La coppia
forza/frode, presente soprattutto a partire dalla letteratura latina in avanti,
ritorna con insistenza nelle riflessioni e negli scritti di Machiavelli e di
Vico: è specialmente il “realismo politico” a far sua tale coppia,
mentre la “filosofia politica” dichiara a gran voce la propria alterità
rispetto ad essa e al realismo politico stesso, fin dai tempi degli antichi
Greci. Il primo grande esempio di realismo politico è forse quello offertoci da
Tucidide, il quale, in qualità di primo storico in senso secolarizzato e
scientifico, epura gli accadimenti storici dai residui mitici (a differenza di
Erodoto, che troppo concede alla cultura orale e mitologica, facendo
intervenire nelle sue Storie perfino gli dei, coi loro capricci e coi
loro poteri imperscrutabili alla mente umana). Egli è uno “storico del potere”
che ricostruisce con perizia la Guerra del Peloponneso, ossia la tremenda
guerra sistemica che coinvolse l’intera costellazione delle
poleiV greche e delle colonie: nel ricostruirla,
egli non esita a citare fattori che strutturano gli eventi (la anagkh, la tuch, ecc) e che lasciano trasparire la pessimistica convinzione
secondo cui la necessità e il caso signoreggiano nelle vicende degli uomini, i
quali, di fronte ad essi, tentano di opporsi con i loro “fattori umani”
(ta
anqrwpika), ossia con
l’intelligenza, la strategia, la passione (tutte componenti rientranti nella
definizione romana di virtus). Nell’ottica di Tucidide, l’amore (erwV) e la fede (pistiV) non sono che motori dell’agire umano che
si scontrano con la paura (foboV), con l’utile (ofelia) e con l’onore (timh). Questa concezione realistica e pessimistica della storia e
della politica connota lo sfondo del dibattito politico della Grecia classica
dei tempi dei Sofisti, di Platone e di Aristotele. La filosofia politica si
confronta con la diagnosi altamente pessimistica del realismo e ne tiene conto
nel maturare le sue riflessioni: ciò che però la distingue è il non rassegnarsi
ad accettare né la datità del realismo politico né la presenza del caso nella
storia; quest’ultima, così come ci è presentata dal realismo, non è che
un’inutile fatica di Sisifo, una pietra che perennemente ricade senza scopo e
senza senso. Proprio in forza di ciò, la filosofia politica tenta di opporsi al
realismo e lo fa in un modo alquanto vicino all’Aufhebung hegeliano,
tentando una sorta di superamento di una posizione che è sì necessaria, ma non
completa. Sicuramente la filosofia politica non ha la pretesa – tipica invece
dell’utopia – di pensare ad una società ove tutto è perfettamente regolato
dall’uomo: eppure, pur non compiendo l’ardito passo dell’utopismo, essa accetta
le cose come sono ma, al contempo, ritiene che la ragione possa dare un corso
più ordinato alla storia, in modo tale da costruire una città che, pur non
potendo essere perfetta, sia per lo meno migliore. Dire che il realismo muove
dall’accettazione della realtà così come è non significa riconoscere che i
realisti siano uomini oziosi e avversi all’azione: tanto Tucidide quanto
Machiavelli, che del realismo sono i massimi corifei, furono uomini
attivissimi, il primo combattendo in prima linea nella Guerra del Peloponneso,
il secondo agendo nella politica dei Medici a Firenze. Si può pertanto asserire
che i realisti sono persone disilluse, che si basano sulla pratica più che sui
libri, di contro al modo classico di agire dei filosofi. Tra questi ultimi è
sicuramente un’eccezione il caso di Platone, il quale, col suo viaggio in
Sicilia e con la sua (forse leggendaria) fine in mano ai pirati, testimonia una
volontà di agire nella politica e nel mondo sconosciuta agli altri grandi
filosofi. Ciò non di meno, pur riconoscendo nel reale un punto di partenza per
la loro indagine, i filosofi politici hanno in sé un’irresistibile volontà di
spingersi al di là di esso, ovvero al di là della mera registrazione
cronachistica degli accadimenti: così Platone si confronta, in tema di
politica, tanto coi Sofisti (nella Repubblica) quanto con Alcibiade
(nell’Alcibiade maggiore); ad Alcibiade che vorrebbe far carriera
politica, Socrate chiede che cosa realmente egli si proponga e, analizzando una
ad una le sue risposte, lo smonta un po’ alla volta, arrivando addirittura a
mettere in luce come Alcibiade voglia soltanto conquistare il potere e
gestirlo. Socrate gli spiega che occorre conoscere che cosa è (ti estin) il giusto e che cosa l’ingiusto, che
cosa il bene e che cosa il male. Nel Novecento, lo scrittore Jouvenel ha
composto un dialogo (lo Pseudo-Alcibiade) in cui si diverte a mettere in
difficoltà Socrate di fronte ad un Alcibiade abilissimo nel rispondergli a
tono: questi, quando Socrate gli propone la nota metafora del politico come
tessitore di fili, gli fa acutamente notare che i fili in questione sono esseri
umani, ossia fili che si contorcono come serpi, cosicché ci vogliono la forza e
la frode per tenerli a freno. Da ciò affiora bene come il realismo politico sia
il luogo in cui meglio si presenta la congiunzione forza/frode e come la
politica sia il regno non già del logoV, bensì del kratoV. È
sicuramente più che un semplice caso il fatto che il primo fondatore di una
città sia Caino, ossia colui che uccise in maniera fraudolenta il proprio
fratello; in maniera analoga, Romolo si sbarazzò del fratello e fondò Roma.
Riconoscendo il ruolo della violenza, il realismo non si limita a descriverla:
esso non è dunque mera diagnosi, si propone anzi di fornire anche indicazioni
prasseologiche e, in particolare, introduce come criterio il successo
dell’azione. Sotto questo profilo, la violenza diventa allora accettabile come
il “male minore”, se teniamo presente che il rischio era l’anarchia. Il postulato
da cui muove il realismo è infatti quello secondo cui l’ordine, qualunque esso
sia, è, in ogni caso, preferibile al disordine, il quale rende impossibile la
vita. Sicché, per evitare che trionfi l’anarchia, anche l’uso della violenza è
consentito. Proprio in riferimento al succitato episodio di Romolo,
Machiavelli, nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio (libro I,
cap.9), scrive che “conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo
scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché
colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe
riprendere”. L’omicidio del fratello – fatto di per sé riprovevole – è
giustificato dall’ “effetto” di cui è stato causa, ovvero la fondazione
di Roma; tale effetto “quando sia buono come quello di Romolo, sempre lo
scuserà”. Da ciò emerge come all’origine dell’ordine vi sia sempre la
violenza, e ciò vale anche per la nascita delle costituzioni democratiche. Si
può quindi affermare che, dall’intreccio della violenza e della frode, nasca un
ordine che, a posteriori, giustifica quell’intreccio stesso.
Un’eccellente sintesi del realismo politico è quella prospettata da Kant nel
suo scritto Per la pace perpetua, ove il filosofo tedesco sostiene che
tre sono i suoi capisaldi: 1) fac et excusa; 2) si fecisti, nega;
3) divide et impera. La prima massima è quella che prescrive di agire e,
successivamente, di scusarsi per il modo in cui abbiamo agito, in maniera tale
che – come nel caso di Romolo – l’effetto scusi l’azione malvagia. La seconda
massima è quella della simulazione e della menzogna. Infine, la terza è quella
secondo cui si debbono creare divisioni tra i nemici in maniera tale da potersi
inserire tra essi e comandare. Tra le tre, è sulla seconda massima (così
recitante: si fecisti, nega) che dobbiamo soffermare maggiormente la
nostra attenzione, giacchè in essa è racchiuso il significato dell’agire
simulato, fraudolento e segreto; proprio la secretazione è una tipica prassi
volta a tener distante dagli occhi ciò che di più scomodo fa la politica. La
menzogna stessa è un ingrediente basilare della frode; e inerente alla politica
della dissimulazione è l’individuazione del “capro espiatorio”: così, quando
certe azioni non sono negabili, debbono essere attribuite ad un altro e, nel
caso esso non ci fosse, ad un terzo più debole, come fa l’antisemitismo con gli
ebrei. Un passo canonico per chiarire la problematica che stiamo affrontando è
quello che Machiavelli ci propone ne Il principe (cap.18), dove, pur non
menzionando espressamente la frode, parla di “astuzia” e ricorre alla
simbologia plutarchea (ma già ciceroniana) del leone come emblema della forza e
della volpe come emblema dell’astuzia.
“Dovete adunque sapere
come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la
forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché
el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno
principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è
suta insegnata a' principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali
scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a
nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che
non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non
che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza
l'altra non è durabile. Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene
usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione
non si defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque,
essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi. Coloro che
stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno
signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni
contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini
fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi,
e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a
uno principe mancorno cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo
se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante paci, quante
promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de' principi: e
quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario
questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore:
e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti,
che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare”.
Il principe
divenne subito celebre e destò scandali
perché è un’opera che si inserisce nella tradizione pubblicistica degli specula
principis, in cui si enunciavano le virtù proprie di un principe, nella
fattispecie di un principe cristiano. Ora, col suo scritto Machiavelli impiega
tale genere letterario rovesciandone gli assunti in senso anticristiano: se si
vuole essere principi in modo duraturo e stabile – egli rileva -, occorre
scordarsi dei precetti cristiani (quali la massima “porgi l’altra guancia”),
che sono un viatico per la sconfitta; il principe deve sembrar morale, ma,
insieme, deve far ricorso alla frode e alla forza, giacchè hanno successo
quelli che “della fede hanno fatto poco conto” e hanno abbindolato gli
altri. Due sono i modi di combattere che egli deve impiegare: le leggi (proprie
dell’uomo) o la forza (tipica delle bestie); e poiché spesso le prime non
bastano, bisogna far ricorso alle seconde. Sicchè il buon principe deve saper
essere uomo e bestia: ciò è del resto dimostrato, secondo Machiavelli, dal
fatto che, nella tradizione mitica, Achille sia fatto allevare dal centauro
Chirone, un essere anfibio tra l’umano e il ferino. Se si ricorre ad una sola
delle due componenti (le leggi o la forza), allora si può riscuotere un
successo esclusivamente transitorio e mai fisso. Tuttavia occorre precisare
che, per Machiavelli, l’elemento ferino non si risolve soltanto nella forza
bruta: esso è anche astuzia. Sicchè la bestia in questione è, insieme, leone
(forza) e volpe (astuzia); è cioè tale da saper, da un lato, scovare le
trappole che gli vengono tese e per tenderne a propria volta e, dall’altro,
vincere gli attacchi inferti dai nemici. La filosofia politica classica non si
trova d’accordo con la formulazione data da Machiavelli: è vero – essa
argomenta – che le cose nel mondo vanno come le descrive Machiavelli (vincono
cioè quelli che sono leoni e volpi), però bisogna in ogni caso far uso delle
leggi più di ogni altra cosa. Emblematica è, a tal proposito, la posizione
sostenuta da Platone nelle Leggi (875 A e seguenti):
“È necessario che gli uomini si diano delle leggi e
vivano in conformità con esse, perché altrimenti non differirebbero affatto
dalle bestie più feroci, dato che la natura umana di per sé non è in grado di
riconoscere ciò che le serve per vivere in società, e pur ammesso che lo
conoscesse non sarebbe poi – o forse non vorrebbe – agire per il meglio”.
Senza leggi –
dice Platone – siamo come le bestie più feroci: anch’egli, come Machiavelli,
non nega la ferinità della natura umana, la quale di per sé non sa riconoscere
che cosa le serva per vivere in società; è questa, in nuce, la tesi di
Hobbes dell’homo homini lupus. Proprio Hobbes rileva come la ragione ci
permetta di cogliere soltanto ciò che ci è utile nell’immediato e a danno di
altri; e, ancorché conoscessero ciò che a loro serve per vivere in società, ciò
non di meno agli uomini mancherebbero – nota Platone – le qualità morali e
tecniche: ed è per questo motivo che ci vogliono le leggi. La filosofia
politica, pertanto, si propone di fondare un ordine artificiale (istituito
attraverso le leggi) entro cui il ferino sia neutralizzato e domato, cosicché
non sia più possibile regredire alla ferinità. Sull’altro versante, il realismo
politico e Machiavelli ritengono illusorio che si possa vincere il ferino
grazie alle leggi: il motto che essi sembrano proporci è “quando puoi, usa le
leggi; quando non puoi, fatti volpe e leone”. Pur nella comunanza di interessi
(entrambe mirano all’ordine), la filosofia politica e il realismo si trovano in
disaccordo su parecchi punti, in primis per il fatto che la filosofia
politica si propone di istituire un ordine giusto e razionale. Del resto, se
l’ordine è l’obiettivo comune che essi si pongono, assai diversa è la nozione
di ordine a cui fanno poi riferimento: semplificando le cose, si potrebbe dire
che al realismo interessi l’ordine effettuale, alla filosofia politica quello
giusto. Ciò solleva subito seri problemi di definizione: cadremmo infatti in
errore se pensassimo che ai realisti interessi soltanto descrivere gli
accadimenti politici, mentre ai filosofi politici stia a cuore un procedimento
prescrittivo assiologico ben ancorato a valori immutabili. Potrà forse sembrare
strano, ma anche per i realisti esistono valori di riferimento e preferenze;
vero è che essi sono meno radicali rispetto ai filosofi e fanno valere come
principale criterio nella loro scelta l’effettualità dell’ordine, ovvero la sua
reale stabilità. Con ciò intendiamo dire che l’ordine cui essi fanno
riferimento non è il puro ordine pensato, bensì è quello concretamente attuato:
in tale prospettiva, il bersaglio della critica realista non può che essere
l’utopismo alla Platone, quell’utopismo che, anziché parlare delle città quali
realmente sono, si abbandona alla descrizione di quelle che stanno
en toiV ouranoiV, totalmente sganciata dal reale.
Significativamente, Machiavelli si oppone a Platone quando asserisce di volersi
occupare non degli Stati quali dovrebbero essere, ma degli Stati quali
realmente sono, senza mai perdere di vista quella che, con un’efficace
espressione, egli chiama “verità effettuale”. Sicchè il primo valore dei
realisti è la stabilità: da ciò segue che il realismo non è esclusivamente
descrittivo, né, dove è prescrittivo, è sempre conservatore (benché, nella
maggior parte dei casi, effettivamente lo sia); basti pensare, ancora una
volta, a Machiavelli, il quale era insieme realista e innovatore politico, il
quale vedeva nella repubblica romana e nel suo saper istituzionalizzare i
conflitti di classe un perfetto equilibrio di libertà e ordine. Ed è proprio
alla sintesi di ordine e libertà che si deve aspirare, evitando oculatamente le
“repubbliche tumultuarie”, dove a regnare è il disordine. Così, nella
Roma repubblicana, il conflitto rafforzava le istituzioni e veniva scaricato
all’esterno attraverso una politica fortemente espansionistica. Anche per i
filosofi politici l’ordine e la stabilità sono valori di riferimento
imprescindibili: e del resto, se guardiamo alla storia del pensiero, forse mai
alcun filosofo ha realmente amato il disordine e l’anarchia, nemmeno i filosofi
sedicenti anarchici. L’unica eccezione (e, se non l’unica, sicuramente una
delle poche) è probabilmente quella di Paul Feyerabend e del suo “anarchismo
epistemologico”. Perfino Marx non è per un’anarchia disordinata: la rivoluzione
come egli la concepisce è una transizione dal “regno della necessità” al “regno
della libertà”, quasi una sorta di realizzazione in senso pieno dell’umanesimo.
Questo generale rifiuto del disordine non può stupirci, soprattutto se teniamo
a mente che il grimaldello del filosofo è, da sempre, la ragione, la quale è
tendenzialmente un’istanza autoritaria che si sente legittimata a disciplinare
le passioni e gli altri impeti disordinati: la metafora della biga alata,
proposta nel Fedro platonico, è in tal caso la più espressiva. Ciò
significa che la filosofia è per un ordine razionale che può anche essere in
fieri, ossia un ordine teleologico non necessariamente statico; anzi, si
può dire che raramente essa abbia ricercato un ordine fisso e immutabile: ci ha
provato Platone, immaginando una città con demografia stabile e mai in
crescita, ma non ha certo avuto grande seguito negli sviluppi del pensiero
occidentale. Già Aristotele, pochi decenni dopo, ha una visione altamente
dinamica e aperta dell’ordine. Sembra che, stando a quel che abbiamo finora
detto, tra filosofi e realisti le differenze siano esigue e poco rilevanti:
eppure per i filosofi politici l’ordine è condizione necessaria ma non
sufficiente; a loro avviso, infatti, per poter essere stabile, tale ordine deve
essere giusto. Non a caso, una delle grandi accuse che essi da sempre muovono
ai realisti è di essersi fermati alla datità dei fatti, senza spingersi al di
là di essa. Gli uomini, infatti, non sono in grado di produrre l’ordine e
quello “effettuale” ricercato dai realisti è meramente fittizio perché non
giusto. Perché l’ordine sia realmente tale – dicono i filosofi -, esso deve
essere giusto, giacché altrimenti neanche di ordine si tratta. Esaminiamo, in
tale prospettiva, alcuni passi di filosofi in cui ben emerge il rapporto tra la
forza e la giustizia. Nel primo libro della Repubblica platonica, fa
irruzione in scena il sofista Trasimaco; l’ingresso di questo Machiavelli ante
litteram è significativamente paragonato a quello di una fiera che stava in
agguato, pronta a carpire la preda. Platone è perfettamente consapevole che
della giustizia non v’è un’unica concezione (siamo dinanzi, per dirla con
Weber, ad un “politeismo di valori”) e, pertanto, ne propone circa
quattro. Trasimaco, con la foga di una fiera, sbotta che si fa un gran parlare
di giustizia ma poi non ci si accorge che essa non è se non “l’utile del più
forte” [338 C], in greco “dikaion sumferon tw creistw”. In quest’accezione fortemente sofistica, è giusto ciò
che è utile ai più forti. Contro tale prospettiva, Socrate muove molte
argomentazioni, tra le quali quella secondo cui giusto è il comportamento di
chi governa facendo l’utile non già dei più forti, bensì dei subordinati, ossia
dando la precedenza all’universale e non al particolare. Egli dispiega inoltre
un argomento pragmatistico, dicendo [351 C] che, se il giusto è l’utile del più
forte, allora quell’utile implica prevaricazione e dunque diventa difficile
distinguerlo dall’ingiusto. E la prevaricazione si accompagna all’odio e alle
divisioni, il che non fa che indebolire la città e, nel far ciò, azzera la
felicità complessiva di chi la abita. Per suffragare quanto detto, Socrate
ricorre ad un esempio davvero calzante: una banda di briganti che vuol compiere
una rapina può riuscirvi se i vari componenti si prevaricano a vicenda? Perfino
i briganti – conclude Socrate – devono imporsi delle regole e rispettarle, se
vogliono ottenere qualche successo. La debolezza di tale argomento risiede nel
fatto che con esso Socrate smonta sì Trasimaco, ma senza dimostrare l’esistenza
di una giustizia universale; dimostra piuttosto l’esistenza di una giustizia
particolare e localistica, che vale all’interno di una banda di briganti in
accordo fra loro: essi, infatti, rispetteranno sì le regole che si sono dati e
non si prevaricheranno gli uni con gli altri, ma contro chi è esterno alla loro
banda commetteranno ogni sorta di nefandezza e di ingiustizia. Da tutto ciò
Platone inferisce la conclusione secondo cui i giusti sanno agire, gli ingiusti
no: ma egli tralascia di considerare il fenomeno della doppiezza umana in fatto
di giustizia, quella doppiezza che è emersa benissimo nel processo a Eichmann.
Questi conduceva una vita privata esemplare, era un ottimo padre di famiglia e
un assiduo lettore di Kant; ma nella vita pubblica era privo di umanità,
organizzava il trasporto ferroviario degli ebrei nei campi di sterminio senza
neppure interrogarsi su quanto stesse facendo. Molti secoli dopo Platone, Agostino
scrive il De civitate Dei, nel quale prende in esame anche questioni
politiche:
Se non è
rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di
ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli
Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo,
è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della
convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l'aggiungersi di uomini perversi
tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette
popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella
realtà dei fatti non dalla diminuzione dell'ambizione di possedere ma da una
maggiore sicurezza nell'impunità. Con finezza e verità a un tempo rispose in
questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che
idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca
spavalderia: “la stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono
considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un
condottiero perché lo fai con una grande flotta”(IV)
Riprendendo
l’esempio platonico dei briganti, Agostino sostiene che le loro bande sono dei
piccoli regni, in quanto manipoli di uomini comandati da un capo in forza di un
patto implicante la spartizione del bottino secondo una legge accettata da
tutti i membri. Agostino si spinge addirittura ad affermare che i regni nascono
dall’ingrandirsi delle bande di briganti: questi grandi brigantaggi che sono i
regni godono di impunità, poiché non v’è nessuno al di sopra che possa punirli,
cosa che naturalmente non accade nel caso delle piccole bande, che, se
acciuffate, incorrono in sanzioni durissime. In questa maniera, Agostino si
rivela un grande realista. Un passo coerente con questi è di Pascal, il quale
scrive (Pensieri, n° 298):
“È giusto che
ciò che è giusto sia seguito, ed è necessario che ciò che ha più forza sia
seguito. La giustizia, senza la forza, è impotente; la forza, senza la
giustizia, è tirannica. La giustizia senza forza è conculcata, perché cattivi
ce n’è sempre; la forza senza la giustizia è riprovata. Bisognerebbe, dunque,
riunire giustizia e forza, e far che ciò che è giusto fosse anche forte; oppure
che ciò che è forte fosse anche giusto. La giustizia è soggetta a
contestazioni, e senza tante dispute; perciò non si è potuto dare la forza alla
giustizia, ché la forza s’è contrapposta alla giustizia, dicendo che essa sola
era giusta. E così, non essendosi potuto fare che ciò che è giusto fosse forte,
si è fatto in modo che ciò che è forte fosse giusto”.
Dal pensiero di
Pascal, si evince come, se la giustizia è controversa e plurale, dal canto suo
la forza è unica e, per ciò, si leva alla pretesa di essere essa stessa l’unica
giustizia; si è pertanto fatto in modo che il forte fosse giusto, non potendosi
fare il contrario. Siamo ancora una volta di fronte alla legittimazione,
propria del realismo, dell’effettuale, in maniera assai vicina a Machiavelli:
si fa giusto ciò che, in origine, era un’usurpazione.