Concluderemo la
nostra disamina con qualche riflessione di filosofia della storia, cercando di
trarre le conclusioni sui concetti di frode e di forza nella modernità:
dobbiamo cercare di spostare l’attenzione da tali concetti alla filosofia della
storia, la quale nasce come disciplina moderna il cui contenuto specifico ha a
che vedere con la promessa che la dimensione del ricorso a mezzi come la forza
e la frode sia destinata, nel corso della storia, ad essere superata,
all’interno di un processo di graduale razionalizzazione anche del corso
storico. Il che implica che, nelle relazioni politiche, alcuni mezzi
tradizionali (come appunto la forza e la frode) dovrebbero essere abbandonati e
sostituiti da altri. In realtà, il senso che affiora dal discorso che stiamo
per condurre è un diffuso scetticismo circa il fatto che la frode sia decaduta
e sia stata soppiantata da altri strumenti, anche alla luce del fatto che nella
storia essa è stata sempre ammessa (anche se mai del tutto legittimata).
Ragionando di filosofia della storia, parleremo di Per la pace perpetua
di Kant: infatti, se si vuole analizzare la riflessione kantiana sulla storia,
sono tre i testi che debbono assolutamente essere esaminati. Il primo,
risalente al 1784, si intitola Idea per una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico ed è il primo testo in cui Kant dà una formulazione
compiuta della sua riflessione sulla filosofia della storia: l’espressione
“storia universale” andava sempre più diffondendosi nell’età illuministica -
età che del resto aveva anche coniato (a farlo era stato Voltaire nel suo Saggio
sui costumi) l’espressione “filosofia della storia” –, ad indicare che la
considerazione della storia doveva porsi su un piano universale, a monte degli
ambiti geografici specifici; la storiografia dell’età illuministica tende
infatti, per sua natura, a prestare attenzione all’universale e, di
conseguenza, ad atteggiarsi in maniera cosmopolitica, analizzando il senso
della storia non dal punto di vista ora di quel Paese, ora di quell’altro, ma
in maniera generale. In questo scritto, Kant pone i pilastri della sua
riflessione sulla storia, che sarà poi sviluppata in Per la pace perpetua.
Un progetto filosofico, del 1795. Nei dodici anni intercorsi tra l’Idea
e questo secondo scritto, è avvenuta la Rivoluzione Francese e ciò fornisce un nuovo stimolo di riflessione, aprendo la speranza e
introducendo motivi di uno scetticismo che emergerà soprattutto nella terza
opera kantiana – la sua ultima opera pubblicata - sulla filosofia della storia,
Il conflitto delle facoltà (1798), dove le “facoltà” in questione sono
le facoltà universitarie (di teologia, di giurisprudenza, di medicina, ecc),
che sono tra loro in conflitto per l’egemonia accademica. Il tema di
quest’ultima opera, in realtà, esulerebbe dagli interessi che qui ci animano,
se non fosse che, in essa, compare un frammento significativamente intitolato Se
il genere umano sia in costante progresso verso il meglio. In tale
frammento, che porta a compimento la riflessione kantiana sulla filosofia della
storia, si notano differenze di rilievo rispetto al precedente Per la pace
perpetua: nei tre anni che separano i due scritti, la Rivoluzione Francese ha infatti preso un’altra direzione e, se ai tempi di Per la pace
perpetua, Kant non aveva ancora le idee chiare sul valore da attribuire
alla Rivoluzione, ora che ha coscienza del Terrore giacobino non ha più alcun
dubbio. Quello che abbiamo testé delineato sommariamente è il campo su cui
dobbiamo fissare i concetti della filosofia della storia kantiana, partendo
dall’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico.
Quest’ultima, è un’opera assai succinta e articolata in tesi: Kant prova a
ragionare sulla storia e, nel fare ciò, propone nove tesi argomentate; nella
premessa all’opera, egli avverte i lettori che il dominio dell’agire pratico e
storico ha a che fare con la libertà del volere, i cui fenomeni sono
determinati come tutti gli altri eventi naturali. Ha allora senso – si chiede
Kant – porsi il problema della filosofia della storia come ricerca di leggi che
regolano anche l’agire umano, pur senza mettere in discussione la libertà
dell’uomo (la quale si esercita in uno spazio predeterminato da quella che egli
definirà come legge della ragione nella storia, ossia come una sorta di
teleologia della natura, sulla scia di quanto si sostiene nella Critica del
Giudizio)? Kant, a differenza di Hegel e dei Positivisti, non ha la
percezione e la convinzione che l’umanità stia prendendo tra le mani il proprio
destino e che il progresso sia necessario e scontato: al contrario, la visione
che egli ha è alquanto problematica, come appare fin dalla premessa dell’opera:
“poiché gli uomini, nei loro sforzi, non si comportano semplicemente in modo
istintivo, come gli animali, ma neppure in modo prestabilito […] di loro non
pare possibile una storia sistematica, come ad esempio quella delle api o dei
castori”. Centrale, nel discorso kantiano, è la nozione di “sforzo”: la
natura, che pure si configura come versione secolarizzata della Provvidenza, è
anche matrigna, nella misura in cui non lascia l’uomo nella sua comodità, ma
anzi gli richiede sforzi immani. Del resto, l’uomo non si comporta
istintivamente (come fanno invece gli animali) né secondo un piano
prestabilito: col che è esclusa sia una dimensione pacificamente evolutiva sia
quello che verrà chiamato “costruttivismo”, alludendo a una concezione
razionale della storia come progetto umano che trasforma la medesima. Gli
evoluzionisti storici sono coloro che, in senso quasi istintuale, hanno un’idea
radicale e autogarantita del mercato (così certo liberismo suppone che
l’abbandono alla dimensione dei bisogni istintuali produca evoluzione e la
maggior felicità per il maggior numero); sull’altro versante, i costruttivisti
pensano che la storia possa essere guidata verso la felicità per il maggior
numero attraverso la pianificazione della società. Si tratta di due maniere
ottimistiche e deterministiche di intendere la storia, e Kant le rifiuta
entrambe, in quanto convinto che la storia umana non sia riducibile ad
automatismi né a costruzioni razionali tali da governare gli accadimenti.
Affiora poi lo scetticismo kantiano, nella misura in cui egli dice che “non
si può trattenere un certo fastidio a vedere rappresentato il loro [degli
uomini] fare e omettere sulla grande scena del mondo, e pur con l’apparenza, di
tanto in tanto, della saggezza […] si trova il fare e omettere intessuto di
vanità infantile”. È un’antropologia pessimistica in forza della quale si
prova fastidio a vedere gli uomini che agiscono: ci sono sì degli sprazzi di
razionalità, ma lo spettacolo, nel suo complesso, è colmo di stupidità, vanità,
cattiveria. Kant, che pure altrove parla di “male radicale” (ossia di
una volontà che può essere distorta e scegliere, nella sua libertà, il male
anziché il bene), sta qui sottolineando la dimensione di quella stupidità
infantile dell’uomo che porta a guerre e a lotte fratricide, a tal punto che,
in conclusione, Kant stesso resta scettico sul genere umano. “Per il
filosofo non c’è altra via d’uscita […] che quella di tentare se, in questo
assurdo andamento delle cose umane, possa scoprire uno scopo della natura”:
con ciò, il filosofo tedesco intende dire che lo spettacolo della storia umana
è così desolato e sconsolante che non possiamo ammettere uno scopo in essa,
cosicché l’unico appiglio che abbiamo (ed è questa la carta che la filosofia
della storia gioca) è che ci sia uno scopo della natura, che incarna in forma
secolarizzata la Provvidenza dei Cristiani. Pertanto la natura persegue uno
scopo contro la volontà degli uomini e a loro insaputa: essi sono come burattini
che agiscono al suo servizio. Allora si può, e anzi si deve, ammettere “una
storia secondo un determinato piano della natura”. È, questa, una delle
possibili opzioni che si aprono alla filosofia della storia: se volgiamo lo
sguardo al frammento - contenuto in Il conflitto delle facoltà - Se
il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, notiamo come
in esso Kant affronti la problematica in maniera più esplicita, cercando di
capire che cosa il filosofo possa predire del futuro, senza però diventare una
Pizia: ha senso – si chiede Kant – interrogarsi sul futuro? Egli risponde che,
in fin dei conti, se guardiamo alla storia interrogandoci sul futuro, possiamo
delineare tre diverse concezioni della medesima: 1) una concezione “terroristica”,
2) una “abderitistica”, 3) una “eudemonistica”. Partendo dalla
prima, Kant asserisce che essa è teoricamente possibile ma pragmaticamente
problematica, giacché, se pensiamo alla storia come costante regresso verso il
peggio (questo significa “terrorismo” morale), allora arriviamo a un punto in
cui la storia è destinata a finire, cosicché essa “distruggerebbe se stessa”.
Quando parla di “terrorismo”, Kant ha in mente soprattutto le concezioni
apocalittiche della storia, dall’Apocalisse fino al Medioevo, quando si pensava
che ormai la Terra fosse il regno dell’Anticristo: si tratta di una concezione
propria dei “visionari”, ossia di chi ha una prospettiva religiosa e
mistica del corso storico e che, nella massima corruzione, scorge una possibile
rigenerazione: in questo senso, la concezione terroristica si declina
innanzitutto come “millenarismo” o “chiliasmo”. Tuttavia essa presenta anche
un’altra faccia: quella dell’apocalittica secolarizzata; ad esempio, Günter
Stern sostiene che, con la bomba atomica, il genere umano ha acquisito la
possibilità di annientarsi e, di conseguenza, potrà sopravvivere nella misura
in cui si controllerà: in quest’accezione, il resto della storia è solo “dilazione”.
A differenza del millenarismo, che prevedeva una rigenerazione, l’apocalittica
secolarizzata non la prevede. Diverso è invece il modo di affrontare il
problema da parte di quanti sostengono la concezione “abderitistica”:
quest’espressione deriva dalla città di Abdera e fa riferimento ad un noto
dibattito, sviluppatosi da Mendelssohn in poi, sulla storia come guazzabuglio
caotico. La posizione abderitistica, che è la più diffusa, affiora già nelle
concezioni della storia cicliche di un Platone o di un Polibio: essendo
ciclica, la storia viene a configurarsi come dominio della follia, “si
rovescia – dice Kant – il piano del progresso, si costruisce per poter
abbattere”. L’immagine che meglio esprime una siffatta posizione è quella
di Sisifo che eternamente tira su una pietra destinata a ricadere di continuo:
“il risultato ne sarebbe l’inerzia […] un gioco da marionette”, giacché,
in tale agitarsi vano, ci troveremmo – nota Kant – sullo stesso piano degli
animali, con la sola differenza che per loro accade per istintualità, mentre
gli uomini si sforzano e si logorano l’intelletto. Anche l’abderitismo, al pari
del terrorismo, si declina in due forme: oltre alla già citata ciclicità della
storia, esso si presenta infatti anche nelle sembianze di una concezione
anarchica che esclude qualsiasi ordine (mentre la concezione ciclica
contemplava un qualche ordine, anche se con andamento – per così dire –
sinusoidale). Infine, la terza e ultima concezione della storia è quella “eudemonistica”,
secondo la quale la storia dev’essere intesa come progresso: se leggiamo le
pagine in cui Kant ne parla, subito ci accorgiamo che, almeno a prima vista,
egli rifiuta tale concezione del progresso verso il meglio: come può aumentare
– egli si chiede – la quantità del bene inerente la nostra natura? Se infatti
nell’uomo c’è libertà di scegliere il bene o il male, come si può allora
assumere che la storia proceda verso il bene e si lasci alle spalle per sempre
il male? Tutte le filosofie (quella di Condorcet in primis) che
considerano il progresso come garantito, muovono dalla convinzione che si riesca,
un po’ alla volta, a cambiare la natura umana (poiché soltanto cambiando la
natura umana può esserci progresso: altrimenti si cadrebbe nel paradosso di
riconoscere che da un “legno storto”, ossia da un misto di bene e di
male quale è l’uomo, nasca solo il bene): ma quelle dell’eudemonismo – dice
Kant – sono solo “vane speranze” insostenibili e da rifiutare, alla stregua di
ogni concezione dogmatica ed escatologica del progresso. Così dicendo, Kant si
pone in un orizzonte lontanissimo da quello di certe filosofie ottocentesche,
secondo le quali la storia sarà o un costante accrescimento della libertà
(Hegel) o una progressiva razionalizzazione del corso storico (Comte) o ancora
una transizione dal “regno della necessità” al “regno della libertà”
(Marx). Ciò non di meno Kant non esclude un’altra avriante dell’eudemonismo,
una concezione del “progresso possibile”, sulla quale egli ragiona alla luce
del “piano della natura” di cui prima abbiamo detto. “Quand’anche
fosse provato che il genere umano […] abbia a lungo progredito e possa ancora
progredire […], nessuno può sostenere che non possa ora iniziare il suo
regresso”: la filosofia della storia, cioè, non può garantire nulla, dal
momento che – a monte – sta un discorso di antropologia, per cui, prima di domandarsi
“dove va il genere umano?”, occorre chiedersi “che cos’è l’uomo?”. A
quest’ultima domanda, Kant risponde dicendo che l’uomo è un “legno storto”,
ossia una miscela di bene e di male da cui non è dato pronosticare un esito
della storia o totalmente positivo o totalmente negativo. Dal momento che
abbiamo a che fare con esseri che agiscono liberamente, dei quali non si può
predire l’agire, non possiamo trarre certezze, possiamo soltanto indicare agli
uomini che cosa fare (senza però avere la certezza che effettivamente lo
faranno) e possiamo proporre – come fa Kant stesso in Per la pace perpetua -
dei modelli di convivenza politica (senza trarne la certezza che gli uomini li
attueranno). Kant ragiona, in particolare, sulla Rivoluzione Francese, che a
suo avviso è l’evento decisivo per dare un nuovo impulso alla filosofia della
storia: nel 1894, egli aveva più certezze circa il progresso; ora, dopo la Rivoluzione, dice che esse mancano ma che tuttavia ci sono “segni prognostici” che
inducono a ritenere plausibile uno sviluppo verso il meglio. “Dobbiamo
ricercare un avvenimento che riveli […] l’esistenza di una tale causa del
progresso verso il meglio”: la formulazione kantiana del problema è
alquanto contorta, in quanto egli sta combattendo contro se sesso e contro le
sue convinzioni secondo cui l’uomo è un legno storto; la ragione si rifiuta di
credere che dal legno storto possa nascere un albero della storia diritto, ma
ciononostante bisogna cercare nell’evento storico qualcosa che ci convinca di
un possibile futuro progresso verso il meglio. Tale evento, che cambia le carte
in tavola della riflessione sulla storia, è appunto la Rivoluzione Francese, la quale “non consiste in fatti o misfatti”: al contrario,
dobbiamo riconoscere quell’evento con l’atteggiamento di chi guarda al corso
storico come spettatore. Se ci caliamo nell’evento della Rivoluzione, non
abbiamo il conforto di un argomento in favore della tesi del progresso (infatti
i misfatti compiuti dalla Rivoluzione sembrano provare l’opposto del progresso,
in quanto non attestano che terrorismo e violenza). Ma se guardiamo con
distacco di spettatori tale evento, allora possiamo ravvisare i segni
premonitori del progresso. “La Rivoluzione di un popolo di ricca
spiritualità […] può riuscire o fallire, essa può accumulare miseria e crudeltà
tali che un uomo benpensante esiterebbe a ripeterla”, però essa “trova
negli spiriti di tutti gli spettatori […] una partecipazione ed aspirazione che
rasenta l’entusiasmo”. Nel fatto che gli spettatori prendano le distanze
dagli orrori e dalle violenze rivoluzionari, pur avendo entusiasmo, poiché vi
scorgono qualcosa che dischiude nuovi orizzonti, seppur attraverso lutti e
disavventure, è racchiuso l’indizio di una disposizione morale dell’uomo ad
andare verso il meglio: non è casuale se, nella storia (la quale è storia di
libertà), agisce anche tale disposizione morale che, date certe condizioni, può
avere l’esito del progresso. Si tratta tuttavia di un discorso che diventa
problematico se riferito al XX secolo, il quale ha portato forti argomenti (la
bomba atomica, il totalitarismo, i gulag, i lager, ecc) in favore della
concezione “terroristica” della storia. Ma nel corso dell’Ottocento,
all’interno di concezioni meno problematiche della storia e tali da scorgere
nel progresso non una possibilità ma una necessità ineludibile, si viene a
postulare anche il necessario realizzarsi del progresso morale: una tale
convinzione, alla luce del Novecento e delle sue grandi catastrofi, non può che
sgretolarsi, giacché se è senz’altro vero che v’è stato progresso scientifico,
tecnologico, giuridico, istituzionale e politico, ciò non di meno non è
possibile affermare che vi sia stato progresso morale. Dobbiamo allora fare
nostra la posizione kantiana, rendendola ulteriormente scettica in merito alla
nozione di progresso morale, alla luce del fatto che il Novecento ha distrutto
quello che era il dispositivo stante alla base della filosofia kantiana della
storia. Ed è sicuramente curioso il fatto che, tra le varie discipline
filosofiche, la filosofia della storia sia quella che ha avuto la vita più
breve: infatti, se di filosofia politica o di filosofia morale parlavano già
Platone e Aristotele, e se perfino la filosofia analitica, che prima facie
parrebbe essere un’invenzione di Wittgenstein, è in realtà già al cuore della
retorica aristotelica, della discussione scolastica dell’età medievale e della
logica di Port-Royal, resta vero il fatto che, dal canto suo, la filosofia
della storia compare più recentemente sullo scenario filosofico, in quanto non
si può sicuramente ascrivere ad essa la troppo rudimentale nozione di
anakuklosiV presente in Platone e Polibio. Abbiamo in
precedenza notato come il termine – “filosofia della storia” – sia stato
coniato da Voltaire nella seconda metà del XVIII secolo e come, di fatto, la
disciplina stessa nasca in quel torno di anni, per poi morire nel Novecento:
l’ultima opera di filosofia della storia può considerarsi Il tramonto
dell’Occidente di Spengler, composto sul finire della Prima Guerra
Mondiale. Ciò è sintomatico del fatto stesso che il dispositivo teorico della
filosofia della storia non regge più, è collassato, anche perché forse non era
che una secolarizzazione dell’idea religiosa di Provvidenza. Torniamo ora a
Kant, alla sua Idea per una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico e alla prima tesi in essa contenuta, che così recita: “tutte
le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno
in modo completo e conforme al fine”. Si tratta di una paradigmatica formulazione
della tesi teleologica secondo la quale, in natura, vi sono delle disposizioni
che sono – in senso aristotelico – in potenza e destinate a passare all’atto; a
tal proposito, Kant dice che “un organo non utilizzato […] è una
contraddizione nella dottrina teleologica della natura”, mettendo così in
luce come debba essere rigettata l’idea che in natura vi possano essere giochi
senza scopi (è in tal maniera riproposta, in forma secolarizzata, la tesi dell’armonia
prestabilita). La seconda tesi non fa che specificare la prima in
riferimento all’uomo: “nell’uomo, in quanto unica creatura razionale sulla
terra, quelle disposizioni naturali che sono finalizzate all’uso della sua
ragione si sviluppano completamente nel genere e non nell’individuo”. Ciò significa
che, nel caso del genere umano, non si può dire che per tutti i singoli uomini
quelle disposizioni razionali si dispieghino interamente: ci sono sì individui
particolarmente dotati in cui ciò avviene, ma nella maggior parte dei casi tali
disposizioni raggiungono livelli minimi. Sicché l’eccezione del genere umano
risiede nel fatto che il teleologismo vale soprattutto per il genere preso nel
suo insieme. La terza tesi afferma che “la natura ha voluto che l’uomo
traesse interamente da sé tutto ciò che va oltre l’organizzazione meccanica
della sua esistenza animale e che non partecipasse di altra felicità o
perfezione se non quella che egli si fosse procurato da se stesso per mezzo
della ragione”. Emerge qui la peculiarità della condizione umana, il fatto
che in essa il teleologismo non avvenga in modo spontaneo o istintivo, ma
attraverso uno sforzo: la natura, infatti, “non fa nulla di superfluo e non
si prodiga”, cosicché le realizzazioni umane dipendono dallo sforzo e dalla
lotta contro una natura che è parsimoniosa e che quasi ha voluto che l’uomo
dovesse avere il merito esclusivo del proprio progresso. Antropologicamente
l’uomo è infatti un essere difettivo e deficitario, non ha le certezze
istintive né la protezione naturale di cui invece dispongono gli altri animali
(zanne, olfatto, artigli, ecc): proprio in questa avarizia della natura verso
l’uomo, noi possiamo individuare il segno del fatto che la natura stessa a lui
chieda una prova morale, domandandogli di uscire dalla rozzezza iniziale e di raggiungere
da solo la felicità, in maniera tale da dover poi ringraziare soltanto se
stesso e da acquisire una stima razionale di sé. Questo punto è compendiato da
Kant in questa riflessione: “c’è un intero esercito di fatiche […] sembra
che la natura non sia stata affatto interessata che egli [l’uomo] vivesse bene,
bensì che si sforzasse tanto da rendersi degno della vita e del benessere col
suo agire”. La quarta tesi dice che “il mezzo di cui la natura si serve
per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro
[degli uomini] antagonismo nella società”: è qui racchiuso il nocciolo
dell’antropologia kantiana (che molto deve a Hobbes), che per “antagonismo”
intende “l’insocievole socievolezza degli uomini”, ossia la loro tendenza a unirsi
in società e, al contempo, la resistenza a farlo, la voglia di sciogliere la
società stessa e di isolarsi. L’antagonismo che caratterizza la società deriva
appunto dall’insocievole socievolezza, per cui l’uomo tende a isolarsi
perché prova, all’interno della società, il fastidio di non poter realizzare
tutti i propri progetti come vorrebbe (in quanto ostacolato dalla presenza
degli altri uomini): ma è proprio a questo punto che scatta la molla del
progresso, giacché nell’uomo si risvegliano tutte le forze e ciò lo porta a
superare la tendenza alla pigrizia e lo induce a tentare di procurarsi un rango
tra quei suoi consoci che non può sopportare ma dei quali non può neppure fare
a meno. Così, attraverso tale antagonismo, si compiono i primi passi dalla barbarie
alla cultura: l’idea di Kant è che, in origine, gli uomini siano costretti ad
entrare in società dalle loro manchevolezze; poi però tale ingresso in società
produce quel qualcosa in più e in meglio che è la disposizione morale a vivere
in società. Passiamo alla quinta tesi: “il massimo problema per il genere
umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una
società civile che faccia valere universalmente il diritto”.
Originariamente, l’uomo non arriva alle organizzazioni giuridiche, finché poi
non si introduce lo stratagemma della natura che, tramite l’antagonismo con gli
altri uomini, lo costringe ad entrare nella società civile. Dunque
l’inclinazione naturale dell’uomo è all’anarchia, alla libertà incondizionata:
è poi la pena a costringerlo a condizionare la sua libertà, giacché, quando si
violano le regole della società, vengono comminate sanzioni. In questo senso,
le leggi poste dal diritto sono parziali proiezioni della morale. Per meglio
chiarire questo punto, Kant ricorre ad un esempio piuttosto efficace: proprio
come gli alberi crescono forti perché ognuno cerca di privare gli altri della
luce e dell’aria costringendoli per ciò ad innalzarsi con sforzo, così l’uomo –
nota Kant – è un “legno storto” che si raddrizza sotto costrizione della
natura, ma si tratta di un raddrizzarsi giuridico e non morale. Così dicendo,
il filosofo tedesco non si illude che l’ordinamento giuridico trasformi gli
uomini in angeli dall’agire morale irreprensibile, e tuttavia è convinto che esso
possa raddrizzarli almeno dal punto di vista del comportamento esteriore,
creando condizioni favorevoli all’esercizio della morale (è infatti più facile,
com’è ovvio, essere onesti in una società regolata da leggi piuttosto che in
una caotica situazione di anarchia). Kant riscontra dunque, con la quinta tesi,
il problema della nascita della societas civilis, ossia dello Stato –
come lo si designava all’epoca: sarà poi il primo Ottocento a contrapporre tra
loro società civile e Stato, in un’accezione ancora oggi usata, mentre tra
Seicento e Settecento la grande dicotomia è tra lo stato di natura e la società
civile. La sesta tesi recita che “questo problema è insieme il più difficile
e quello che sarà risolto più tardi dal genere umano”. Ciò significa che la
costituzione della società civile si pone alla fine di un lungo processo e, per
di più, non nella naturalità del medesimo (come invece credeva Aristotele
quando concepiva la poliV come un
prodotto naturale di quell’animale politico che è a suo avviso l’uomo);
non è allora qualcosa di scontato, ma è piuttosto il compito più difficile che
l’umanità sia chiamata a svolgere. L’illustrazione che dà Kant di questa tesi è
piuttosto interessante, anche perché è qui che egli introduce la definizione
dell’uomo come “legno storto”. La difficoltà che questo compito pone sta
nel fatto che “l’uomo è un animale che, quando vive tra altri del suo
stesso genere, ha bisogno di un padrone”. Se per Aristotele tra i cittadini
v’è uguaglianza e non sussiste il bisogno di un padrone, per Kant,
antropologicamente più pessimista, l’uomo necessita di un padrone che ne freni
gli abusi di libertà nei confronti dei suoi simili. Il paradosso sta nel fatto
che, da un lato, gli uomini desiderano leggi che limitino la libertà di tutti,
ma, dall’altro, ciascuno, dopo che la libertà altrui è stata limitata, non
vorrebbe a propria volta andare incontro a tale limitazione: proprio per ciò
occorre un padrone che lo costringa ad obbedire a una volontà universalmente
valida. Tale padrone non è però un despota: piuttosto, è un sovrano tale da
rappresentare un ordine giuridico per tutti valido. Con ciò, il problema non è
ancora risolto, giacché resta pur sempre vero che anche il padrone è “un
animale che ha bisogno di un padrone”: egli (ma il discorso può anche
essere esteso a un’assemblea) tenderà naturalmente, in quanto uomo, ad abusare
della sua libertà, a meno che non sia disciplinato da un padrone che lo limiti.
Con questa riflessione, Kant sta gettando le basi di quell’atteggiamento
tipicamente liberale di chi nutre un sentimento scettico verso il potere,
perché consapevole che esso tende sempre fatalmente a capovolgersi in abuso e a
limitare la libertà altrui. “Il capo supremo deve essere giusto per se
stesso e deve essere anche un uomo”: questa è l’aporia formulata da Kant,
che riconosce esplicitamente come un tale compito sia difficilissimo e non
presenti una soluzione perfetta. È sì vero che esiste il progresso giuridico
delle istituzioni, ma ciononostante la soluzione perfetta è impossibile perché
“da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla
di completamente diritto”. Nella società civile, il “legno storto” cresce
più diritto (perché limitato), ma vi sarà sempre un albero più alto (quello
della sovranità) che potrà cedere alla corruzione perché non limitato da
qualcuno di superiore. Come Kant chiarirà meglio in Per la pace perpetua,
l’assetto delle istituzioni che fornisce la soluzione migliore è quello
repubblicano, ossia il governo esercitato sotto leggi universali e
caratterizzato dalla divisione dei poteri. Tuttavia, il problema del progresso
giuridico non si esaurisce qui: v’è ancora un passo da compiere, un passo non
ancora compiuto ai tempi di Kant ma nel quale il filosofo tedesco confida. Esso
consiste nella formazione di una “confederazione di Stati pacifici”, ossia in
quello che egli – in Per la pace perpetua - chiama foedus pacificum:
non basta neutralizzare il conflitto che avviene tra gli individui all’interno
dello Stato, bensì occorre anche superare il conflitto tra gli stati, ossia la
guerra. Così la settima tesi dice che “il problema dell’instaurazione di una
costituzione civile perfetta dipende dal problema di un rapporto esterno tra
gli Stati secondo leggi e va risolto su questo piano”: Kant sta qui
suggerendo una spiegazione piuttosto acuta, sottolineando come gli Stati – al
pari degli individui – tendano a confliggere tra loro; tuttavia, se gli
individui comprendono piuttosto agevolmente come ciò sia per loro rischioso e,
per ciò, costituiscono lo Stato come superamento dei conflitti stessi, ciò
avviene per gli stati in maniera meno agevole. Anch’essi – dice Kant – debbono
superare i conflitti, ma ciò è reso difficile dal fatto che, guerreggiando,
essi – a differenza di quel che accade nei conflitti tra individui - non
mettono a repentaglio la loro stessa esistenza, cosicché lo Stato potrà essere
sconfitto e, ciononostante, non perirà né esso né il sovrano. Sicché uscire
dallo stato di natura vigente tra gli Stati è cosa assai più difficile rispetto
all’uscita dallo stato di natura degli individui: ci vuole un meccanismo tale
da spiegare siffatta evoluzione e Kant lo rinviene nel fatto che, facendosi
guerra, gli Stati si devono sempre riorganizzare al proprio interno, giacché
vince quello meglio organizzato, ossia quello che presenta al proprio interno
la divisione dei poteri, concede libertà ai sudditi: insomma, meglio
organizzati sono gli Stati civili. In quest’ottica, la guerra non fa altro che
ammodernare e perfezionare le istituzioni, facendole passare dalla forma
dispotica a quella repubblicana e dando sempre più potere al popolo: e
quest’ultimo non ha alcun interesse a fare la guerra, perché ne paga sulla
propria pelle i costi (in termini di tasse e di vite umane). Pertanto – nota
Kant – la guerra ha funzione di progresso giuridico degli Stati, in quanto li
fa diventare repubblicani: al termine di quest’evoluzione messa in moto dalla
guerra, troviamo individui che non hanno più alcun interesse a fare la guerra,
con la conseguenza che a prevalere sarà la pace anche tra gli Stati; al
contrario, negli Stati non repubblicani, il sovrano praticava la guerra quasi
come uno sport, come se si trattasse di una “battuta di caccia”.
Al cuore di Per la pace perpetua vi sono tre “articoli” fondamentali per
l’attuazione della pace che analizzeremo più avanti: il primo merita però di
essere esaminato ora, in quanto recita che “la costituzione civile di ogni
Stato dev’essere repubblicana”, cioè – precisa Kant – dev’essere: a)
secondo princìpi della libertà dei membri in quanto uomini, b) secondo
fondamenti della dipendenza di tutti, in quanto sudditi, da un’unica
legislazione comune, c) secondo la legge dell’eguaglianza in quanto cittadini.
Si tratta di una costituzione che prevede diritti sanciti da una carta e
divisione dei poteri. Nell’ Idea per una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico, Kant tenta di sostenere la plausibilità del passaggio
alla pace tra Stati, consapevole che si tratta di congetture più che di
argomenti probanti: in particolare, a chi sostiene che la pace può sussistere
solo tra gli individui e non tra gli Stati, possiamo secondo Kant obiettare che
sarebbe un’assurdità che la natura facesse regnare la teleologia tra le parti
ma non nel tutto. Nell’ottava tesi, egli sostiene che “si può considerare la
storia del genere umano in grande come il compimento di un piano nascosto della
natura volto ad instaurare una perfetta costituzione statale interna e anche esterna,
in quanto unica condizione nella quale la natura possa completamente sviluppare
nell’umanità tutte le sue disposizioni”: se – come abbiamo visto prima -
originariamente è il conflitto a sviluppare le disposizioni umane degli
individui, le quali però giungono a compimento soltanto in condizioni
pacifiche, allora ciò varrà anche per gli Stati, cosicché la condizione di pace
sarà in assoluto la più favorevole allo sviluppo delle disposizioni umane. La
nona tesi è presentata come un’integrazione dell’ottava: “un tentativo
filosofico di elaborare la storia universale secondo un piano della natura che
tenda alla perfetta unificazione civile nel genere umano deve essere
considerato possibile, e anzi tale da promuovere questo scopo naturale”.
Ciò significa che i filosofi non possono pianificare la storia e creare un
ordine giusto, il quale è invece il prodotto della natura stessa; tuttavia,
essi possono chiarire e, dunque, accelerare tale sviluppo e proprio in ciò
risiede il compito dell’Aufklärung. Passiamo ora a Per la pace
perpetua: si tratta di un libro che, a tutta prima, può risultare strano
per via della sua articolazione inconsueta. Infatti, vi troviamo una prima
sezione contenente sei articoli, poi una seconda contenente gli articoli
definitivi, dopo di che un primo ampliamento e, dopo, un secondo ampliamento.
Questa strana struttura si spiega se teniamo conto che Kant, nello scrivere
questo testo, ha ironicamente assunto come paradigma letterario i trattati di
pace stesi dai diplomatici del suo tempo: in particolare, egli si rifà al testo
del trattato di pace siglato a Basilea nel 1795 e traveste il suo saggio nelle
forme di un trattato avente le sue precondizioni, le sue parti centrali e le
“clausole segrete” (così si spiega il curioso titolo del secondo supplemento: Articolo
segreto per la pace perpetua). Abbiamo in precedenza definito il primo dei
tre articoli definitivi dell’opera, quello secondo cui ogni costituzione civile
dev’essere una repubblica. Il secondo introduce l’elemento esterno, in quanto
guarda al rapporto intercorrente tra gli Stati, ossia al diritto internazionale,
che deve risolversi in una “confederazione di liberi Stati” (liberi nel
senso di sovrani, cioè privi di un potere superiore) tale da poter dirimere le
controversie tra Stati senza far ricorso alla guerra. Kant è pienamente
consapevole del rischio che si possa voler risolvere il problema dei rapporti
tra Stati creando uno Stato “planetario” (del resto già Dante pensava ad una
“monarchia universale”): ma ciò comporterebbe – egli rileva – un dispotismo
tale da costringere gli altri Stati attraverso princìpi troppo rigidi.
Tuttavia, egli riconosce anche che, se tale Stato planetario fosse attuabile in
modo non dispotico, non sarebbe una cattiva cosa: ma poiché ciò è difficilmente
attuabile, ci dobbiamo accontentare di un “surrogato negativo” dello
Stato planetario, ossia dobbiamo puntare ad una confederazione che ripudi la
guerra e faccia regnare la pace. Il terzo e ultimo articolo riguarda il “diritto
cosmopolitico”, col quale Kant pare legittimare un diritto di accoglienza
e, dunque, porre le basi per una società multiculturale. In realtà, per Kant
tale diritto dev’essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale,
la quale non è una forma di filantropia, ma è piuttosto il diritto di uno
straniero a non essere trattato “in modo ostile quando arriva sul suolo di
un altro Stato”. Egli non si propone qui di tratteggiare una società
multiculturale in cui trovino posto gli stranieri di ogni dove, ma sta
piuttosto criticando quelle politiche coloniali dell’Occidente che si
imponevano occupando altri territori e violando tale diritto di ospitalità (lo
mutavano anzi in diritto di occupazione). Si tratta – precisa Kant – di un “diritto
di visita”: tutti hanno diritto ad occupare una porzione di superficie
terrestre senza essere cacciati. Passando alla prima sezione dell’opera, vi
troviamo quegli “articoli preliminari” che enunciano ciò che gli Stati debbono
o non debbono fare se si vuole ottenere la pace: ad esempio, nei trattati di
pace non ci devono essere clausole che prevedano ulteriori occasioni di guerra,
lo Stato non può considerarsi proprietà patrimoniale del sovrano, gli eserciti
devono gradualmente sparire del tutto, non si devono contrarre debiti di guerra
tra Stati, nessuno Stato deve intromettersi con la forza nel governo degli
altri. Kant prevede inoltre uno ius in bello tale per cui nessuno Stato
deve permettersi, in guerra, di usare sicari, avvelenatori e frodi di altro
genere: l’idea di fondo è che anche in guerra si debbano rispettare norme ed
evitare “stratagemmi infami”, poiché deve sussistere un minimo di
fiducia anche negli Stati, altrimenti mai si arriverà a siglare una pace e le
guerre termineranno soltanto col la distruzione totale del nemico. Il “primo
supplemento” dell’opera si occupa delle garanzie della pace perpetua e, a tal
proposito, Kant recupera le sue riflessioni di filosofia della storia emerse
nell’ Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico: a
garantire la pace è il “piano della natura” e anche una repubblica “di
diavoli”, se razionale, riuscirebbe a dare una soluzione conveniente al
problema della convivenza.