L'AGIRE COMUNICATIVO |
Dalla lettura del
primo libro della Repubblica platonica abbiamo visto affiorare quella
tensione tra realismo politico e filosofia politica, tra effettività del potere
e giustizia, che caratterizza il pensiero occidentale: ciò era valido già
presso gli antichi Greci, come risulta appunto dalla Repubblica
platonica e anche dalle Leggi, opera in cui la tensione è espressa dal
dialogo tra l’Ateniese da una parte (che concepisce la
1] agire strategico
2] agire regolato da norme
3] agire drammaturgico
4] agire comunicativo
Questa partizione
riprende, in certa misura (in molti punti mutandola), quella compiuta a suo
tempo da Weber in Economia e società, opera in cui individuava anch’egli
quattro tipologie dell’agire (agire razionale rispetto allo scopo, agire
razionale rispetto al valore, agire affettivo, agire tradizionale). L’agire
strategico (detto anche “teleologico” o “strumentale”) di cui parla Habermas
è, per molti aspetti, una riproposizione dell’“agire razionale rispetto allo
scopo” di Weber; alla base di esso v’è il presupposto secondo cui noi agiamo in
vista di scopi ben determinati (perciò è anche detto “agire teleologico”),
adottando una certa strategia. Ciò significa che a dirigere tale agire sono il
calcolo dell’utile e dello scopo finale, un calcolo che è però chiamato a tener
conto del fatto che il soggetto agente non è solo e sotto una campana di vetro,
ma si trova invece ad agire in presenza di altri individui che agiscono come
lui con razionalità strumentale e che dunque, perseguendo scopi simili o
addirittura uguali, possono entrare in conflitto con lui. Significativamente
Habermas dice che si ha agire strategico “se prendiamo le mosse da almeno
due soggetti agenti, agenti in modo finalizzato, che realizzano i loro scopi
mediante l’orientamento e l’influenza sulle decisioni di altri attori”. Secondo
questa definizione, Robinson Crusue che, da solo sull’isola, agisce
razionalmente rispetto allo scopo, non sta agendo strategicamente, giacché è il
solo attore; si potrà dire che egli intraprende un agire strategico solo quando
incontra Venerdì (e dunque gli attori sono due), anche se il rapporto di
interazione tra i due si risolve rapidamente in quella che, per dirla con
Hegel, potremmo definire come una “dialettica servo/signore”. Parlando di agire
strategico, orbitiamo attorno al campo della forza e della frode: infatti, i
soggetti che agiscono strategicamente non mirano che a determinati fini, per
realizzare i quali non si curano affatto degli strumenti e, dunque, non esitano
a ricorrere perfino alla frode e all’inganno nei loro rapporti con gli altri
attori. Mai come nel caso dell’agire strategico è vero l’adagio attribuito a
Machiavelli (ma che di fatto non compare nei suoi testi) secondo cui “il fine
giustifica i mezzi”. Alfiere di una posizione che per Habermas rientra
nell’agire strategico è il Trasimaco del libro I della Repubblica: egli
proclama a gran voce che “la giustizia non è che l’utile del più forte”;
viceversa, Socrate, con la sua teoria della giustizia, sta esplorando altre
forme dell’agire. Il concetto che ricomprende tutti i possibili significati
dell’agire strategico è il concetto latino di prudentia: essa non è che
un muovere dalla considerazione degli uomini e dei loro costumi per ricavarne
degli “imperativi ipotetici” che tengano conto principalmente di tre fattori:
1) della scarsità (gli uomini si trovano infatti a competere per dei beni
sempre scarseggianti e mai sufficienti per tutti); 2) del conflitto (infatti là
dove v’è scarsità ed essa tocca diritti e aspettative considerati legittimi,
nasce un conflitto tra gli uomini); 3) dell’ignoranza (infatti la condizione
umana è sempre legata al non sapere molte cose, alla mancanza di informazioni
e, soprattutto, ad una diffusa stupidità). Se le norme dell’agire strategico
sono – per dirla con Kant – “imperativi ipotetici” (se vuoi ottenere il
potere, allora devi ricorrere alla forza e alla frode), nell’agire regolato
da norme le norme in questione possono essere accostate all’“imperativo
categorico” kantiano. Infatti, si riconosce sì l’esistenza di una
dimensione in cui vige la frode, ma si ritiene anche che, accanto ad essa, ve
ne sia un’altra, coincidente con il mondo dell’agire morale e del dovere. Così
– rileva Habermas – l’agire strategico fa riferimento ad un solo mondo, ossia a
quello degli stati di fatto e degli eventi, al wittgensteiniano mondo del “tutto
ciò che accade”; al contrario, nell’agire regolato da norme, l’immaginario
dell’attore si è sdoppiato e, oltre al mondo reale configuratesi come un
coacervo di fatti, riesce a vederne un altro, il mondo dei fini e dei valori.
Scrive Habermas: “il concetto di agire regolato da norme presuppone
relazioni tra un attore e due mondi: al mondo oggettivo degli stati di fatto
esistenti, si aggiunge il mondo sociale […] dell’agire regolato da norme”. Ciò
diventa storicamente vero a partire da Hume e, soprattutto, da Kant, per
restare poi quasi un dogma fino ai Neokantiani: l’essere (Sein) e il dover
essere (Sollen), a partire dalla Critica della ragion pratica,
costituiscono due mondi diversi e antitetici. In sede giuridica, Hans Kelsen è
il massimo esponente di questa concezione divisionista: egli, sostenitore del
positivismo giuridico, distingue nettamente tra gli stati di fatto (l’essere) e
le relazioni normative (il dover essere), con le quali ha a che fare il
diritto. È opportuno domandarsi dove e come nasca tale dicotomia tra il mondo
degli stati di fatto e quello dei valori: siffatta divisione era, agli occhi di
Aristotele, un feticcio, giacché in realtà il dover essere è inglobato
nell’essere stesso, cosicché l’assiologia fa parte dell’ontologia e il secondo
mondo rientra nel primo. I moderni, dal canto loro, rompono con questa
tradizione, nella misura in cui cessano di pensare aristotelicamente che
l’essere sia il bene; caduta l’identità di essere e bene, l’inevitabile
conseguenza è che il bene dev’essere, per così dire, “inventato”, ovvero
introdotto dall’uomo migliorando il reale quale ci si presenta. Scrive ancora
Habermas: “come il senso del mondo oggettivo può essere spiegato in
riferimento all’esistenza di stati di fatto, così il mondo sociale può essere
spiegato in riferimento all’esistenza di norme”. Il terzo tipo di agire
individuato dal filosofo tedesco è l’agire drammaturgico: considerando
l’agire dei soggetti, il paradigma più scontato è senz’altro quello dell’agire
strategico, poiché, di fronte all’azione di un soggetto, la prima cosa che
tutti ci domandiamo è “perché lo fa?”; anche il paradigma dell’agire regolato
da norme è alquanto scontato, tant’è che, se ci rechiamo in un Paese straniero,
e vediamo un individuo compiere un’azione per noi incomprensibile, subito ci
domandiamo “quale norma starà rispettando?”. Meno ovvio e scontato è il caso
dell’agire drammaturgico: stando a questa terza forma, gli individui agiscono
ai fini di un’autorealizzazione simbolica, quasi come se si mettessero in scena
e recitassero con grande enfasi. Tale tipo di agire è così connotato da
Habermas: “dal punto di vista dell’agire drammaturgico, intendiamo
un’interazione sociale come un incontro nel quale i partecipanti costituiscono
gli uni per gli altri un pubblico visibile e si rappresentano reciprocamente
qualcosa”. È particolarmente importante la nozione di pubblico, che pure
era in certa misura presente sia nell’agire strategico sia in quello regolato
da norme. Nel caso dell’agire drammaturgico, il pubblico acquisisce la
fondamentale valenza di essere costitutivo di quell’agire stesso, che si svolge
fine a se stesso (si può parlare, in questa prospettiva, di “agire per
l’agire”); si tratta, evidentemente, di un agire espressivo in cui rientra
l’arte stessa. È la forma di agire in cui meglio sono racchiuse e custodite le
componenti sentimentali dell’azione umana (le passioni, le volizioni, le
pulsioni, ecc). Infine, il quarto tipo di agire – quello su cui Habermas
costruisce la propria opera – è l’agire comunicativo, prevalentemente
rivolto all’intesa: si tratta di un agire in cui entra in gioco la dimensione
linguistica, rientrante tra le caratteristiche che distinguono l’uomo dalle
bestie. Quando Aristotele definiva, nella Politica, l’uomo come