attuabile in modo non dispotico, non sarebbe una cattiva cosa: ma poiché ciò è difficilmente attuabile, ci dobbiamo accontentare di un “surrogato negativo” dello Stato planetario, ossia dobbiamo puntare ad una confederazione che ripudi la guerra e faccia regnare la pace. Il terzo e ultimo articolo riguarda il “diritto cosmopolitico”, col quale Kant pare legittimare un diritto di accoglienza e, dunque, porre le basi per una società multiculturale. In realtà, per Kant tale diritto dev’essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale, la quale non è una forma di filantropia, ma è piuttosto il diritto di uno straniero a non essere trattato “in modo ostile quando arriva sul suolo di un altro Stato”. Egli non si propone qui di tratteggiare una società multiculturale in cui trovino posto gli stranieri di ogni dove, ma sta piuttosto criticando quelle politiche coloniali dell’Occidente che si imponevano occupando altri territori e violando tale diritto di ospitalità (lo mutavano anzi in diritto di occupazione). Si tratta – precisa Kant – di un “diritto di visita”: tutti hanno diritto ad occupare una porzione di superficie terrestre senza essere cacciati. Passando alla prima sezione dell’opera, vi troviamo quegli “articoli preliminari” che enunciano ciò che gli Stati debbono o non debbono fare  se si vuole ottenere la pace: ad esempio, nei trattati di pace non ci devono essere clausole che prevedano ulteriori occasioni di guerra, lo Stato non può considerarsi proprietà patrimoniale del sovrano, gli eserciti devono gradualmente sparire del tutto, non si devono contrarre debiti di guerra tra Stati, nessuno Stato deve intromettersi con la forza nel governo degli altri. Kant prevede inoltre uno ius in bello tale per cui nessuno Stato deve permettersi, in guerra, di usare sicari, avvelenatori e frodi di altro genere: l’idea di fondo è che anche in guerra si debbano rispettare norme ed evitare “stratagemmi infami”, poiché deve sussistere un minimo di fiducia anche negli Stati, altrimenti mai si arriverà a siglare una pace e le guerre termineranno soltanto col la distruzione totale del nemico. Il “primo supplemento” dell’opera si occupa delle garanzie della pace perpetua e, a tal proposito, Kant recupera le sue riflessioni di filosofia della storia emerse nell’ Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico: a garantire la pace è il “piano della natura” e anche una repubblica “di diavoli”, se razionale, riuscirebbe a dare una soluzione conveniente al problema della convivenza.                    

 


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