L'AGIRE COMUNICATIVO



Dalla lettura del primo libro della Repubblica platonica abbiamo visto affiorare quella tensione tra realismo politico e filosofia politica, tra effettività del potere e giustizia, che caratterizza il pensiero occidentale: ciò era valido già presso gli antichi Greci, come risulta appunto dalla Repubblica platonica e anche dalle Leggi, opera in cui la tensione è espressa dal dialogo tra l’Ateniese da una parte (che concepisce la poliV come comunità organizzata in vista della pace) e lo Spartano e il Cretese dall’altra (i quali concepiscono invece la poliV come finalizzata alla guerra). Del resto, nella cultura greca è presente una netta distinzione tra il termine poliV, con tutti i suoi derivati (politeia, polithV, ecc), e il termine strathgia: il primo è riferito alla convivenza pacifica, il secondo è invece impiegato per designare l’ambito della guerra e della politica estera. Da Platone e dal mondo greco saltiamo ora a Jürgen Habermas e al mondo novecentesco: egli pubblica, negli anni ’90, la celebre Teoria dell’agire comunicativo, in cui muove dai sociologi che l’hanno preceduto (Weber e Durkheim in primis) per poi pervenire a quelli contemporanei. In quest’opera, troviamo una tipologia delle forme di azione che ci aiuta a capire meglio la questione che stiamo affrontando: tradizionalmente, la sociologia si è sempre occupata, nei suoi studi, o dell’individuo o della totalità; emblematici di ciò sono stati Weber (che come punto di partenza per la sua indagine assume appunto il singolo individuo) e Luhmann (che invece parte dal sistema sociale nel suo complesso). Sintetizzando questa tradizione che ha alle spalle, Habermas addiviene a una tipologia significativa dell’agire, individuando ben quattro tipi di agire:

1] agire strategico

2] agire regolato da norme

3] agire drammaturgico

4] agire comunicativo

Questa partizione riprende, in certa misura (in molti punti mutandola), quella compiuta a suo tempo da Weber in Economia e società, opera in cui individuava anch’egli quattro tipologie dell’agire (agire razionale rispetto allo scopo, agire razionale rispetto al valore, agire affettivo, agire tradizionale). L’agire strategico (detto anche “teleologico” o “strumentale”) di cui parla Habermas è, per molti aspetti, una riproposizione dell’“agire razionale rispetto allo scopo” di Weber; alla base di esso v’è il presupposto secondo cui noi agiamo in vista di scopi ben determinati (perciò è anche detto “agire teleologico”), adottando una certa strategia. Ciò significa che a dirigere tale agire sono il calcolo dell’utile e dello scopo finale, un calcolo che è però chiamato a tener conto del fatto che il soggetto agente non è solo e sotto una campana di vetro, ma si trova invece ad agire in presenza di altri individui che agiscono come lui con razionalità strumentale e che dunque, perseguendo scopi simili o addirittura uguali, possono entrare in conflitto con lui. Significativamente Habermas dice che si ha agire strategico “se prendiamo le mosse da almeno due soggetti agenti, agenti in modo finalizzato, che realizzano i loro scopi mediante l’orientamento e l’influenza sulle decisioni di altri attori”. Secondo questa definizione, Robinson Crusue che, da solo sull’isola, agisce razionalmente rispetto allo scopo, non sta agendo strategicamente, giacché è il solo attore; si potrà dire che egli intraprende un agire strategico solo quando incontra Venerdì (e dunque gli attori sono due), anche se il rapporto di interazione tra i due si risolve rapidamente in quella che, per dirla con Hegel, potremmo definire come una “dialettica servo/signore”. Parlando di agire strategico, orbitiamo attorno al campo della forza e della frode: infatti, i soggetti che agiscono strategicamente non mirano che a determinati fini, per realizzare i quali non si curano affatto degli strumenti e, dunque, non esitano a ricorrere perfino alla frode e all’inganno nei loro rapporti con gli altri attori. Mai come nel caso dell’agire strategico è vero l’adagio attribuito a Machiavelli (ma che di fatto non compare nei suoi testi) secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Alfiere di una posizione che per Habermas rientra nell’agire strategico è il Trasimaco del libro I della Repubblica: egli proclama a gran voce che “la giustizia non è che l’utile del più forte”; viceversa, Socrate, con la sua teoria della giustizia, sta esplorando altre forme dell’agire. Il concetto che ricomprende tutti i possibili significati dell’agire strategico è il concetto latino di prudentia: essa non è che un muovere dalla considerazione degli uomini e dei loro costumi per ricavarne degli “imperativi ipotetici” che tengano conto principalmente di tre fattori: 1) della scarsità (gli uomini si trovano infatti a competere per dei beni sempre scarseggianti e mai sufficienti per tutti); 2) del conflitto (infatti là dove v’è scarsità ed essa tocca diritti e aspettative considerati legittimi, nasce un conflitto tra gli uomini); 3) dell’ignoranza (infatti la condizione umana è sempre legata al non sapere molte cose, alla mancanza di informazioni e, soprattutto, ad una diffusa stupidità).  Se le norme dell’agire strategico sono – per dirla con Kant – “imperativi ipotetici” (se vuoi ottenere il potere, allora devi ricorrere alla forza e alla frode), nell’agire regolato da norme le norme in questione possono essere accostate all’“imperativo categorico” kantiano. Infatti, si riconosce sì l’esistenza di una dimensione in cui vige la frode, ma si ritiene anche che, accanto ad essa, ve ne sia un’altra, coincidente con il mondo dell’agire morale e del dovere. Così – rileva Habermas – l’agire strategico fa riferimento ad un solo mondo, ossia a quello degli stati di fatto e degli eventi, al wittgensteiniano mondo del “tutto ciò che accade”; al contrario, nell’agire regolato da norme, l’immaginario dell’attore si è sdoppiato e, oltre al mondo reale configuratesi come un coacervo di fatti, riesce a vederne un altro, il mondo dei fini e dei valori. Scrive Habermas: “il concetto di agire regolato da norme presuppone relazioni tra un attore e due mondi: al mondo oggettivo degli stati di fatto esistenti, si aggiunge il mondo sociale […] dell’agire regolato da norme”. Ciò diventa storicamente vero a partire da Hume e, soprattutto, da Kant, per restare poi quasi un dogma fino ai Neokantiani: l’essere (Sein) e il dover essere (Sollen), a partire dalla Critica della ragion pratica, costituiscono due mondi diversi e antitetici. In sede giuridica, Hans Kelsen è il massimo esponente di questa concezione divisionista: egli, sostenitore del positivismo giuridico, distingue nettamente tra gli stati di fatto (l’essere) e le relazioni normative (il dover essere), con le quali ha a che fare il diritto. È opportuno domandarsi dove e come nasca tale dicotomia tra il mondo degli stati di fatto e quello dei valori: siffatta divisione era, agli occhi di Aristotele, un feticcio, giacché in realtà il dover essere è inglobato nell’essere stesso, cosicché l’assiologia fa parte dell’ontologia e il secondo mondo rientra nel primo. I moderni, dal canto loro, rompono con questa tradizione, nella misura in cui cessano di pensare aristotelicamente che l’essere sia il bene; caduta l’identità di essere e bene, l’inevitabile conseguenza è che il bene dev’essere, per così dire, “inventato”, ovvero introdotto dall’uomo migliorando il reale quale ci si presenta. Scrive ancora Habermas: “come il senso del mondo oggettivo può essere spiegato in riferimento all’esistenza di stati di fatto, così il mondo sociale può essere spiegato in riferimento all’esistenza di norme”. Il terzo tipo di agire individuato dal filosofo tedesco è l’agire drammaturgico: considerando l’agire dei soggetti, il paradigma più scontato è senz’altro quello dell’agire strategico, poiché, di fronte all’azione di un soggetto, la prima cosa che tutti ci domandiamo è “perché lo fa?”; anche il paradigma dell’agire regolato da norme è alquanto scontato, tant’è che, se ci rechiamo in un Paese straniero, e vediamo un individuo compiere un’azione per noi incomprensibile, subito ci domandiamo “quale norma starà rispettando?”. Meno ovvio e scontato è il caso dell’agire drammaturgico: stando a questa terza forma, gli individui agiscono ai fini di un’autorealizzazione simbolica, quasi come se si mettessero in scena e recitassero con grande enfasi. Tale tipo di agire è così connotato da Habermas: “dal punto di vista dell’agire drammaturgico, intendiamo un’interazione sociale come un incontro nel quale i partecipanti costituiscono gli uni per gli altri un pubblico visibile e si rappresentano reciprocamente qualcosa”. È particolarmente importante la nozione di pubblico, che pure era in certa misura presente sia nell’agire strategico sia in quello regolato da norme. Nel caso dell’agire drammaturgico, il pubblico acquisisce la fondamentale valenza di essere costitutivo di quell’agire stesso, che si svolge fine a se stesso (si può parlare, in questa prospettiva, di “agire per l’agire”); si tratta, evidentemente, di un agire espressivo in cui rientra l’arte stessa. È la forma di agire in cui meglio sono racchiuse e custodite le componenti sentimentali dell’azione umana (le passioni, le volizioni, le pulsioni, ecc). Infine, il quarto tipo di agire – quello su cui Habermas costruisce la propria opera – è l’agire comunicativo, prevalentemente rivolto all’intesa: si tratta di un agire in cui entra in gioco la dimensione linguistica, rientrante tra le caratteristiche che distinguono l’uomo dalle bestie. Quando Aristotele definiva, nella Politica, l’uomo come zwon logon ecwn, col termine logoV intendeva tanto la “ragione” quanto il “linguaggio”, essendo l’uomo, per sua natura, tanto “animale razionale” quanto “animale parlante”. Sicuramente la sfera linguistica è di primaria importanza anche nell’ambito dell’agire strategico, in quanto è fondamentale per impartire ordini, per esercitare la forza e per perpetrare la frode in vista della realizzazione dei fini che ci si è prefissi. Tuttavia è solo nell’agire comunicativo che il linguaggio ha pretesa di verità ed è finalizzato all’intesa, al consenso e alla condivisione di punti di vista e di immagini del mondo; e proprio sulla base dell’agire comunicativo, Habermas fonda una teoria della democrazia incentrata sul dialogo. Come abbiamo detto prima, Trasimaco è espressione dell’agire strategico; sull’altro versante, Socrate si pone su un piano più complesso e articolato, tenendo conto che le relazioni umane sono anche basate sulle norme, sul sentire e sull’agire comunicativo: non è un caso che, dopo aver udito la teoria trasimachea del giusto come utile del più forte, egli domandi a Trasimaco come ci si debba atteggiare verso i deboli e le loro sensazioni, i loro sentimenti e le loro esigenze (trascurandoli? Reprimendoli?); o, ancora, egli, con il famoso esempio della banda di briganti, non sta forse facendo notare a Trasimaco che, per la realizzazione di fini (ancorché essi siano altamente negativi, come una rapina), ci vuole consenso e occorre accordarsi linguisticamente? Sulla base della partizione di Habermas dell’agire in quattro tipi, possiamo allora sostenere che, da un lato, l’agire strategico è direttamente connesso con la forza e con la frode e che, dall’altro lato, le altre tre forme di agire sono connesse con la giustizia.           

 

 


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