Quel che ci
proponiamo ora di fare è di chiarire un fascio di concetti solitamente chiamati
in causa quando si parla di potere: quest’ultimo non si identifica
necessariamente ed esclusivamente con la forza e con la frode, che abbiamo
visto essere legate all’agire strategico. E dobbiamo fin da ora precisare che
il lessico adoperato dalla politica è piuttosto problematico, nel senso che la
accezioni dei concetti politici sono molteplici e, spesso, molto sfumate,
cosicché diventa piuttosto difficile capire che cosa sia la legittimità, che
cosa la forza, il potere, la violenza o, ancora, la frode. La stessa traduzione
di questi concetti da una lingua all’altra è come non mai problematica: così,
nella lingua tedesca Macht si rifà ad una radice che si richiama a quella
della potentia latina e significa tanto “potenza” quanto “potere”; ma in
tedesco anche Herrschaft significa “potere”, oltre che “signoria” (c’è
la presenza del termine Herr, “signore”) e “dominio”. I Tedeschi hanno
poi un terzo termine che designa il potere ed è Gewalt, che tuttavia, a
seconda dei casi, può anche significare “violenza”. Ciò che i Tedeschi
esprimono con questi tre distinti termini, gli Inglesi lo riassumono in
un’unica parola (power), il che ci aiuta a capire quanto sia difficile
muoversi tra i termini della filosofia politica. Tale difficoltà non è propria
soltanto dell’età moderna: valeva anzi già per il greco e per il latino. In
lingua greca, infatti,
bia è la
“violenza”, mentre tanto kratoV quanto arch designano il “potere”; nel mondo latino,
invece, troviamo la coppia dominium e imperium: il primo dei due
termini si riferisce propriamente al potere umano esercitato sulle cose (esso
designa allora, in primo luogo, la proprietà privata); il secondo, invece,
designa il potere esercitato dagli uomini su altri uomini. Un’altra
complicazione è data dal fatto che i Latini distinguono tra auctoritas
(designante un potere simbolico) e potestas (che si riferisce a un
potere giuridico); proprio sulla base di tale distinzione, in età medievale si
distinguerà tra la potestas dell’imperatore e l’auctoritas del
papa. I concetti politici, coi quali dobbiamo operare, rivelano dunque una
natura sfuggente e proteiforme, difficilmente governabile: ciò non toglie che
si possano, in qualche modo, effettuare con chiarezza e precisione alcune
distinzioni basilari; in particolare, è possibile capire come dal potere inteso
come semplice violenza si pervenga gradualmente a organizzazioni di potere
ritenute legittime. A tal proposito, v’è una grande dicotomia, riguardante il
potere politico, la quale attraversa l’intera storia del pensiero occidentale e
la cui prima formulazione può essere fatta risalire ad Aristotele e alla sua Politica:
la grande dicotomia, ossia la coppia di concetti reciprocamente esclusivi e
congiuntamente esaustivi, è quella oikoV (casa, famiglia) – poliV (città). In realtà – come pare mettere in luce lo stesso
Aristotele – non si tratta di una dicotomia in senso pieno, giacché – tra l’oikoV e la poliV- v’è un medium: il villaggio, costituito dall’unione di
più famiglie e, dunque, tale da formare il primo nucleo embrionale della poliV stessa. Un’altra grande dicotomia, messa
in luce soprattutto dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies, è quella comunità
(Gemeinschaft) – società (Gesellschaft): la comunità si regge
principalmente su legami affettivi e “caldi”, quali possono essere quelli tra
parenti o tra amici, mentre la società si fonda su legami “freddi” e utilitaristici,
basati sul calcolo dell’interesse. Dal canto suo, Thomas Hobbes presenta
un’altrettanto importante dicotomia tra stato di natura e società civile,
ipotizzando che il passaggio dalla prima, caratterizzata da una condizione di
guerra di tutti contro tutti, alla seconda, disciplinata dalle leggi e mirante
alla pace, avvenga attraverso la stipulazione di un patto. Soffermiamo ora
l’attenzione sulla prima dicotomia proposta, quella - di marca aristotelica –
tra oikoV e poliV. All’interno dell’ oikoV si instaurano tre diverse relazioni di potere, nota Aristotele:
a) la gamikh, ossia il potere esercitato dall’uomo
sulla donna; b) la patrikh, cioè il
potere esercitato dal padre sui propri figli; c) la despotikh, ossia il potere esercitato dal padrone
sugli schiavi. All’interno della poliV, invece, vige un diverso rapporto di potere, poiché si tratta di
un potere esercitato su uomini liberi e uguali (cosa che, evidentemente, non
avveniva all’interno dell’ oikoV).
La tradizione filosofica si è sempre occupata poco del rapporto di potere
esercitato dall’uomo sulla donna, e bisogna attendere fino al Novecento perché
esso venga esaminato con cura e messo in forte discussione: essendo stato
sorvolato dalla tradizione filosofica, lasceremo da parte il problema del
potere esercitato dall’uomo sulla donna. Il rapporto di potere del padrone
sullo schiavo è invece da sempre oggetto dell’indagine filosofica, giacché in
esso è stato ravvisato il punto di partenza della riflessione politica; anche
il potere del padre sui figli è sempre stato al cuore della riflessione e non
soltanto di quella filosofica: lo si può evincere dal fatto che i patriarchi
dell’Antico Testamento diventano i re, quasi a suggerire l’idea che i regni
nascano dall’ingrandirsi delle famiglie. A riguardo del rapporto di potere
intercorrente tra il padrone e il servo, Aristotele osserva che le monarchie
orientali (ed egli aveva in mente soprattutto la Persia) sono dispotiche per il fatto che il potere è esercitato non già su uomini liberi e
uguali, bensì su schiavi. Ancora Hegel, nelle sue Lezioni sulla filosofia
della storia, fa propria tale tesi, sostenendo che nell’antico mondo
orientale solo un uomo era libero (il sovrano), nel mondo greco e romano pochi
lo erano, nel mondo cristiano-germanico tutti lo sono. I Greci vivevano nella
presunzione di aver scoperto essi stessi, grazie alla poliV, la dimensione della politica: così
Aristotele può sostenere che la compiuta realizzazione della poliV è ottenuta soltanto nel momento in cui v’è
identità tra arcein e arcesqai, ossia tra il “comandare” e l’“essere
comandati”; ciò si verifica, all’interno della poliV greca, in forza della rotazione delle cariche e del
sorteggio delle medesime. Con la distinzione del potere padrone/servo,
padre/figli, potere politico su uomini liberi e uguali, ci troviamo ad operare
con forme di legittimazione del potere fra loro differenti: e se i Greci, che
pure le hanno individuate, non riescono a definirle con la massima chiarezza,
va ai Latini – che non eccellono in filosofia, ma primeggiano nel diritto – il
merito di aver saputo distinguere con precisione tra queste forme di potere e
di averne chiarito la legittimità. La legittimità del potere esercitato dal
padre sui figli si risolve, secondo i Latini, nel fatto che si tratta di un
potere naturale, ossia di un potere ex natura o anche ex generatione.
Il potere dispotico, che i Greci consideravano tendenzialmente come naturale
(così fa Aristotele stesso, che pure è consapevole che anche gli schiavi
facciano parte della razza umana), è dai Latini legittimato attraverso il
crimine: è cioè un potere che nasce ex delicto, ovvero dal compimento di
delitti. In questo senso, si diventa schiavi perché si sono commessi delitti,
siano essi la contrazione di debiti che non si possono pagare se non
vendendosi, o l’uccisione di qualcuno o, ancora, l’essere fatti prigionieri in
guerra (il vinto in battaglia, infatti, era dai Latini considerato come
appartenente a gente che stava dalla parte del torto e, perciò, era anch’egli
colpevole). La terza legittimazione fatta valere dai Latini è quella
riguardante il potere politico in quanto tale: esso è legittimato ex
contractu, ovvero dalla sottoscrizione di un contratto; ciò significa,
allora, che il rapporto politico fra uomini liberi e uguali è fondato
sull’accordo e sul patto, come già traspariva dal secondo libro della Repubblica
platonica [358 E–359 C]. È interessante sottolineare come per i Greci la
contrapposizione che ha maggiore rilevanza è quella tra potere dispotico e
potere politico; a tal proposito, Aristotele (Politica, I) scriveva: “l’autorità
del padrone e dell’uomo di Stato non sono la stessa cosa […]. L’una si esercita
su uomini per natura liberi, l’altra su schiavi. Inoltre la gestione della casa
è affare di uno solo”, mentre l’autorità dell’uomo di Stato non è
monocratica; lo Stagirita precisa inoltre che “il padrone, poi, non è così
in rapporto a una scienza, ma per la sua condizione, e così pure lo schiavo”:
la politica è frutto di una scienza, mentre il potere dispotico si fonda su uno
stato fattuale, sul fatto stesso che, per natura, alcuni siano liberi e altri
siano schiavi. Se saltiamo dalla Grecia del IV secolo a.C. all’Inghilterra del
Seicento di John Locke, scopriamo che la distinzione tra queste forme di
potere non è stata persa di vista. Locke infatti, a ridosso della “Gloriosa
Rivoluzione”, inizia così il secondo dei due Trattati sul governo
(paragrafo II): “il potere di un governante su chi gli è soggetto può essere
distinto da quello dei padri sui figli, del padrone sui servi, del marito sulla
moglie, del signore sugli schiavi. Può anche accadere che tutti questi distinti
poteri siano congiunti nello stesso uomo”. Più avanti, egli dà un’efficace
definizione del potere politico: “definisco il potere politico come diritto
di formulare leggi che contemplino la pena di morte e, di conseguenza, tutte le
pene minori in vista di una conservazione della proprietà […] tutto questo
soltanto in funzione del bene pubblico”. Tuttavia questa tripartizione
delle forme di potere, delineata da Aristotele e rimasta valida – come abbiamo
visto – fino a Locke, non ci dice ancora molto: ci dice soltanto che si possono
distinguere tre diversi tipi di potere a seconda di chi lo esercita e di colui
sul quale viene esercitato; abbiamo cioè soltanto chiarito i ruoli e il fatto
che il potere è sempre esercitato dall’uomo sull’uomo. Per addentrarci nella
riflessione e gettare luce sul problema, ci rivolgeremo ora a Max Weber
e alle sue tesi. Egli definisce chiaramente (in Economia e società) la
distinzione tra “potenza” (Macht) e “potere” (Herrschaft): la
prima non è che “qualsiasi possibilità di far valere, entro una relazione
sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà”. Si tratta,
evidentemente, di un concetto sociologicamente amorfo, che si limita a
sottolineare la componente volontaristica, nel senso che è in questione la
volontà più della ragione e di altre emozioni; la potenza presuppone che si
faccia opposizione a tale volontà e, per l’appunto, si ha potenza quando tale
volontà piega l’opposizione. Il potere è invece “la possibilità di trovare
obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato
contenuto”. Non abbiamo qui a che fare con l’indeterminatezza di una
volontà che supera l’opposizione, di una forza che vince la resistenza: abbiamo
invece a che fare con la coppia fondamentale di comando e obbedienza;
naturalmente il comando è in rapporto con la volontà (e, dunque, con la
potenza), ma a mancare è la resistenza: il comando generato dalla volontà è
cioè accolto senza opposizione. Ciò avviene perché v’è già un insieme di regole
che tengono insieme un gruppo, sicché in questo caso si parla di volontà
consapevole di sé e tale da esprimere, in un comando, un ben preciso contenuto.
La coppia comando/obbedienza è l’asse del potere politico in cui i rapporti
sono già sottoposti a regole; per riprendere la distinzione sostenuta da
Habermas in Teoria dell’agire comunicativo, potremmo dire che il
concetto di potenza si accompagna all’agire strategico, mentre quello di potere
viaggia di pari passo con l’agire regolato da norme. Pertanto questa
distinzione tra potenza e potere ci permette di isolare il potere
giuridicamente qualificato dal mero fatto della forza. Non è tuttavia ancora
stata specificata la natura del potere politico in questione, ma essendovi la
dimensione delle leggi, siamo in presenza di una legittimazione, nel senso che
chi riceve il comando ritiene giusto ottemperare ad esso. Proprio in ciò, ossia
nel fatto che il dovere di obbedire agli ordini è rispettato senza opposizione
perché ritenuto giusto, risiede la legittimità, la quale può però avere diversi
fondamenti: a tal proposito, Weber introduce l’importante distinzione tra tre
poteri legittimi. Tre sono state nella storia – egli rileva – le ragioni di
legittimità del potere, senza far ricorso alla forza:
1] L’autorità
della tradizione o, come ama dire Weber, l’autorità “dell’eterno ieri”:
la consuetudine ad obbedire diventa quasi una seconda natura negli uomini;
questa è la forma più antica di legittimità del potere e, di solito, si
appoggia al rafforzamento operato dalla religione coi suoi precetti.
2] L’autorità
data dal “carisma”, ossia dalle qualità eccezionali del detentore del
potere: si tratta di una qualità straordinaria che si impone nel gruppo e fa sì
che nasca una naturale propensione all’obbedienza; il carisma si è storicamente
declinato in tre forme: a) quella del profeta, b) quella dell’eroe militare, c)
quella del demagogo (ossia del capo politico dotato della straordinaria qualità
della parola, con cui incanta l’uditorio). Tra carisma e tradizione v’è una
forte tensione, giacché il primo tende all’innovazione e alla rivoluzione,
mentre il secondo mira alla conservazione di norme già affermate.
3] Tipicamente
moderna e occidentale è invece il “potere legale-razionale”, fondato
sulla razionalità degli ordinamenti: è il potere ex contractu dei
Latini, cioè quel potere che si genera consensualmente. Se il conservatore
obbedisce alla tradizione per motivi affettivi, se l’innovatore obbedisce al
carisma per una fascinazione emotiva (è il caso dei tiranni in Grecia), al
contrario chi obbedisce al potere legale non lo fa emotivamente, ma in maniera
razionale, giacché si tratta di un potere freddo e fondato sul ragionamento.