POTERE E VIOLENZA



Cercheremo ora di capire quale sia la differenza tra il potere e la violenza, incominciando a vedere come, in sede letteraria, le posizioni in merito possano configurarsi come alquanto diverse. Abbiamo in precedenza rilevato come, dietro alla riflessione sul potere, ve ne sia una più ampia sull’uomo, poiché non è possibile analizzare il potere senza basarsi su presupposti antropologici. Questi ultimi considerano in primo luogo la vulnerabilità umana da parte dell’uomo stesso e l’esigenza di costruire organismi che rendano sicura la convivenza tra gli uomini. Muovendo da questa premessa, la nozione di potere ci si presenta duplice: da un lato, v’è il potere di offendere, e, dall’altro, troviamo il potere di difendere. Questa ambivalenza è collocata nel codice genetico del potere stesso, ma ciò non elimina la possibilità di distinguere tra violenza e potere istituzionalizzato in configurazioni regolate dal diritto. Il potere di offendere non è che un potere di recar danno in generale o, più in concreto, di recare offesa corporea, violando l’integrità fisica di un altro essere umano; tra questi due estremi, si colloca anche il potere di emarginare e di escludere, anch’esso offensivo. Questo lato negativo del potere, che va dall’offesa corporea all’umiliazione dell’esclusione, culmina nella definizione della violenza: infatti, se portiamo alle estreme conseguenze le caratteristiche del potere offensivo, ci troviamo immediatamente proiettati nel regno della violenza. Significativamente, un sociologo di scuola weberiana, Popitz, nella sua opera Fenomenologia del potere, fa un’anatomia del potere stesso, cogliendo le varie modulazioni e arriva a definire il potere offensivo come “puro potere d’azione”, intendendo con ciò affermare che si tratta di un potere che presuppone uno scatenamento degli istinti nell’agire e che si rivela più impermeabile alle regole e, dunque, meno disciplinabile di ogni altro potere. Per capire che cosa intenda Popitz, possiamo anche solo pensare ad un gruppo di ragazzi che hanno un alterco; in essi scatta questo puro potere d’azione, si perde il controllo della situazione e si travalica ogni norma. Una definizione molto calzante della violenza è stata fornita da Sergio Cotta in Perché la violenza (1978), ove egli la definisce come una “forza senza misura”: una tale definizione non si attaglia invece al potere in quanto tale, giacché esso è al contrario una forza che ha e che dà misura. I caratteri portanti della violenza, che la distinguono dal potere, sono l’immediatezza, la discontinuità (connessa a sua volta a una terza prerogativa: la mancanza di durata), l’imprevedibilità (la violenza si manifesta infatti in maniera improvvisa, senza che se ne possano interamente cogliere i motivi scatenanti), la sproporzione tra il mezzo e il fine (si ricorre infatti ad un mezzo estremo che non giustifica il fine perseguito). Queste caratteristiche, prese nel loro insieme, definiscono una fenomenologia della violenza che può render conto non soltanto della violenza episodica, ma anche delle rivoluzioni: anch’esse, infatti, divampano in forza della violenza ed è innegabile il fatto che tutti i grandi cambiamenti, nella storia, si siano sempre realizzati ricorrendo alla violenza, cosicché il pacifico e ambizioso progetto kantiano di mutare le condizioni con le riforme e non con la violenza è andato sempre incontro a quelle che Hegel definiva le “dure repliche della storia”. Un’altra caratteristica imprescindibile della violenza è il suo impiego di armi: in origine, l’arma è  data dal corpo stesso dell’uomo, utilizzato come strumento di aggressione (il pugno, il calcio, ecc); man mano che il progresso è avanzato e che l’uomo ha inventato nuovi strumenti, hanno fatto la loro comparsa anche le armi (la lancia, le frecce, la pistola, i cannoni, fino alle testate nucleari). Sicchè si può notare come, nel dispiegarsi della violenza, vi sia sempre un’oggettivazione del corpo o una protesi ad esso esterna (l’arma). Tuttavia la violenza è lacerata al suo interno da un paradosso: essa appare come forza di potere compiuta, giacché è radicale nei suoi effetti, a tal punto che la piena disposizione dell’uomo sull’uomo si risolve nel potere di vita e di morte; e però, nello stesso tempo, la violenza rivela anche una strutturale incompiutezza nella misura in cui la decisione di eseguire la soluzione estrema (cioè la morte) non si lascia monopolizzare, dal momento che chiunque (e non solo alcuni individui) può recar morte. Così Hobbes notava che, nell’originario stato di natura, l’uomo vive nell’uguaglianza e tale uguaglianza non consiste se non nel fatto che ciascuno può uccidere gli altri; un uomo grande e grosso può uccidere senza fatica una fanciulla in tenera età, ma anche questa può ucciderlo, magari avvelenandolo o colpendolo nel sonno; da ciò si può evincere l’uguaglianza regnante nello stato di natura. Il fatto che non possa essere monopolizzata, mette in luce come la violenza sia caratterizzata da incompiutezza e da instabilità: ciascuno può certamente dar la morte all’altro e, in questo modo, affermare radicalmente il proprio potere, ma vi è sempre un quid di aleatorio e di imprevedibile nella misura in cui chi può uccidere può parimenti essere ucciso. Proprio per questa ragione, la violenza si trova ad oscillare tra i due estremi del potere compiuto e del potere incompiuto. Se ora guardiamo al potere di difendere, di custodire, di preservare un gruppo e una comunità, e dunque a un potere costituente (tale cioè da costituire gli altri poteri dello Stato), notiamo fenomeni altrettanto importanti di quelli del potere come violenza. Come la violenza è forza senza misura, così il potere è forza che ha e che dà misura. Da ciò evinciamo che la forza è presente tanto nel potere offensivo quanto in quello difensivo: essa è, per così dire, l’elemento strumentale a cui fare riferimento; a variare è soltanto il modo in cui tale strumento viene impiegato. In Sulla violenza, Hannah Arendt cerca di definire con chiarezza i concetti di violenza, di potere, di autorità e di forza; proprio a riguardo di quest’ultima nozione, ella scrive che “dovrebbe essere riservata, a rigor di termini, per la forza della natura o delle circostanze, per designare cioè la forza sprigionata dai fenomeni naturali o dai fenomeni sociali”. Nella prospettiva arendtiana, la forza designa dunque l’accumulo di un’energia (sociale o naturale) organizzata e ciò non fa che confortare la nostra tesi secondo cui essa è presente tanto nel potere offensivo quanto in quello difensivo. Il che ci aiuta inoltre a comprendere come il potere duri nel tempo: così Elias Canetti, in Massa e potere, dice che “quando la forza dura a lungo, diventa potere”. Pertanto il potere, oltre che forza con misura, è forza che dura: al contrario, la violenza né dura né ha misura. Affermare ciò non significa tuttavia escludere che tra il potere così inteso (come forza che dura) e la violenza possa esserci un qualche rapporto, e anzi le vicende storiche ci segnalano che un rapporto v’è stato. E però è accaduto che, a un certo punto, la forza, da meramente offensiva, si sia capovolta in forza difensiva: ciò è in particolare accaduto quando essa, dopo aver debellato i nemici e, dunque, dopo aver esaurito il suo compito offensivo, ha cominciato a proteggere gli “amici”, secondo una dinamica già ben nota a Machiavelli. Chi ha il potere, infatti, offre protezione e, in cambio, esige obbedienza. Si tratta però di capire come avvenga questo processo di consolidamento del potere, come la forza originaria apprenda a durare nel tempo e come quella forza originariamente polivalente a un certo punto si autodisciplini e cominci ad essere impiegata con misura e in occasioni eccezionali: proprio in ciò risiede il processo di istituzionalizzazione del potere ed è ciò su cui ci soffermeremo più avanti. Arendt, dal canto suo, sfida il senso comune e nega la connessione tra potere e violenza: ella anzi li oppone, sostenendo che la violenza ha carattere puramente strumentale, tanto da essere “vicina alla forza individuale”. L’idea che potere e violenza viaggino in coppia è un dogma che ha monopolizzato, da Platone in avanti, la cultura occidentale, la quale non si è accorta – nota Arendt – del fatto che il potere corrisponde piuttosto alla capacità umana non solo di agire, ma di agire insieme; è dunque una capacità di un gruppo ed esiste fintanto che il gruppo resta unito. Chi è al potere, v’è stato posto – argomenta la Arendt – da più persone affinché agisse in loro nome; proprio con la pluralità umana e, di conseguenza, con la natalità (tema agostiniano) ha a che fare la politica, e la definizione che Arendt dà del potere è, in questo senso, orizzontale. Infatti, mentre Weber, parlando di potere e di obbedienza, ha un’immagine gerarchica e dunque verticale del potere, Arendt ne ha un’immagine orizzontale, poiché a suo avviso si può parlare di politica e di potere soltanto se vi sono più individui che agiscono insieme in uno spazio pubblico e attraverso discorsi liberi. Ne segue che, là dove non v’è pluralità o là dove essa è appiattita alla sua mera naturalità (per cui ci sono sì gli individui, ma non si instaurano tra loro relazioni di azioni libere e di discorso libero), là vi sono regimi totalitari e impera la violenza, cosicché non è dato parlare né di politica né di potere.

 

 


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